EWT N.30/2024

N. 30

Tra città e amministrazione

Gaetano Fontana

Sappi che questo primo scalino avanza di molto la gente comune,

che per salire anche questo scalino si deve essere, di pieno diritto,

cittadini della città delle idee.

In questa città è disagevole e raro trovar cittadinanza.

(da “Il primo scalino”, K. Kavafis)

1. Mondo nuovo, parole vecchie

Soltanto 20 anni fa, la crescita economica e sociale ci sembrava elemento permanente, acquisita per sempre. Abbattuti gli ultimi e più pesanti muri, l’Europa allargava progressivamente i suoi confini, l’integrazione economico-sociale e quella territoriale sembravano a portata di mano, si disegnavano i grandi corridoi europei e si stanziavano ingenti risorse per costruirli, le iniziative transfrontaliere erano un costante punto di riferimento di programmi nazionali ed europei.

Anche il resto del mondo sembrava in continua progressione, dovunque si registrava una forte crescita del Prodotto Interno Lordo (di solito a due cifre) e della quota del commercio mondiale (con la crescita dei Paesi emergenti, Cina e India in particolare), un forte contenimento dell’inflazione e una decisa spinta alla finanziarizzazione dell’economia, una generalizzata diminuzione della povertà relativa e un continuo incremento dell’integrazione sociale, favoriti dalla redistribuzione della ricchezza.

Era il punto più alto del processo di globalizzazione e di apparente rafforzamento della liberal-democrazia. Le borse tiravano, Wall Street faceva registrare sempre nuovi primati, le spese in deficit supplivano all’assenza di riforme (aspetti entrambi caratterizzanti l’Italia), Google sembrava spingere verso rivoluzioni dolci, l’edilizia e il mercato immobiliare (riducendo l’attenzione a un settore più vicino) andavano a gonfie vele con prezzi che si muovevano soltanto su vettori di crescita.

Poi, improvvisamente, tutto è cambiato. Mentre il baricentro politico ed economico si allontanava dall’Europa cercando nuovi equilibri, la “tempesta perfetta” (così la definì Krugman) si è abbattuta su economie, società, stili di vita, sentimenti, relazioni. L’1% della popolazione ha continuato a diventare sempre più ricco, per il restante 99% il ciclo di crescita si è invertito. Tutto è avvenuto a scale e intensità diverse, anche molto diverse.

La finanza è crollata (permane ancora il rapporto squilibrato tra produzione di beni materiali e finanziarizzazione dei processi), la crescita di Wall Street è stata sostituita da “occupy Wall Street”, la globalizzazione è stata frenata da un mercantilismo aggressivo e da un protezionismo interessato, il processo d’integrazione è stato sostituito da opposti populismi (spesso sovranisti, a volte neo-autoritari), al volersi fare mondo della “democrazia occidentale” sono subentrati nazionalismi crescenti e democrazie “guidate” (le incombenti democrature), la povertà mondiale ha ricominciato a crescere insieme ad inarrestabili flussi migratori, deficit e debito sono schizzati in alto, l’eccesso normativo ha preso il posto dell’innovazione tecnologica, la produzione edilizia e il mercato immobiliare (ritornando al nostro settore) hanno raggiunto minimi storici, seguiti da successivi rimbalzi e punti di caduta[1].

Dopo la crisi finanziaria, sono arrivate la pandemia e le guerre, in Europa e in Medio Oriente. Sono cresciuti povertà, emarginazione, degrado, ansia, rancore, rabbia, paura e risentimento; quando va bene, risacca e “galleggiamento” sociale. Con più forza e virulenza nelle città. Anzi, quello che sembrava dover essere il secolo delle città ha lasciato il passo alla crisi (codice interpretativo dei prossimi anni), soprattutto per quel che riguarda nuovo sviluppo economico, sostenibilità ambientale e diseguaglianze sociali, che proprio nelle città assumono caratteri regressivi, sono aumentati i Bronx e diminuite le Manhattan.

La realtà della strada, a volte drammatica, è quotidianamente ingigantita da una comunicazione partigiana (megafono di parti politiche in contrasto permanente, quanto sterile) che accresce l’ansia che ci coglie varcata la soglia di casa; ci trasmette, purtroppo con quotidiana frequenza, un eccessivo senso di abbandono, di precarietà, di frammentazione, di vivere in piccoli recinti, pronti alla difesa; ci incoraggia in modo cinico allo scontro, anche fisico, qualora ne avesse una pur minima utilità.

In Italia, come in Europa e in molte altre aree del mondo, gran parte della popolazione vive nelle città[2] (in alcuni casi, oltre l’80%), e se esaminare come funzionano le città è come cercare di comprendere il funzionamento dell’intera società, allora è strano che della città non esista una definizione condivisa, e neanche un comune statuto giuridico[3].

2. Urbanità

I Greci con polis indicavano una comunità politica e religiosa; i Romani la chiamarono civitas, distinguendola da urbs, la città come insieme di edifici e di mura; nel medioevo, dopo la sottrazione al feudo del diritto di proprietà della casa e della bottega del cittadino, la città rendeva liberi; fra XIV e XV secolo, quando le città italiane erano i centri mondiali di cultura, finanza e commercio, divenne il luogo ideale di diversificati regimi politici e di mirabili architetture (la creatività delle piccole patrie); poi, capitale di grandi Stati e sede di Assemblee nazionali e Parlamenti (che, in alcuni casi, oggi si svuotano).

La città si fa sempre più complessa e moltiplica le sue diversità quando diventa centro attrattivo di nuove formazioni geografiche economiche sociali – i sistemi metropolitani – la cui strategicità è affidata alla capacità di sviluppare relazioni, di accogliere e generare flussi di persone di merci d’informazioni, di saper creare cultura (fondamentale il ruolo di università, musei, centri culturali, laboratori artistici di sperimentazione e di partecipazione); di essere parte e di costruire rapporti e alleanze in grado di muoversi a una scala molto più vasta di quella municipale, ridando vitalità a quel modello innovativo di territorio in rete che l’Italia dei comuni (la cultura dei campanili) ha da sempre privilegiato, come garanzia di tenuta ambientale ed equilibrata distribuzione sociale ed economica[4].

