EWT N.29/2024

N. 29

Urbanistica delle regole, urbanistica del progetto

Pier Carlo Palermo

1. Sotto traccia

Perché il discorso pubblico sull’urbanistica da tempo, in Italia, è diventato così sommesso o elusivo? Questo potrebbe essere un orientamento voluto oppure un effetto solo collaterale, ma l’impressione è che alcuni problemi essenziali rimangano sotto traccia, mentre enfatica e assertiva risuona la neolingua degli urban developers, che promettono – anzi danno per certi – dei risultati memorabili. Nelle vicende recenti di Milano, trovo conferme palesi della tendenza. Operatori di mercato si proclamano maestri della rigenerazione e vantano successi rilevanti per l’intera società urbana. Nel frattempo, il discorso pubblico sul nuovo PGT in elaborazione resta marginale: non solo saltuario e poco partecipato, ma flebile o omissivo rispetto a questioni cruciali. Inquinamento, traffico, congestione non sembrano temi al centro dell’attenzione, per quanto i problemi siano sensibili: come se le sfide tuttora aperte fossero ormai da considerare intrattabili. Verde e casa: questo almeno è un terreno ufficiale di impegni o di promesse per il futuro; manca, però, un bilancio sugli squilibri oggettivi e consistenti che si sono formati nel settore edilizio e nel mercato urbano. Grandi progetti di trasformazione: non c’è traccia di un bilancio delle esperienze compiute negli ultimi decenni e dei processi importanti tuttora in corso (in bilico per diversi aspetti rilevanti); la regolazione degli indici di edificabilità resta ancora lo strumento principale di governo. Visione? Nulla più che un racconto edificante, che auspica una città «equa, prossima, bella e sostenibile»; senza una cura evidente per i problemi ereditati che sono tangibili, al momento, e che le politiche urbanistiche finora non hanno saputo risolvere e neppure contenere. Un’attenzione condivisibile per una serie, forse troppo ambiziosa, di progetti strategici: dalle numerose «porte della città» alla cura diffusa dello spazio pubblico, grazie ai nuovi «atlanti di quartiere». Questo significa raccogliere una sfida attuale, sulla scena internazionale, come «gouverner par projets»”? Alludo alla tendenza innovativa che si è manifestata con forza in un paese come la Francia, che aveva sempre espresso una cultura urbanistica tradizionale (Pinson, 2009). Non è questo il caso, perché nello stesso tempo a Milano si continua ad auspicare una capacità regolativa più rigida e certa; anche per liberare l’amministrazione dai rischi di contestazioni giuridiche. Tuttavia, è troppo semplice immaginare di poter potenziare al tempo stesso la forza cogente delle regole e la capacità d’azione progettuale: i due obiettivi possono entrare in tensione, come hanno dimostrato innumerevoli esperienze. Eppure anche questo nodo fondamentale resta ancora sotto traccia. Come se una grande mutazione non fosse avvenuta da tempo un po’ ovunque: dall’ideologia del progetto moderno, come disegno generale e prescrittivo, verso una concezione più flessibile, adattativa, contingente dei processi reali di trasformazione urbana (Palermo, 2022). Questa è la sfida di governo da interpretare in modi trasparenti e responsabili, oltre che efficaci. Quale è la posizione dell’amministrazione milanese rispetto al dilemma che si configura fra le istanze di regolazione preventiva e di progetto emergente? Non è noto. Meglio indugiare su racconti edificanti di buone intenzioni e obiettivi virtuosi. Io dubito, però, che l’urbanistica possa riconquistare reputazione sociale e garantire prestazioni pubbliche più soddisfacenti, se non è disposta a chiarire le sue visioni e responsabilità rispetto ad alcuni nodi che potenzialmente sono contradditori. La legge urbanistica lombarda è datata; ha sempre suscitato dubbi e obiezioni. Quali benefici effetti possiamo attendere da un’applicazione meccanica, che continua a eludere i nodi più critici?

Le possibilità di un cambiamento di rotta sembrano esili. Forse prevalgono alcuni obiettivi strumentali: assolvere alcuni adempimenti formali che giuridicamente sono considerati indispensabili, limitando però, per quanto possibile, i problemi conseguenti. Forse pesa qualche difficoltà culturale: prendere atto della crisi irreversibile del progetto moderno, ma anche riconoscere il sostanziale insuccesso dei programmi rifornisti avviati un po’ ovunque nel tardo ‘900. Quale visione potrebbe guidare tecnicamente le pratiche attuali verso esiti più confortanti? In una fase di evidente incertezza che può diventare una condizione di stallo, io penso che sarebbe utile ripensare le esperienze e riflessioni di alcune figure di spicco della nostra storia recente. Negli anni ‘90, l’elaborazione di Urbanisti italiani (a cura di Di Biagi e Gabellini, 1992) è stata un’operazione innovativa e fertile (che l’INU ha voluto rilanciare recentemente: Fini, a cura, 2022). Per ragioni diverse, oggi appare chiaro che non è più scontata l’attualità delle figure allora evocate come classici dell’area disciplinare. L’attenzione dovrebbe essere estesa almeno alla generazione degli anni ‘30 (Palermo, 2025). In questa sede, io vorrei fare riferimento a un solo autore che proprio nel contesto milanese ha dato contributi di rilievo al tema delle relazioni fra regole e progetti nelle pratiche dell’urbanistica contemporanea. Alludo alla figura di Gigi Mazza: ripensare le sue riflessioni e proposte può essere una traccia utile per affrontare alcuni temi critici, evidentemente irrisolti nel lungo periodo.