Però, a fronte dell’acquisizione ormai pacifica di una considerazione della città che va ben oltre il dato dei confini e della mera rappresentanza amministrativa, la nostra cultura politica e l’organizzazione istituzionale – nonostante sforzi e tentativi in senso opposto – sono ancora disegnate su una divisione di ruoli, competenze e poteri fra soggetti locali.

Il termine città torna molte volte nei provvedimenti legislativi e negli atti amministrativi, ma sul piano dell’ordinamento spaziale e dei complessi meccanismi di organizzazione della città, tutto in Italia resta ancora affidato a una legislazione urbanistica nazionale vecchia di ottanta anni e a una ventina di leggi regionali – ovviamente, al passo coi tempi rispetto alla legge madre – diverse nei contenuti, anche su materie analoghe. Più volte si è tentato di porvi rimedio dando vita a una legge di principi fondamentali e regole generali per il governo del territorio e la pianificazione (innumerevoli le proposte del Parlamento, del Governo e di enti culturali, come l’Istituto Nazionale di Urbanistica), il cui esito resta ancora improbabile e, comunque, con il rischio di una sua inefficacia qualora non riuscisse a individuare formulazioni condivise e più avanzate rispetto alle vigenti legislazioni regionali.

La città è indubbio elemento di sintesi che fonda e differenzia la società, la politica, la vita delle persone. Accoglie e riassume la storia, l’economia, le relazioni, i modi di vita, gli scontri e le alleanze, gli sviluppi e gli arretramenti, la conoscenza e la crescita, la ricchezza e la povertà, “… un contesto vivo, dove lo spazio del presente è simultaneamente abitato sia dal suo passato sia dal futuro” (A. Carandini). E’ il luogo che per eccellenza ci appare come “…funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, informata al principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità” , non meno di altri beni a titolarità diffusa, quali “…le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate. Vi rientrano altresì, i beni archeologici, culturali, ambientali…”[5].

La città – identificata in termini sociali quale bene comune di appartenenza collettiva a persone unite da elementi identitari e solidaristici (i suoi abitanti); formazione sociale capace di soddisfare bisogni a cui non è possibile dare risposta se non in termini comunitari – è certamente l’elemento centrale del fare urbanistica, disciplina ancora in grado, secondo gran parte della cultura di settore, di elaborare e mettere in pratica risposte alla dispersione sociale e al degrado fisico e ambientale, che della città hanno cambiato l’immagine.

Oggi, l’urbanistica e l’insieme degli istituti giuridici e delle norme positive che ne disciplinano l’attività (il diritto urbanistico) sembrano, in realtà, insufficienti a regolare i meccanismi di funzionamento della città e a fornire risposte adeguate alle complessità sociali, economiche e gestionali che su di essa si sono riversate.

L’aspetto di bene collettivo (in realtà, solo apparente), caratterizzato in maniera decisiva dalla presenza di spazi pubblici, che aveva la città nell’esperienza europea, si è via via consumato, per far posto alla sua mercificazione e al valore di scambio di spazi e beni pubblici, restringendone quantità e qualità di conservazione e d’uso e trasferendone realizzazione e gestione al privato.

L’individuo prevale sulla comunità, si rompe l’equilibrio tra spazio pubblico e spazio privato, va in crisi l’organizzazione complessiva della città. L’espansione urbana e il traffico privato si inseguono vicendevolmente, il trasporto pubblico arranca faticosamente, le tante piazze dell’incontro, le scuole, gli ospedali, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere, tutti i luoghi pubblici della socializzazione e del consumo comune o non ci sono più o sono stati sostituiti dai grandi outlet suburbani o da centri privati per la fornitura di servizi, nei quali tutti sono diventati clienti (i non luoghi dei non cittadini).

Sono diventati paesoni di campagna ai margini di tutto con i problemi delle periferie, anche di grandi e apprezzate rigenerazioni urbane che rendono i grandi centri più moderni e insieme più inaccessibili.

Anche la casa (è l’addensarsi di abitazioni con le agorà e i suoi portici, gli edifici pubblici e quelli religiosi che ha dato senso a un “luogo”, prima come villaggio diventato poi borgo per farsi, infine, città), da diversi anni, non fa più parte delle politiche statali, né, tantomeno, di quelle regionali, che pur ne hanno fortemente voluto la competenza. È stata lasciata, quasi esclusivamente, all’attività di promotori immobiliari e alla ricerca di soluzioni private ed individuali.

3. C’era una volta l’edilizia pubblica

I grandi interventi di edilizia residenziale pubblica, da quelli Ina-Casa del Piano Fanfani (con i quartieri autosufficienti della “grande ricostruzione”, veri e propri progetti urbani complessi) a quelli del Piano decennale della lg.457/78 (con le aree acquisite tramite espropriazione per pubblica utilità), appartengono alla storia delle trasformazioni urbane di iniziativa pubblica, quando una casa era un diritto (almeno, per tanti), non una merce di scambio.

Le iniziative degli ultimi anni si restringono alle poche esperienze di Housing sociale, variamente inteso.

Dopo le dismissioni[6] dei primi anni ’90 per far cassa e per smobilizzare un “capitale morto”[7], sono circa 900 mila gli alloggi rimasti di proprietà pubblica (degli IACP e degli Enti previdenziali). Sono in uso ad assegnatari (non sempre sulla base di legittime, anche se obsolete, graduatorie comunali); oppure occupati abusivamente (dietro pagamento al legittimo assegnatario di una buona entrata); altri ancora gestiti da spezzoni di organizzazioni malavitose (dati in uso a canoni da strozzo, in barba a qualsiasi graduatoria).