2. Un esito inatteso

Studiando con una certa cura le opere e il profilo (Palermo, 2025; cap. 5), uno dei risultati più interessanti, a mio avviso, è stato rilevare alcuni elementi di discontinuità, nel lungo periodo, della visione e del progetto urbanistico; una svolta che a me pare netta, forse sorprendente, probabilmente sottovalutata dalle riflessioni disciplinari. Gigi Mazza è l’urbanista che, ragionando sulle esperienze direttamente compiute, fin dai primi anni ‘80 ha riconosciuto i limiti oggettivi delle pratiche ordinarie (un quadro di sintesi si trova in Mazza, 1987). Pertanto, si è impegnato tenacemente per la costruzione di una disciplina più matura, legittima ed efficace, che potesse valersi di regole e tecniche fondate su un sapere più evoluto, per produrre scelte socialmente meglio giustificate. Quello è stato il tema cruciale di interesse della sua ricerca, almeno fino alla metà degli anni ‘90 (la conferma si trova in numerosi saggi ripubblicati in Mazza, 1997, 2004a, 2004b). L’impegno, tuttavia, non ha dato i risultati attesi, nel lungo periodo. Infatti, paradossalmente, Mazza è diventato uno dei testimoni più lucidi di una concezione «debole» dell’urbanistica, che deve abbandonare le istanze originarie di regolazione e controllo per misurarsi con i problemi incombenti della flessibilità e discrezionalità delle scelte pubbliche. La svolta era già palese in Mazza, 2004c; è diventata più matura – e radicale – grazie a una serie di contributi successivi: Mazza, 2010, 2011, 2012.

In effetti, una deriva affine si è manifestata negli stessi anni sulla scena internazionale, dove risultano sempre più influenti le dimensioni dell’informale, del tattico, del temporaneo (Palermo, 2025, capp. 9 e 14). Il senso del movimento, però, non appare univoco, né scontato. La tendenza poteva esprimere un atteggiamento disciplinare ormai rassegnato, forse opportunistico, che prendeva atto della crisi dei modelli gloriosi e cercava di adeguarsi alle condizioni esistenti, senza esitare di fronte ai compromessi inevitabili. L’interpretazione che Mazza ci ha proposto non rinunciava, invece, alla rivendicazione, alla speranza di un ruolo disciplinare ancora critico e propositivo, se pur da riformulare secondo modalità più coerenti con i tempi e i modi della «società del rischio», con i valori e i comportamenti della «condizione postmoderna». Resta il fatto che la discontinuità rispetto alle posizioni originarie è un dato oggettivo. Se vuole essere influente, nel mondo che cambia, l’urbanistica deve accettare una metamorfosi profonda. Griglia e zoning (due principi fondamentali secondo le tesi dell’autore negli anni ‘80 e ‘90) non rappresentano più una risposta tecnica esauriente. Altre ipotesi, altre pratiche devono essere esplorate. Mazza, fin dalle soglie del secolo, ha anticipato una visione e un programma di lavoro fortemente innovativi, perché tendevano a riconoscere la debolezza costitutiva dell’azione urbanistica, rivendicando al tempo stesso un’«etica delle responsabilità». La sfida era affrontare in modi non solo efficaci, ma legittimi, trasparenti, accountable, temi insidiosi come la flessibilità delle regole e la discrezionalità delle scelte pubbliche. In una prima fase, quelle riflessioni e proposte sono state accolte con diffidenza o palesemente rifiutate da larga parte dell’area disciplinare. Un paio di decenni dopo, però, diverse iniziative di riforma (la nuova legge regionale della Emilia-Romagna, nel 2017; gli orientamenti neo-riformisti più recenti dell’INU) hanno dimostrato la ragionevolezza, forse la necessità di una simile svolta, ormai destinata a una chiara e diffusa legittimazione (si veda il caso di Bologna, EcoWebTown, n. 27, 2023). Anche se vicende come quella milanese sembrano indicare che la soluzione dei problemi non è a portata di mano.

In ogni caso, io credo che sarebbe un errore sottovalutare la radicalità del cambiamento nel percorso di Gigi Mazza, ma anche negli orientamenti successivi dell’urbanistica italiana. Ancora meno giustificata mi pare la tentazione di coltivare una rappresentazione integrale del suo pensiero, che vorrebbe rilanciare tutti i temi della ricerca, anche quelli che non hanno superato le prove dell’esperienza. È vero che l‘autore ha voluto rievocare tutti i passi principali del suo itinerario in alcune opere di sintesi (Mazza, 2013, con Gaeta e Janin Rivolin; Mazza, 2015 e 2016), ma spetta al lettore la responsabilità di un’interpretazione critica. L’appello a una concezione ortodossa dell’ordinamento spaziale e della regolazione urbanistica diventa incompatibile con l’approdo a una concezione «debole» della disciplina; una mossa sofferta, che rappresenta però lo stadio più avanzato della elaborazione di Gigi Mazza. Come ci suggerisce Alessandro Pizzorno (secondo l’interpretazione di Gian Primo Cella: Pizzorno, 2023), abbiamo certamente bisogno di ritrovare i «nostri classici», ma non possiamo accontentarci delle «maschere» che le letture più scolastiche e fideistiche rischiano di associare ai grandi del passato.

3. Tragico, ma generativo

Riconoscere lo scacco (quanto meno parziale) di un progetto tecnico e sociale non significa non rendere onore all’intenzionalità sottesa; anzi, a me pare il modo più degno per dare evidenza alla rilevanza di una figura, anche se alcuni programmi, come normalmente accade, sono rimasti incompiuti. Una dimensione intrinsecamente tragica dovrebbe essere familiare al mondo dell’urbanistica, perché la complessità dei problemi può ispirare visioni coraggiose, che tuttavia non riescono a trovare sbocchi concreti. Non raramente la situazione che si configura è oggettivamente tragica perché il progetto tentativo non sembra ammettere vie d’uscita. Curiosamente, il tema continua a emergere, con forza ed evidenza, nel caso italiano, mentre resta sotto traccia in altri contesti.

Il progetto riformista di Campos Venuti (1987, 1991) è nato grazie alla capacità di revisione critica del modello di urbanistica ideato dal maestro Piccinato (anche se la critica di quella tradizione è rimasta in larga misura latente). Peraltro, anche il progetto riformista (come lo stesso Campos ha riconosciuto, 2010) ha incontrato difficoltà non facilmente superabili; già emerse in diversi paesi europei che avevano esplorato quella via con qualche anticipo rispetto al caso italiano. Il rilancio di una concezione del piano design-oriented da parte di Bernardo Secchi è stato una reazione allo scacco dell’urbanistica burocratica, purtroppo dilagante negli anni ‘80. Peraltro, il nuovo approccio si è rapidamente rivelato insostenibile. Lo stesso Secchi ha ritenuto opportuno orientarsi verso pratiche (alternative) di visioning, che avrebbero dovuto dare sostanza agli orientamenti strategici che stavano (ri)emergendo nella cultura urbanistica, ma non hanno conseguito esiti pari alle attese. Guardando sempre all’area milanese, Pier Luigi Crosta ha dimostrato in modo inconfutabile l’inconsistenza di alcuni presupposti dei principali paradigmi disciplinari, ma le sue lucide analisi rischiano di essere intese come la negazione della possibilità di qualunque azione di regolazione e controllo. Gigi Mazza ha condiviso con Crosta alcuni argomenti di critica (e auto-critica). Non ha mai rinunciato però alla responsabilità di costruire un’urbanistica migliore. L’esito, come ho anticipato, è stato in larga misura non intenzionale (un vero caso di serendipity rispetto agli obiettivi originari). Si tratta, comunque, di una delle teorie più complete oggi disponibili di «urbanistica debole», certamente lontana dalle aspirazioni iniziali, ma forse in grado di rispondere in modo più adeguato alle condizioni emergenti del contesto. Il sorgere di effetti non intesi non è un caso eccezionale in questo campo. La sperimentazione di Campos non ha portato alla scoperta del modello ideale di pianificazione, ma ha testimoniato la centralità (generalmente sottovalutata nell’area disciplinare) delle politiche urbanistiche (tema anticipato fin dai tempi di Amministrare l’urbanistica, 1967). Gli esperimenti di Secchi hanno dimostrato la difficoltà di restituire un progetto all’urbanistica, ma anche di conciliare i temi della progettazione fisica e dell’analisi politica e sociale. Per il suo profilo intellettuale, Bernardo Secchi poteva essere considerato il candidato ideale per interpretare degnamente quelle ambizioni e relazioni; eppure i risultati non sono stati entusiasmanti. Un effetto collaterale merita attenzione: forse dovremmo prendere atto che non è più tempo (soltanto) di «grandi visioni», se non sono accompagnate da un lavoro paziente, pragmatico, concreto rispetto a temi e problemi di interesse emergente (anche se, agli occhi di Secchi, quella prospettiva sarebbe forse parsa riduttiva, come ogni approccio «incrementalista»). La decostruzione inesorabile che Crosta ha compiuto rispetto al linguaggio e alle pratiche disciplinari non comporta come esito soltanto la dissoluzione delle ambizioni e pretese dell’urbanistica tradizionale, ma potrebbe indurre a una maggiore attenzione verso certe posizioni eretiche (come le visioni di Hirschman, Lindblom, Weick o Donolo), che in questo campo potrebbero risultare illuminanti. In tutti questi casi, lo scacco del progetto originale non ha escluso la possibilità di conseguenze fertili (se pur non strettamente intenzionali). Il rischio concreto di un esito tragico non preclude un potenziale generativo.