È quanto resta di vecchi quartieri di edilizia popolare. Case semplici e spesso non banali, intorno a una piazza, con un mercato coperto, un’area a verde (a volte, un parco), una chiesa, una scuola; quartieri operai, di periferia, quando questa stava ai margini della città. Ora, quartieri inglobati, distanti “15 minuti” di metropolitana dal centro (una riscrittura di fatto delle relazioni tra tempo e spazio, lontana e contrapposta, però, alla ridefinizione del concetto di benessere e alla democrazia urbana di C. Moreno, perché “d’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”)[8], ma da esso divisi dall’immancabile e irremovibile striscia di binari o da visibili quanto inaccessibili aree frutto di recenti rigenerazioni urbane, con vetrine attraenti, consumi opulenti e guardie giurate a difenderle. Zone urbane lasciate, quando va bene, a famiglie a basso reddito, ad anziani, a lavoratori discontinui, a immigrati di prima generazione (quella che cerca di stare nelle regole), con un lavoro poco pagato o precario (appunto, da immigrato), a individui che non si sentono più cittadini; ma anche assurte, in molti casi, a simbolo di marginalità sociale, di esclusione identitaria, di devianza e micro-criminalità urbana, soprattutto giovanile, dove, comunque, non c’è odio, c’è frustrazione. Pezzi di città, lasciati andare alla deriva, in attesa di essere rigenerati dal mercato, perché il pubblico non ha più soldi[9].

“Nell’assenza di un piano nazionale di rilancio delle politiche abitative, il disagio attorno alla dimensione casa continua a permanere ad alti livelli. In Italia un milione e mezzo di famiglie vive in abitazioni sovraffollate, poco luminose e senza servizi come l’acqua corrente in bagno. Il 5 per cento dei nuclei fa fatica a pagare le rate del mutuo o l’affitto e le bollette. Di questi, la maggior parte non ha una casa di proprietà. Le sentenze di sfratto per morosità nel 2023 sono state 30.702 rispetto alle 33.522 del consuntivo 2022. Le sentenze per morosità restano la principale motivazione di sfratto: sul totale delle nuove sentenze, quelle per morosità sono pari al 78%. L’83% degli edifici residenziali è stato costruito prima del 1990 e il 57% risale a prima degli anni ’70. Gli edifici in classe F e G sono più del 60%. Per adeguarsi alle direttive UE serviranno investimenti tra gli 800 e i 1.000 miliardi di euro”[10].

Sono passati più di 45 anni dall’ultimo vero e massiccio intervento sul sistema-casa (riforma della governance di settore e piano decennale di edilizia residenziale, lg.457/78; equo canone degli immobili urbani, lg.392/78; regime dei suoli, lg.10/77). Ora, nella manovra finanziaria in corso di approvazione (legge di Bilancio per il 2025) è stato previsto il nuovo “Piano casa Italia”, finalizzato alla complessiva riorganizzazione del sistema casa, con obiettivi vastissimi e ancora più vaste intenzioni[11]. Peccato, che le risorse finanziarie stanziate siano le stesse previste con la legge di bilancio 2024 (lg. 213/23), pari a complessivi “…100 milioni di euro, di cui 50 milioni di euro per l’anno 2027 e 50 milioni per l’anno 2028”, praticamente, un “Piano casa postdatato” e “non pervenuto”[12].

È venuto meno il servizio abitativo pubblico: pochissimi gli alloggi pubblici di nuova costruzione, consistente privatizzazione di quelli esistenti, abbandono della regolamentazione del mercato dell’affitto, azzeramento del fondo sociale per la morosità incolpevole, grave aumento della povertà abitativa.

E non è vero che mancano le risorse finanziarie, se solo lo si fosse voluto.

A valere sul finanziamento destinato al più grande trasferimento di risorse pubbliche della storia del Paese (sicuramente, la più costosa politica industriale mai avviata) – il Superbonus, che avrebbe dovuto rendere le ristrutturazioni accessibili anche agli incapienti (“Non si è mai vista una misura che costasse così tanto a beneficio di così pochi”, G. Giorgetti, ministro dell’Economia) – solo il 2,1% della spesa (poco più di 3,4 su 160 miliardi) è stato utilizzato per le “case popolari” (che scende all’1,5%, considerando l’insieme dei bonus edilizi, circa 220 miliardi)[13]. Solo ponteggi, intonaci e cappotti termici, neanche una seria politica industriale per il settore delle costruzioni.

All’accantonamento di insufficienti politiche sociali, si contrappone, in molte realtà locali, il dinamismo di movimenti spontanei, laboratori sociali, strutture di diretta partecipazione dei cittadini – guardati anche con una certa attenzione dalle stesse amministrazioni locali -, che hanno rivendicato, utilizzando Regolamenti e Patti di collaborazione, la riappropriazione di spazi urbani (edifici pubblici, servizi collettivi, spazi abitativi, aree dismesse, suoli ancora da edificare), ribaltandone modalità d’uso e contenendo i processi di degrado che li aveva investiti. Promotori di una città diversa o di un diverso modo di gestione di sue importanti parti, con particolare attenzione agli aspetti organizzativi, anche per indicare che è possibile governare la città utilizzando metodi e criteri più attenti all’interesse generale e alle finalità sociali[14].

Non vi è dubbio che la mancata attenzione, la sottovalutazione, l’assenza di riconoscimento o di salvaguardia dei diritti sociali – dal diritto alla casa (il primo, il più antico e il più “caldo” nella declinazione dei diritti) a quello alla mobilità, dal diritto alla sicurezza a quello alla salute, da quello allo studio al diritto al proprio tempo, dal diritto a servizi pubblici essenziali al diritto all’igiene urbana, e a tanti altri ancora, tutti necessari per dare compiutezza al diritto di cittadinanza – esasperi le differenze sociali e le disparità fra contesti urbani, allarghi la forbice fra i differenti sotto-insiemi delle città e alimenti, inevitabilmente, un loro costante processo di polarizzazione (“l’urbanizzazione dei diritti”) e l’insorgere anche di aspri conflitti urbani (in Italia come nelle altre grandi città europee, soffermandoci alla nostra sola realtà continentale): “Le questioni identitarie sostituiscono le istanze delle classi sociali tradizionali e assumono una centralità inedita nella dialettica socio-politica. […] La rivalità delle identità e la lotta per il riconoscimento implicano l’adozione della logica «amico-nemico”[15].

E come garantirlo allora questo riconoscimento dei diritti, e da parte di quale soggetto istituzionale fra quelli direttamente interessati, e in che forma, singola o cooperativa? E, in quest’ultimo caso, con quale peso per ciascuna delle parti. E in che misura? A quale costo? O meglio, qual è il livello accettabile di costo sociale? A carico di chi porre la differenza? E i destinatari…….? Forse non basta, per questi, come per altri e nuovi bisogni collettivi, una pur necessaria reinvenzione degli spazi e delle regole che li governano.

Si impone con urgenza individuare possibili risposte, egualmente articolate e complesse, c’è bisogno di strumenti multipli, forse anche sovra-nazionali, di livello europeo (tornano in mente, senza esagerarne il senso e nella giusta proporzione i Programmi Urban), e una governance adeguata (centrale e locale).

4. Progettazione urbana

Da anni, in opposizione alla pratica del consumo di suolo, si è consolidato il modello di trasformazione urbana finalizzato a recuperare e rifunzionalizzare l’esistente (modello, peraltro, raramente costruito con i caratteri di un processo industriale, basta vedere alcuni grandi progetti che, dall’ideazione al completamento, hanno spesso una durata ultra-ventennale, quasi progetti transgenerazionali). Un insieme di norme nazionali e regionali, di esperienze comunali, finalizzate alla rigenerazione urbana e territoriale, che ha determinato il superamento dell’urbanistica conformativo-regolativa (quella del sistema delle regole del gioco della stagione dell’espansione urbana) e che ha privilegiato i contenuti della riqualificazione e del recupero (per citare i termini che denotavano i programmi complessi dei primi anni ’90), come alternativa strategica, oltre che al nuovo consumo di suolo, anche per favorire la riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, del deficit strutturale tra centro e periferia e del disagio economico, (cui non sfuggono certo temi centrali come la sostenibilità ambientale e l’efficienza energetica).

Progetti urbani, questi della “rigenerazione odierna” – frutto di leggi regionali di ultima generazione – che dovrebbero essere capaci di essere insieme occasione di “aggregazione della polis e strumenti di formazione del consenso”. Ritorna in essi la capacità/possibilità di rispondere alle richieste degli abitanti per il contrasto al degrado e contro l’abbandono di attrezzature e spazi pubblici; sono il luogo dove dovrebbe trovare spazio anche la domanda di sicurezza urbana (soprattutto nelle aree della marginalità)[16], e di iniziative per migliorare le relazioni tra amministrazione pubblica e cittadini, fino a forme di condivisione della gestione del sistema dei servizi, in ossequio al principio di sussidiarietà orizzontale (la “co-città”). Non sempre il risultato è soddisfacente. Spesso questi programmi hanno un limite comune (rinvenibile anche nel DDL sulla rigenerazione urbana – A.S. n.1131), l’eccessiva attenzione posta al solo insieme edilizio della città, al già costruito, alla fisicità di edifici e attrezzature e al loro recupero e riqualificazione, essendo l’altra faccia rappresentata dalla mancata cura delle funzioni di socialità degli abitanti e della vivibilità che risiede fra le parti costruite; dall’accantonamento del loro senso di comunità e dalla necessità di mettere in campo azioni e iniziative che possano favorire coesione sociale e partecipazione, l’attenzione alla rigenerazione sociale insieme a quella dell’edificato (elementi questi di partecipazione e coesione sociale, che insieme alla realizzazione di abitazioni a canoni accessibili e alla applicazione della direttiva sulle “case green”, potrebbero richiamare l’attenzione della Commissione europea per l’apertura di linee di finanziamento).

Ogni processo di rigenerazione (di cui è fuor di dubbio l’estrema difficoltà di realizzazione avendo ad oggetto il patrimonio costruito, mentre gli interventi fuori dai centri urbani scontano l’assenza di infrastrutture e di servizi e un ritorno economico certamente inferiore) ha caratteri propri, negli esiti sperati come nei risultati raggiunti e, quando si attiva, genera, comunque, una ricaduta sul mercato immobiliare e sul comportamento di proprietari e residenti.

Parti di grandi città (i sotto-insiemi urbani) vanno sempre più differenziandosi, non solo nel rapporto/scontro fra gli usuali aggregati “centro/periferia”, ma anche fra periferie differenti (ormai, riconoscibili anche in termini identitari) che hanno generato “propri centri” (indipendenti dal “centro-centro”), diventati essi stessi luoghi di riferimento e di aggregazione di insediamenti edilizi sempre più diffusi e distanti (da qui la necessità del rafforzamento delle infrastrutture di connessione), cresciuti a dismisura, anche grazie ad un esuberante mercato che era tornato a spingere, con notevole forza, la casa in proprietà[17].

5. La città è stanca

Altri ancora e consistenti sono gli elementi che concorrono alla trasformazione degli spazi urbani, anche in attrattive e temporanee location, con buona pace per il meritato riposo e i gravissimi disagi causati agli abitanti (“…se vivi in centro un po’ di rumore te lo devi aspettare”, secondo l’applaudita opinione, di un Ministro in carica)[18].

Ormai da tempo, molte aree urbane (anche, interi quartieri) stanno subendo un profondo stravolgimento del loro assetto sociale ed economico, del loro tessuto residenziale e della loro conformazione spaziale, quasi una perdita di senso, utilizzate da abitanti temporanei, frutto dei massicci flussi di “turistificazione”[19] che, attraverso singoli host o piattaforme digitali di intermediazione di domanda e offerta di case vacanza (l’abitare temporaneo di Airbnb[20]), riducono intere aree urbane a luoghi di culture monofunzionali, dipendenti dalla domanda di una popolazione esogena, transitante non-residente (il food&beverage dei localini per veloci colazioni, pizzerie a taglio, pub notturni, abbandono del commercio di vicinato in favore di vetrine con ammassi di cianfrusaglie a gestione cinese o bengalina), evidenziando la capacità trasformativa della rendita edilizia nelle dinamiche sociali e nel paesaggio urbano.

Singoli proprietari che trasformano la propria abitazione (magari ricevuta in eredità o con la sottoscrizione di un pesante mutuo)[21], in una casa vacanza capace di produrre un reddito mensile di gran lunga superiore a qualunque canone concordato; ma anche grandi società immobiliari con solide garanzie finanziarie che affittano da singoli proprietari (a canone concordato ma senza la preoccupazione di eventuali inquilini morosi) e poi subaffittano a prezzi molto più elevati, per periodi transitori brevi e brevissimi: la questione del caro-affitti riemerge come una delle problematiche maggiori per la popolazione residente, una vera e propria criticità del territorio.