Curiosamente, questo orientamento e i nessi relativi sembrano meno significativi nel quadro internazionale. La letteratura specialistica su planning e design è povera di riflessioni auto-critiche. Non mancano le accuse rivolte al mondo esterno, che non sarebbe sufficientemente sensibile rispetto al sapere e alle proposte degli esperti; sorprendentemente rara è la disponibilità a mettere in discussione la visione, anche quando le prove dell’esperienza dovrebbero suscitare qualche dubbio. John Friedmann (1987) è probabilmente il testimone più autorevole della carenza di critica e auto-critica nell’area disciplinare. Soggettivamente ha sperimentato visioni opposte, anzi inconciliabili, come il planning razionalista oppure le ideologie e le pratiche insorgenti, ma non ha mai considerato come un problema la transizione da un campo all’altro, e neppure la loro (inverosimile) convivenza: aprendo la via a un eclettismo disciplinare che io trovo pernicioso. Secondo Andreas Faludi, il paradigm shift sarebbe un’operazione che è possibile affrontare con leggerezza, anche senza una critica trasparente delle posizioni che sembra necessario abbandonare, né una giustificazione adeguata del cambiamento che viene suggerito. Infatti, Faludi ha proposto una sequenza impressionante di svolte radicali – l’idea di pianificazione come scienza positiva, come razionalismo critico, «decision-centred view», spatial planning (vs. territorialism), «new medieval spatial order» – senza sentire il bisogno di riflessioni critiche e giustificazioni sui temi e modi del cambiamento. John Forester ha sempre voluto privilegiare il ruolo dell’urbanista come attore dei processi di interazione sociale, ma non ha sciolto un’ambiguità radicale: fra la visione comunicativa originaria, ispirata dalla teoria critica della Scuola di Francoforte, secondo valori di emancipazione e progresso (Forester, 1993), e un approccio pragmatico, sempre più influente nel corso del tempo, che dava rilievo (soltanto) alle funzioni negoziali o persino terapeutiche del lavoro dell’esperto. Sempre di interazioni si tratta, ma il profilo di ruolo e il senso dell’azione diventano non comparabili. Altre figure note si distinguono, invece, per la continuità delle posizioni nel tempo, che rischiano di risultare poco riflessive e incapaci di rinnovamento, anche quando gli esiti delle esperienze sollevano molti problemi. Penso a Patsy Healey, come tenace testimone dell’ideologia del «collaborative planning»; a Judith Innes, che si è fatta interprete di una trascrizione scolastica, nel campo urbanistico, della «teoria comunicativa» habermasiana; a Emily Talen, che non ha mai deposto le insegne del «new urbanism», come ricetta presunta per affrontare un’indebita varietà di problemi (quasi si trattasse di un nuovo CIAM). A Donald Schön non si può negare un’inclinazione riflessiva, che però non è giunta mai a mettere in discussione la continuità del ruolo professionale (più radicale è la visione di Pier Luigi Crosta). In generale, un orientamento pragmatico risulta più ragionevole e sostenibile nel corso del tempo (per esempio, Charles Hoch, 1994; Ernst Alexander, 1992, 2022). È vero però che l’approccio rischia di risultare più generico o vago: perché assume meno rischi, ma anche minori impegni e responsabilità. Come le rassegne sulla planning theory, che esitano a distinguere e scegliere fra le posizioni in gioco (anche se incompatibili), ma si limitano a un cortese censimento della varietà delle idee, spesso povero di inquadramento critico e di valutazioni di merito (anche da parte degli autori più interessanti, come Philip Allmendinger, 2017, o Robert Beauregard, 2020). La conclusione è dunque deludente: sarebbe illusoria la fiducia di poter trovare risposte convincenti ai problemi aperti in questa vasta e confusa area di riferimenti (Palermo, 2022). La consapevolezza di questi limiti non è mai mancata a Gigi Mazza. Anche se lo stile della sua argomentazione è stato sempre paziente e garbato, i giudizi espressi su questi temi sono sostanzialmente coerenti con la prospettiva che ho rapidamente delineato (un documento esemplare è Mazza, 1995). In questo quadro, confesso di provare nostalgia per alcuni elementi del dibattito italiano, più ricco di tensioni, rischi, tragedie, ma anche di tentativi (giustificati) di rinnovamento.

4. Ombre e luci

Il percorso di Gigi Mazza rappresenta bene la tendenza. Ritengo che una rappresentazione celebrativa sarebbe poco fertile (probabilmente, susciterebbe l’ironia dell’autore). Mi sembra più interessante provare a mettere a fuoco i temi più controversi delle sue esperienze che, come normalmente accade, presentano luci e ombre. Schematicamente, sceglierò cinque questioni di interesse emergente su ciascuno dei due fronti. Iniziando proprio dai punti della sua visione e sperimentazione che a me sembrano meno convincenti: perché spesso è dagli insuccessi che possiamo trarre elementi più utili di riflessione e apprendimento.

La prima osservazione critica è che non ha avuto successo l’ambizione originaria di assicurare alla disciplina un sapere tecnico (finalmente) più maturo e rigoroso. Quella è stata quasi un’ossessione nel lungo periodo; che nasceva dall’inadeguatezza evidente dello stato delle arti e dall’esigenza di trovare giustificazioni più esaurienti per le scelte urbanistiche in discussione. Una prospettiva coerente con la migliore tradizione neo-illuminista. L’impegno non ha prodotto risultati significativi, neppure nella sfera più limitata dello zoning. Gli approfondimenti delle relazioni fra divisioni dello spazio e condizioni sociali sono stati modesti (potremmo concludere che la zonizzazione funziona meglio, o soltanto, nelle versioni più rozze). Nello stesso tempo, la concezione di Mazza della progettazione fisica è parsa sempre un po’ riduttiva: come se il progetto di architettura o di architettura urbana fosse soltanto un riflesso della poetica individuale di qualche town planner. Le attese verso la «pianificazione di struttura», invece, sono state probabilmente eccessive: sembrava quella una buona via per offrire migliori argomenti a scelte urbanistiche da inquadrare in un contesto opportunamente complesso. L’esperimento non ha dato risultati convincenti e rapidamente è caduto in declino. La conclusione è che le attese più ambiziose sono andate deluse. I progressi sul fronte del sapere tecnico dell’urbanista non sono stati sostanziali.

Il secondo nodo critico riguarda in particolare lo strumento dello zoning. Che Mazza ha chiaramente inteso come un fondamento disciplinare dal quale non era possibile prescindere: sopprimete quelle regole e l’urbanistica si dissolverà, come dispositivo tecnico e sociale. Eppure già nel cuore del ‘900 erano palesi dubbi e critiche sul tema (Palermo, 2025, cap. 5). Oggi persino a Bologna, casa-madre dell’urbanistica riformista italiana, si disegnano areole e ideogrammi. Dobbiamo concludere che la valutazione di Mazza era discutibile? Il dubbio appare legittimo. Eviterei anche di dare troppo peso alla possibilità di garantire una funzione di controllo sociale grazie al tracciamento di confini nello spazio. È vero che viviamo in tempi nei quali si moltiplicano i muri di divisione, ma è paradossale insistere sul potere del solco che divide nel caso dell’antica Roma, che ha saputo contaminare, se non integrare, una varietà di popoli e culture. Infatti, Mazza ha voluto riprendere il mito di Romolo e Remo illustrato da René Girard (1987), ma Eva Cantarella (2010) ha dimostrato che altre immagini mitiche, come la figura di Enea migrante, potrebbero essere più fertili nel caso in questione.

Il terzo nodo critico è l’attenzione verso il tema «spazio e cittadinanza», nel corso degli ultimi 15 anni. L’orientamento esprimeva l’esigenza di ripensare i temi del sociale. Non sembrava più sufficiente rappresentare le differenziazioni sociali nello spazio, o presupporre dei nessi causali fra disegno di confini e forme di controllo sociale. La produzione sociale dello spazio e la riproduzione della società urbana dovevano essere intese come processi di assemblage di strategie, progetti, movimenti di parte (nel senso prefigurato da Bruno Latour, 2005). La possibilità di fruire dei diritti di cittadinanza diventava un indicatore significativo della qualità della condizione sociale e urbana. Possiamo concludere che l’urbanistica è una tecnologa rilevante per la produzione di cittadinanza? Può essere questa la chiave per rilanciare, oggi, la funzione e il senso della disciplina? Il giudizio dipende dalla fase, dal contesto, ma anche dalla concezione tecnica dell’urbanistica. È il caso di distinguere: l’impatto sui diritti civili e politici sarà sempre marginale; potenzialmente più rilevante è la funzione possibile sul fronte dei diritti sociali e di quelli ambientali (la dimensione di interesse emergente). Ma attenzione, la stessa considerazione potrebbe valere per altre famiglie di politiche pubbliche. Inoltre, l’impatto viene a cambiare nel corso del tempo. Paradossalmente era forte in alcuni progetti di precursori come Howard e Geddes, quando il welfare state non esisteva come istituzione; diventa marginale oggi se le scelte urbanistiche restano vaghe fino al compimento delle operazioni effettive. In un quadro così variegato, io sarei cauto prima di proporre la produzione di cittadinanza come principio guida e misura essenziale della qualità dell’azione urbanistica.