Una nuova e diversa gentrificazione[22], che insieme ai classici fenomeni di sostituzione urbana, di perdita di residenti autoctoni e di impossibilità di redistribuzione della ricchezza prodotta (l’affitto cresce molto più dello stipendio di un lavoratore dipendente pubblico o privato, anche di medio-alto livello) assume caratteristiche di forzatura del processo di cambiamento, tempi accelerati di esecuzione e una perdurante sottrazione di valore culturale urbano, il tutto si trasforma in un livello (anche) elevato di reddito individuale generato dalla nuova economia del nomadismo turistico.

Buona parte dello sviluppo del Paese è angustiato dalla prevalenza della rendita (uso improprio delle abitazioni e affitti stratosferici). Più turismo meno industria.

Una vera e propria trasformazione spaesante dell’abitare, comune ai quartieri del centro come a quelli che gli stanno a ridosso (c’è chi si domanda che senso abbia parlare di periferie se viene meno il centro) che si va a sommare all’estremo degrado e alla disperazione di molte periferie (a un passo ormai dal dissenso organizzato). La città è stanca[23]. Un unico filo sembra legare le sue diverse parti, la crescente difficoltà a sostenere il costo del vivere urbano [24].

Non più soltanto il fenomeno di appropriazione borghese di qualche anno fa (la prima città “gentrificata” fu Milano, negli anni Settanta), attirata dalla vitalità di alcuni quartieri più poveri, dopo che vi si erano insediati artisti, intellettuali, giornalisti e creativi. La gentrification sta assumendo forme diverse, (spesso mascherate con espressioni come rigenerazione, rivitalizzazione, riabilitazione, riqualificazione), non più, quindi, il progressivo imborghesimento di un quartiere (che generava accumulazione di ricchezza e riproduzione del capitale) con l’assunzione di nuove e ben definite caratteristiche identitarie (le presunte nuove classi creative), ma un vertiginoso aumento della popolazione transitante, fatta di turisti molto spesso facoltosi e solventi, che non fa che aumentare la spaccatura tra popolazione residente e utenti occasionali e incancrenire l’enorme espansione della questione abitativa[25].

Sempre più spesso sta emergendo un diffuso senso di fastidio nei “residui” residenti abituali verso questi processi di airbnbizzazione: è vero che condividono la multiculturalità e auspicano l’integrazione multietnica, ma la diversità troppo spinta suscita paure, così come il piacere per i locali sempre aperti e le strade affollate divengono facilmente “malamovida”. Con sempre maggiore evidenza e ansia, si va diffondendo anche un esteso senso di insicurezza per l’inevitabile attrazione esercitata nei confronti di alcuni reati di tipo “sociale”. Qualche anno fa, sembrava prioritaria la necessità di garantire maggior sicurezza nella periferia degradata; oggi anche le Ztl, che attirano i flussi di chi cerca i luoghi della movida per sentirsi protagonista (magari con atti di teppismo ed episodi di microcriminalità), è investita da un’insicurezza pervasiva: spesso, temono il crimine più degli eccessi della polizia.

La preferenza per gli affitti turistici e, in alcuni casi, la locazione agli studenti fuori sede, con la garanzia oltre che del maggiore rendimento anche della sicura disponibilità dell’alloggio in caso di necessità, hanno di fatto aumentato la marginalizzazione dei gruppi sociali più vulnerabili e loro espulsione verso zone periferiche e incrementato il bisogno abitativo, soprattutto dei più giovani (singoli o con famiglia e di molti studenti fuori sede), strozzati da prezzi di vendita sempre più elevati[26] e da affitti sempre più alti.

Un processo a due facce, da una parte, crescita del valore economico di parti importanti delle aree centrali (incremento che si estende anche ad altre zone della città – soprattutto semi-periferia – grazie all’espulsione delle famiglie fragili dalle zone più ambite che determina, a cascata, l’aumento della domanda di alloggi nelle aree di trasferimento, conseguente innalzamento del prezzo di vendita e dei canoni di locazione del mercato locale), dall’altra e in parallelo, progressivo impoverimento di parti del sistema sociale e spostamento sempre più ai margini della città dei nuovi arrivati (gli invisibili e i dimenticati che non sono stati visti arrivare), in un abbandono non più spacciabile come tentativo d’integrazione, quanto come risposta a quella considerata una vera e propria invasione di comunità diverse che utilizzano le stesse aree e gli stessi spazi comuni[27].

È la vita di quartieri degradati, di palazzi, piazze, vie e spazi abbondonati dalla gestione pubblica e privi di valore per l’iniziativa privata, in cui la mixitè forzosa è fatto quotidiano non programmato, vissuta come sofferenza ineludibile, spesso con rancore: “Vediamo e incontriamo la violenza anche nella vita quotidiana. Anche nel nostro Paese. […] Penso al risentimento che cresce nelle periferie. Frutto, spesso, dell’indifferenza; e del senso di abbandono”. [28] Una crescita costante delle disuguaglianze sociali (evidenziata dalla continua crescita di profitti e rendite), ormai sparita dall’attenzione della politica, costretta a muoversi fra le ritualità della sinistra e la superficialità aggressiva della destra[29].

Enormi contenitori urbani abbandonati al degrado, lasciati alla deriva e, insieme, all’attenzione di operatori immobiliari privati per i prossimi interventi di rigenerazione urbana avviati dal mercato, data l’assenza di finanziamenti pubblici.

6. Il pubblico ha perso la strada

Le iniziative di trasformazione territoriale e urbana (la rigenerazione urbana, variamente denominata), ormai quasi del tutto in capo a soggetti privati, sono riassumibili in massicce operazioni di accaparamento di quote di rendita urbana ed edilizia, grazie a interventi ascrivibili a firme prestigiose con ricadute non certo trascurabili sul tessuto urbano, lasciando però al soggetto pubblico l’onere della realizzazione di opere e attrezzature al servizio dell’operazione privata, riducendo, in questo modo, rischi finanziari e di commercializzazione, a cui potrebbero andare incontro.

La parte pubblica e i suoi compiti di visione della città e di pianificazione strategica a medio-lungo termine, in Italia sono assenti, non ci sono più (a differenza di altri Paesi e città europee), sono stati delegati al privato, con un’inversione di ruoli. È vero, ci sono episodi, ma solo singoli episodi di iniziativa privata – e Milano ne è il caso più noto (in disparte la mancanza di controlli prima e le norme derogatorie dopo, con l’obiettivo di scongiurare scomode inchieste, e quant’altro evidenziato in opposizione al Salva-Milano[30] ) –, collocati sempre nelle parti centrali delle città, mai nelle periferie.

Assistiamo – anche limitando la nostra attenzione soltanto a quella parte di amministrazione statale che si occupa della materia urbanistica o dell’attività edilizia – a una vera e propria “ritirata” del soggetto pubblico; a un suo esaurirsi; a un progressivo disfacimento della cultura di governo dei processi sociali, sia a livello politico che nel sistema amministrativo; a un crollo dell’apparato conoscitivo dello Stato[31] e a un venir meno della capacità interpretativa e di gestione della complessità che ci circonda. Una accentuata debolezza e apatia degli staff ministeriali e una riorganizzazione di molte strutture che ha avuto il solo scopo, in ossequio “all’uno vale uno” e alla inutilità della competenza, di ruotare i titolari di uffici e sostituirli con personale fidato, “dal sistema delle spoglie a quello del patronato politico” (secondo l’opinione di S. Cassese). Una non celata preferenza per la verticalizzazione del potere (assetto, in verità, sempre più auspicato), che rassicura nella capacità decisionale di uno solo, anche se, il più delle volte, è costretto a premiare la fedeltà e la vicinanza ideologica piuttosto che la competenza e l’autonomia.

Complessivo impoverimento della pubblica amministrazione italiana (accentuato da contenimento della spesa pubblica e blocco della contrattazione); sua non appetibilità per i giovani talenti; crescente disallineamento tra le competenze disponibili e quelle richieste dal nuovo modello economico e produttivo necessario per le nuove generazioni (digitale, ecologico, inclusivo); drastico taglio delle spese di istruzione e formazione per i dipendenti pubblici (nel 2020, ogni dipendente pubblico ha speso in media meno di un giorno lavorativo di formazione), sono le principali problematiche poste all’attenzione del recente Rapporto 2022 – Funzione Pubblica[32].

Peraltro, dopo trent’anni di richiesta di meno Stato e più mercato, oggi, proprio l’attuazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), che richiede forti elementi di coordinamento fra innumerevoli interventi materiali e immateriali, con ricadute sostanziali sull’intero sistema economico, affida un ruolo centrale all’amministrazione pubblica, quella di sempre anche se corroborata da limitate assunzioni a termine, richiedendole un impegno eccezionale per il rispetto dei tempi di realizzazione dei singoli interventi, per l’assegnazione dei relativi finanziamenti e per la velocizzazione della spesa.

Arretramento e anche abbandono del ruolo in precedenza tante volte svolto nell’orientamento di investimenti e iniziative, a cui non ha fatto da bilanciamento, nel tradizionale modello dualistico del rapporto pubblica amministrazione/sistema economico privato, la tenuta, in termini di vitalità produttività ed efficienza, della struttura imprenditoriale privata.

Se si vuole scongiurare il rischio di un ulteriore e pericoloso declassamento dell’apparato pubblico e, soprattutto, se si condivide la necessità di invertire il processo di sostanziale e continua regressione del sistema economico del Paese, proprio il comparto pubblico – assumendosi, in questo continuo scambio di posizioni, il ruolo di soggetto trainante in quel modello dualistico di cui si è detto – dovrebbe essere oggetto di una profonda riorganizzazione dei servizi.

C’è bisogno di un massiccio investimento sulla competenza e sulla formazione del personale, sia per l’esercizio dell’ordinaria attività amministrativa (potenziando la capacità di problem solver di questioni complesse in situazioni di incertezza normativa), sia per affrontare avvenimenti eccezionali o singolari, dalla gestione di un grande evento alla calamità naturale al progetto di trasformazione della città – puntando su una visione di managerialità pubblica in grado di esprimere decisivi fattori di efficienza e produttività – con l’obiettivo di rafforzare i poteri di indirizzo e coordinamento dell’amministrazione e quelli decisionali del governo.

Né è immune da considerazioni fortemente critiche lo stesso processo di privatizzazione del pubblico impiego (avviato oltre trent’anni fa e basato sul presupposto che il privato funziona meglio del pubblico) o l’introduzione dei meccanismi di spoils system (l’incarico dirigenziale a termine ha di fatto comportato la precarizzazione della dirigenza accentuando la dipendenza dalla politica dei livelli dirigenziali della pubblica amministrazione),[33] a cui è possibile far risalire una certa responsabilità nell’aver ridimensionato il rapporto di lavoro dei funzionari pubblici.

Non è un caso che alcuni suggeriscono il ritorno della dirigenza statale al regime di diritto pubblico o, almeno, la sua applicazione alla Presidenza del Consiglio (come intelligenza amministrativa), in quanto struttura di vertice, con ruolo propositivo e di coordinamento generale dei Ministeri.

Nuovi scenari di crescita economica (che ribaltino l’attuale situazione regressiva) così come le potenzialità ancora inespresse della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale[34] (si stima che cambierà il lavoro di otto persone su dieci) impongono riforme strutturali con l’introduzione, anche nell’apparato tecnico-amministrativo dello Stato, di procedure finalizzate all’innovazione professionale che, abbandonando l’organizzazione per rigide strutture verticali, siano in grado di assicurare una piena integrazione tra saperi diversi, tra strutture conoscitive di natura tecnico-ingegneristica e discipline sociali, economiche, ambientali, informatiche, amministrative, di sostenibilità sociale e sanitarie (anche in considerazione dei diffusi stati di disagio mentale presenti in ambiti familiari e nelle vie delle città).