Il quarto nodo critico riguarda la scoperta della figura di Henri Lefebvre, più o meno nello stesso periodo. Una scelta sorprendente e, a mio avviso, poco giustificata. Lefebvre si è occupato anche di urbanistica e di architettura, ma in modo marginale e non innovativo (come ha documentato Stanek, architetto di Delft, 2011). Il suo profilo filosofico-sociologico è strettamente legato a una fase storica oggi lontana (gli anni ‘60-‘70 in Francia); anche se dopo la morte (1991) si può constatare una notevole ripresa di interessi, peraltro secondo letture diverse: ancora strutturalista da parte di David Harvey (1973, 2014), postmoderna da parte di Edward Soja (1996). È possibile conciliare la tradizione marxista dura con una vena libertaria-situazionista? Quale può essere la linea di influenza più fertile nel nostro campo? Perché mai una di queste prospettive dovrebbe essere considerata rilevante per le visioni e le pratiche dell’urbanistica? Si tratta di dilemmi o dubbi ai quali Gigi Mazza non offre realmente una risposta. Chiara e condivisibile è l’esigenza di ripensare il sociale. La scelta di Lefebvre come riferimento resta un dato sorprendente per un autore che ha ammirato il riformismo di Cerdà e il ruolo istituzionale di Abercrombie e di Astengo.

Ecco l’ultimo punto critico. L’album di famiglia che Gigi Mazza ha voluto configurare comprende le figure di Cerdà, Howard, Geddes, Abercrombie e Lefebvre. Il quadro d’insieme può suscitare qualche problema, di pertinenza, coerenza e rappresentatività. Sono questi i precursori o comunque le fonti più significative? Come possono convivere? La varietà degli interessi e delle visioni dovrebbe diventare fonte di riflessione critica e indurre a qualche scelta di campo; non può diventare un alibi o il trionfo dell’eclettismo.

Le obiezioni non sono dunque marginali. Ci sono però anche i punti di forza, tanto chiari e convincenti da consentire una trattazione ancora più sommaria. Il primo tema fortemente innovativo, fin dagli anni ‘80, è stato la sensibilità verso i problemi degli squilibri, della politica, dell’attuazione, che erano interdetti dalla disciplina ufficiale. Sono stati la chiave di una critica radicale dell’ortodossia del piano generale e prescrittivo, sempre accompagnata dalla volontà di costruire un’alternativa. Come Pierluigi Crosta e in linea con alcune tendenze internazionali, Mazza ha saputo dare un rilievo inusuale e ben giustificato alle sfide della «politica del piano».

Il secondo punto di forza è stato, fin dagli anni ‘80, la necessità di giustificare le scelte urbanistiche. Un tema ovvio all’apparenza, eppure trattato in forme spesso e sempre più evanescenti (oggi nei piani bastano poche pagine o righe di chiacchiere banali). Il tentativo di Mazza, 40 anni fa, di sollecitare una riflessione etica non ha avuto grande seguito, ma è stato una mossa giusta.

Il terzo punto di forza è la chiarezza rispetto ad alcuni luoghi comuni emergenti. Trovo insopportabile la marea di parole vuote che dal tardo ‘900 hanno accompagnato la presunta scoperta del strategic spatial planning. Che spesso comporta una confusione indebita fra strategy-making e strategic thinking che qualunque esperto di strategie d’impresa avrebbe potuto confutare (Mintzberg, 1994). Nei primi anni ‘90, Mazza ha scritto parole definitive sull’argomento: non ha senso parlare di strategic planning se si elude il tema politico della formazione della coalizione di interessi che dovrebbe realizzare la strategia (Mazza, 1994). Questa opportuna precisazione è sufficiente per mettere fuori gioco una parte cospicua dei presunti contributi disciplinari sul tema.

Il quarto punto di forza è la presa di responsabilità rispetto a due temi che la disciplina ufficiale vorrebbe mettere al bando, ma continuamente riemergono nelle pratiche correnti: flessibilità, discrezionalità. In linea di principio, queste modalità dovrebbero configurare qualche forma di anti-planning; in pratica, rischiano di diventare la norma nei processi ordinari di pianificazione. Il problema è dare evidenza a questo dato di fatto, per consentire un trattamento giusto e sostenibile. Gigi Mazza ha avuto il merito di non eludere la questione e di formulare ipotesi e proposte plausibili. Non è solo sua la responsabilità se gli sviluppi sono stati modesti e gli stessi problemi sembrano oggi irrisolti (come conferma il caso del nuovo PGT di Milano).