7. Innovazione o privatizzazione del pubblico

Un cambiamento forzatamente già nelle cose, che dovrà essere sfruttato come opportunità, né rischio né minaccia. Una formazione continua in uno spazio di circolazione orizzontale, riflesso della complessità sociale, in grado di “capire e gestire le molteplici variabili (di contenuto e di procedura)” in gioco (G. De Rita), caratterizzato da competenza e merito, luogo idoneo alla crescita di una nuova classe dirigente – una nuova burocrazia statale di grand commis/civil servant (non mancano illustri precedenti, basterebbe volerli cercare!) vicina e collaterale “all’oligarchia virtuosa” (ancora G. De Rita, con un recente neologismo) – in grado di muoversi in una rete di rapporti orizzontali (simile a quella delle filiere produttive e delle grandi piattaforme), di fare avanzare una cultura istituzionale non avversa alla crescita, capace di innovazione, attenta al cambiamento, non riluttante nei rapporti con il privato.

Gran parte delle risorse del Pnrr avrebbe dovuto essere destinato, come obiettivo strategico, a un grande piano di sviluppo e riqualificazione del personale, in grado di formarlo o accompagnarlo nell’utilizzo delle tecnologie contemporanee e in quelle di domani.

Uffici interdisciplinari caratterizzati da intrecci di conoscenze e interessi (si è più sopra accennato all’impatto generato dall’uso a regime dell’intelligenza artificiale generativa); organizzati come reali strutture con compiti di missione (necessariamente a termine rispetto al conseguimento dell’obiettivo, non nell’uso del personale). Auspicati processi innovativi – in grado di sostituire progressivamente la routinaria prassi amministrativa, gonfiata e appesantita da un abnorme coacervo di leggi e regole amministrative, anche in considerazione della veloce sostituzione della forza lavoro qualificata oggi impiegata (a causa del blocco del turn over, l’età media dei dipendenti è cresciuta di oltre sette anni, arrivando a 50 anni e sette mesi; si stima che al 2030 un lavoratore su tre avrà oltre 55 anni) – che potrebbero essere supportati anche da osmotici processi di collaborazione e formazione con Università e Centri di ricerca, anch’essi spinti, proprio dall’instaurarsi di tale organico e costante rapporto con l’amministrazione pubblica (analogo discorso potrebbe essere formalizzato con il mondo dell’impresa), a innovarsi continuamente quali luoghi di produzione di ricerca, sviluppo e innovazione.

Da diversi anni, ormai, il venir meno della capacità tecnica degli apparati dell’amministrazione pubblica (con particolare riguardo a quella centrale, senza sottovalutare l’andamento regressivo anche di molte amministrazioni regionali e comunali) sembrerebbe essere stata sostituita da improbabili e abborracciate strutture, con assunzioni aggiuntive a termine o con collaborazioni anch’esse a tempo determinato.

L’esito finale – una volta esaurito il compito per il quale queste strutture sono state costituite (fatto salvo che non vi sia un organizzato quanto riservato disegno strategico di esternalizzazione definitiva di funzioni e compiti amministrativi dello Stato) – sarà la dispersione del know-how accumulato e l’aver ulteriormente depresso l’apparato pubblico in attività, visto che è stato privato di un potenziale incremento di competenza e dei conseguenti adeguamenti salariali (almeno comparabili con quelli oggi garantiti al personale esterno).

Produttività (per quanto possibile) e competitività (per quanto necessario,) sono elementi che si impongono anche nella ri-organizzazione e razionalizzazione dell’amministrazione pubblica (non soltanto nei settori produttivi privati, per i quali la transizione verde impone una profonda riqualificazione di strutture, organizzazione e personale), per garantirne sviluppo e crescita economica, ma anche, cosa di non ultima importanza, per una sostanziale semplificazione dei procedimenti amministrativi in favore dei cittadini, gli unici cui dovrebbe essere riconosciuto il diritto soggettivo alla semplificazione dell’azione amministrativa, con l’auspicio di rinvigorire un contatto ormai debole fra istituzioni e pubblica opinione.

Quando il progressivo affievolirsi dell’iniziativa pubblica va oltre il disservizio ai cittadini (quasi scavalcandolo, con indifferenza e fastidio), la stessa presenza pubblica non si trasforma soltanto una palla di piombo per lo sviluppo del Paese, ma essa stessa diviene occasione generatrice di disagio, malessere e conflitto sociale (la “casa” e la “città” sono soltanto alcune delle grandi questioni aperte del malessere sociale).

Il necessario e progressivo efficientamento delle funzioni pubbliche (managerialità, capacità specialistiche, responsabilità, in una sostanziale equivalenza pubblico/privato), insieme all’assegnazione di specifici obiettivi e all’introduzione di un sistema di misurazione e valutazione dei risultati raggiunti (superando, finalmente, la generalizzata valutazione di “eccellenza” che caratterizzala la formulazione degli annuali stati di servizio del personale dirigente), dovrà comportare la parallela revisione delle piante organiche e il riconoscimento e adeguamento dei corrispondenti livelli retributivi, sia del personale del comparto con profili professionali inferiori che di quello dirigenziale (rendendo competitivi gli stipendi dei pubblici impiegati rispetto al settore privato), nessuna riforma amministrativa può essere a costo zero[35].

Quella che sembra essere stata accantonata (o persa) è proprio una concezione progressiva dell’apparato pubblico per stare al passo con i tempi (con un nutrito programma fatto di efficientamento dei servizi, adeguamento culturale e tecnologico, snellimento e professionalizzazione della pianta organica, avanzamento economico), operazione che ha bisogno di tempi adeguati, certamente non improntabile sui tempi brevi della politica italiana, che, in funzione delle richieste mutevoli e interessate delle diverse componenti sociali, preferisce muoversi adattando le proprie posizioni alla dimensione del presente o, al più tardi, a quella della più vicina scadenza elettorale.

Proporre e approvare riforme a “costo zero” significa non voler riformare nulla. Riformare a costo zero è cambiare tutto per non cambiare nulla.