L’ultimo, fondamentale punto di forza è la scomposizione e articolazione della forma-piano – il totem del passato – secondo componenti/funzioni distinte e complementari: regole, visioni e progetti (Mazza, 2003, 2011, 2012). La sfida oggi non è soltanto produrre un nuovo piano, ma come trattare e mettere in rete questi elementi essenziali, che potrebbero essere intesi in modi almeno in parte indipendenti. Cambia la prospettiva: Mazza ha saputo indicare una direzione di lavoro originale e promettente. Nel complesso, i suoi contributi potrebbero modificare radicalmente lo scenario disciplinare, grazie all’apertura verso la politica, la giustificazione, le responsabilità discrezionali, il riconoscimento e la necessità d’integrazione di molteplici funzioni. Lo strumento principale di governo è la regola per la città consolidata, ma è il progetto urbano per le aree di grande trasformazione. L’ipotesi non è inedita: è stata anticipata da Quaroni negli anni ‘60; messa alla prova da Gregotti e Secchi una ventina d’anni dopo. «The Devil is in the definitions», come si usa dire. Il nodo cruciale è la legittimazione dei progetti emergenti. La valutazione era affidata direttamente all’esperto responsabile del piano nel caso di Gregotti e Secchi. Mazza preferisce fare affidamento su un soggetto istituzionale formalmente indipendente (come una commissione di esperti), che peraltro non dovrebbe operare in totale autonomia, ma entro il quadro politico e tecnico tracciato dall’amministrazione responsabile. Quel quadro consiste in una visione guida, come espressione spaziale di un programma politico, e nella selezione di regole relative alla formazione e valutazione dei progetti, da mettere a punto grazie al lavoro dei tecnici. Come concepire un quadro di riferimento spaziale e strategico che svolga degnamente le funzioni annunciate? Le difficoltà sperimentate dal piano-idea di Quaroni o dalla vision di Bernardo Secchi ci segnalano che il problema non è banale. Il rischio è di cadere in interpretazioni davvero riduttive come quella prefigurata dal nuovo PGT di Milano (che, per quanto inadeguata, sembra essere la soluzione più comune). Come formulare tecnicamente le regole che disciplinano la creazione e legittimazione dei progetti urbani strategici? Verosimilmente, quelle regole devono presentare caratteri ipotetici o condizionali; il dilemma certezze/discrezionalità diventa dunque una responsabilità che è difficile eludere. Per i quadri come per le regole, in questo campo il problema non riguarda soltanto la sapienza tecnica (che non è scontata), ma innanzi tutto la presa di responsabilità politica. Concettualmente, la visione che Gigi Mazza ha delineato appare bene articolata, coerente, innovativa e anche robusta. La sua interpretazione presenta però molte insidie, in qualunque contesto. Può accadere che la politica e la tecnica non siano disposte a impegnarsi su quel fronte. È più facile ripiegare su versioni banali, ma quasi irrilevanti (come quella milanese), che neppure sfiorano i problemi principali.

Se l’urbanistica è debole

Presa sul serio, la visione che Gigi Mazza ha disegnato comporta una discontinuità sostanziale rispetto alle principali tradizioni dell’area disciplinare; anche rispetto alle istanze che lo stesso autore ha sostenuto nella prima fase delle sue sperimentazioni: assicurare alla cultura urbanistica un sapere tecnico più maturo e rigoroso; sviluppare la funzione della regolazione in forme tecnicamente più evolute e socialmente meglio giustificate. Non viene meno l’interesse per quei temi, ma non rappresentano più la priorità, né un obiettivo auto-sufficiente. Il nodo cruciale diventa garantire un’azione legittima ed efficace che, però, può assumere soltanto «forme deboli». La sfida è insidiosa; il rischio di una deriva opportunistica è all’ordine del giorno; può essere evitato, in un contesto specifico, solo se valgono condizioni e requisiti non banali, che mettono in gioco non la tecnica soltanto, ma alcuni caratteri fondamentali di società, cultura, politica e amministrazione. In questo senso, l’urbanistica non si afferma per forza di legge, ma grazie al consenso sociale, al senso di responsabilità dei soggetti-agenti, alla loro capacità d’azione effettiva. Come gli urbanisti possono cercare di favorire un corso positivo degli eventi?

La prima osservazione è che occorre una narrazione dignitosa. Il racconto urbanistico non può essere affidato agli operatori del mercato fondiario e immobiliare, come oggi troppo spesso avviene; i quali generalmente rappresentano una realtà immaginaria e mirabolante, mentre la voce pubblica resta marginale e la critica sorprendentemente si ritrae. Le retoriche pubbliche si riducono a manifestazioni ideologiche parziali, ripetitive, a volte fuorvianti – come il tema del risparmio di suolo che, come parola d’ordine generalizzata, rivela l’incapacità di declinare una strategia urbanistica più articolata e meglio correlata al contesto; oppure l’immagine ambigua della rigenerazione urbana (Lanzani, 2024), che cela una grande varietà di situazioni, non tutte raccomandabili. Ambiguo è anche l’appello sempre più diffuso alle everyday practices: da condividere come richiamo alle responsabilità concrete dell’azione disciplinare, qui ed ora; ma anche elusivo o fuorviante, se diventa un alibi per dimenticare gli impegni etici e civici dell’urbanistica, che trascendono la sfera del particolare e dell’immediato; mentre resta opaco il passaggio dall’ideologia della regolazione e controllo al presunto trionfo dell’informale (come se lo scarto non fosse radicale e non richiedesse prudenza e giustificazioni); tanto più se questo passaggio diventa l’occasione per una svolta ideologica sommaria e illusoria, come l’idea di «politics of the everyday» suggerita da Ezio Manzini (2019). Si tratta invece, semplicemente, di pretendere una minima capacità di descrizione e interpretazione critica delle situazioni realmente esistenti e delle loro possibilità di sviluppo.

La seconda osservazione è che non è possibile ignorare la dimensione politica dei problemi di urban development. Il tema è negato dalle rappresentazioni edificanti degli operatori privati, che continuano a celebrare i vantaggi presunti (mirabili) delle loro trasformazioni urbane per qualunque componente sociale; ma generalmente è eluso anche dai discorsi pubblici, che preferiscono sorvolare su un bilancio critico dei problemi accumulati, per accontentarsi di un quadro generico di vaghe promesse (che spesso potrebbero valere in qualunque contesto). L’alternativa più evidente (peraltro rara) è l’idea del politico come movimento insorgente, che sarebbe in grado nel contesto di mettere in discussione l’ordine costituito, a favore di processi di auto-organizzazione o addirittura di auto-governo locale (secondo la traccia aperta da Friedmann e Sandercock, nel mondo del planning, con il sostegno delle visioni critiche di Lefebvre, Harvey, Swyngedouw e altri). Il rischio è di sopravvalutare la rilevanza sociale di alcuni movimenti contingenti (che infatti, nella generalità de casi, si sono rivelati effimeri), ma soprattutto di distogliere l’attenzione dalle dimensioni ordinarie del politico: la pluralità degli interessi urbani in gioco, il carattere divisivo delle rispettive strategie; la necessità pubblica di garantire una composizione equa e sostenibile. Un tempo, la cultura disciplinare si preoccupava di studiare gli effetti potenziali di ogni grande progetto: i suoi punti di forza e di debolezza, le opportunità e i rischi (per quali attori); un bilancio minimo dei benefici o delle criticità attese per componenti sociali e ambiti territoriali specifici, in relazione a diverse famiglie di obiettivi. Oggi, all’apparenza, quelle verifiche sono state istituzionalizzate (tramite le «analisi di impatto ambientale» o strumenti affini); paradossalmente l’applicazione può diventare meccanica, rituale, persino atopica (perché si adottano metodi generali precostituiti rispetto al contesto); in sostanza viene ad essere depotenziata rispetto agli intenti originari. La conseguenza è che la giustificazione contestuale di un grande progetto sempre più spesso diventa un’operazione retorica, ampiamente auto-referenziale; mentre la dimensione politica del problema, cioè la distribuzione effettiva di benefici economici e costi sociali dell’operazione (inclusi gli effetti collaterali spesso insidiosi e sottovalutati) resta opaca e marginale. Ritengo invece che il pubblico non possa eludere queste responsabilità.

La terza e ultima osservazione riguarda i nodi della tecnica. La funzione cruciale del progetto urbano è un dato che ricorre da tempo, con alterne fortune, ma negli ultimi decenni si è imposto all’attenzione con una forza e una rilevanza ormai indiscutibili. Nello stesso tempo, la potenza regolativa dell’urbanistica è stata radicalmente messa in discussione: la cogenza prescrittiva ha lasciato il posto alle «certezze ipotetiche»; oggi la flessibilità, discrezionalità delle regole non è più un dato di fatto da subire, perché si impone in molte situazioni reali, nonostante la natura direttiva delle intenzioni ufficiali; ma diventa il principio guida che viene formalmente riconosciuto e legittimato dalle correnti dell’everyday, tactical urbanism. Le riforme legislative in diversi contesti hanno preso atto della mutazione in corso, legittimando una più debole concezione strategica del piano urbanistico (questo è avvenuto anche in Emilia-Romagna nel 2017). Si potrebbe trarre la conclusione che il ruolo disciplinare viene a cambiare: non è più sufficiente lavorare sulle precondizioni delle trasformazioni urbane (nella forma di regole o visioni preliminari), ma la sfida si estende alla capacità di assicurare un contributo urbanistico rilevante alla costruzione dei progetti effettivi. Questa svolta comporta però nuove difficoltà. Un dato sensibile è la responsabilità diretta che investe la politica e l’amministrazione, per l’interpretazione contingente di regole che presentano elementi rilevanti di flessibilità e discrezionalità. Gigi Mazza ha avuto il merito di individuare lucidamente e tempestivamente il problema. Il corso delle esperienze ha dimostrato però che le difficoltà sul campo non sono banali. Per ridurre rischi e responsabilità, le pubbliche autorità possono essere tentate dall’idea di ripristinare di nuovo la certezza delle regole. La tendenza è palese, nel caso di Milano, in un contesto come quello Lombardo che non ha il coraggio di rinnovare un quadro legislativo obsoleto. Non è consentita però alcuna illusione (considero un limite della politica milanese la tentazione di eludere la questione). Ogni tentativo di irrigidire le regole rischia di creare problemi alla qualità ed efficacia del lavoro progettuale. Rappresenta una mossa debole e incompleta, che riflette limiti e insoddisfazioni della capacità di governo dei processi. Potrebbe valere come rimedio provvisorio, ma lo sguardo è ancora «back to the future». Le esperienze e riflessioni di Mazza ci dovrebbero aiutare a cogliere questo problema. Sottovalutarlo non è una soluzione. La posta, oggi, non è ripristinare forme inverosimili di «comando e controllo», ma migliorare la capacità pubblica di guida e accompagnamento responsabile dei processi reali. L’obiettivo può sembrare ovvio, ma sulla capacità di rispettarlo i dubbi sono giustificati.

 

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