  1. Il pianeta è diventato una immensa megalopoli. Il sorpasso è del 2006: più della metà del mondo vive nelle città. Si è innescata una guerra tra poveri, tra chi vi risiedeva e i nuovi arrivati. Si sono moltiplicati i conflitti e allontanate le possibilità d’integrazione. In molti casi, la stessa tenuta della democrazia è messa in discussione.” V. Paglia, Il crollo del NOI, Editori Laterza, Bari, 2018.
  2. Nei 1268 comuni che costituiscono le 14 città metropolitane italiane vivono poco meno di 21,3 milioni di italiani, il 36,2% del totale, occupando il 15,4% della superficie. 57° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2023.
  3. “Il titolo di città può essere concesso con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’interno ai comuni insigni per ricordi, monumenti storici e per l’attuale importanza”. Art.18, D.lgs. 18 agosto 2000, n.267 (TUOEL).
  4. Delle città metropolitane si è discusso per trent’anni, per poi approvare un testo di riforma costituzionale priva di una benché minima forza applicativa in grado di disarticolare, almeno per quelle sole realtà territoriali, con tutto il loro seguito di capacità economica e imprenditoriale, l’esasperato localismo nazionale. Con la loro costituzione si è persa una favorevole occasione per avviare un significativo processo di riorganizzazione degli attuali assetti istituzionali.
  5. Riprendendo, con una leggera forzatura del perimetro, quanto espresso dalla Commissione Rodotà – Ministero della Giustizia – Per la modifica delle norme del Codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Relazione.
  6. Legge 24 dicembre 1993, n. 560 “Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”, (nata da uno stralcio del provvedimento di bilancio per l’anno 1994 concernente “Interventi correttivi di finanza pubblica”) e art.9, co.9, legge 24 dicembre, n. 537 “Interventi correttivi di finanza pubblica”.
  7. “Renato Brunetta, ad esempio, a favore di questa “manovra”, in un suo articolo (“Come resuscitare il patrimonio morto degli IACP”, Il Sole 24ore, 1 febbraio 2006) sosteneva che: un milione di alloggi in gestione agli ex IACP, la cui proprietà è divisa tra l’80% delle ATER, il 10% dello Stato, il 10% dei Comuni. Il 45% del patrimonio è concentrato nelle dodici province delle aree metropolitane; circa 23 miliardi di euro il valore catastale di tale patrimonio al quale corrisponderebbe un valore di “mercato” pari a circa 70 miliardi di euro; il 58% del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica sarebbe costituito da “alloggi popolari” con circa 52.000 occupazioni abusive (pari al 6% del totale). Le considerazioni a supporto di tale scelta – secondo Brunetta – erano sostanzialmente volte a smobilizzare un “capitale morto” i cui proventi dovrebbero essere reinvestiti in una cura “shock” per fare fronte all’emergenza abitativa”. G. Fontana – R. Manzo, Edilizia residenziale pubblica e politiche della casa, Edizione in self publishing, Roma, 2020).
  8. Le città invisibili, Cap III [cornice 3A], I. Calvino, Mondadori, Milano, 2022.
  9. Di questi quartieri e su quanto in essi accade, come sempre, due opposte analisi. Una: “Non sono una banlieue… E, a ben vedere, neppure più una periferia…Le periferie, in senso geografico, non esistono. Esistono luoghi di frizione sociale, spesso persino a un passo dal centro storico… Depositi degli ultimi, dei poveri, degli immigrati, degli anziani, di chi non produce, di chi non è dentro la narrazione della città che non si ferma mai. Non è neppure più una questione etnica […] Viviamo in un paese che odia i giovani, che non fa nulla per loro […]. In più questi immigrati di seconda generazione (lo sentite l’intimo razzismo di questa definizione?)[…] Non hanno la cittadinanza italiana, non hanno un lavoro, non votano, non hanno un peso politico, non contano nulla. Non è rabbia, è frustrazione”. G. Biondillo, La Repubblica, 27 novembre 2024. L’altra: “Aree periferiche diventate ghetto per milioni di immigrati che faticano a integrarsi e nelle quali degrado e delinquenza la fanno da padroni, con immigrati rivoltosi a cui sono saltati i freni inibitori. Non solo ambiscono a controllare spezzoni di territorio, ma puntano a sottrarlo completamente alla legge ordinaria e ai suoi custodi”, D. Capezzone, Libero, 27 novembre 2024; o anche: “La colpa è dell’eccessivo buonismo della sinistra sull’immigrazione[…] Intere aree suburbane delle grandi città, che già avevano problemi di loro, sono state cedute ai nuovi arrivati che, col tempo, ne hanno preso il controllo sia abitativo sia commerciale a scapito del precedente tessuto sociale”, A. Sallusti, il Giornale, 27 novembre 2024.
  10. Fili d’erba nelle crepe. Risposte di speranza. Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia 2024. Caritas Italiana, 12 novembre 2024, Edizioni Palumbi. Il Rapporto racconta di una Italia sempre più in povertà assoluta (9,7% della popolazione, 5 milioni 694mila persone), sottolinea l’incremento della povertà delle famiglie al Nord (raddoppiate dal 2014 a oggi e in numero assoluto superiori alle famiglie del Sud), quello della povertà di persone occupate e dei minori, l’irreversibilità della condizione di privazione (economica, educativa, di relazione, ecc.) ormai strutturale. I “fili d’erba” sono le azioni che il sistema Caritas e le onlus, spesso in collaborazione con le Amministrazioni locali, mettono in atto per integrare – spesso sostituire – il servizio abitativo pubblico.
  11. “…un piano nazionale per l’edilizia residenziale pubblica e sociale, di seguito denominato “Piano casa Italia”, avente ad oggetto il rilancio delle politiche abitative come risposta coerente ed efficace ai bisogni della persona e della famiglia. […] Il piano rappresenta uno strumento programmatico finalizzato a definire le strategie di medio e lungo termine per la complessiva riorganizzazione del sistema casa, in sinergia con gli enti territoriali, al fine di fornire risposte ai nuovi fabbisogni abitativi emergenti dal contesto sociale, integrare i programmi di edilizia.” A.C. 2112 bis, Disegno di legge di bilancio 2025.
  12. Le due felici espressioni sono state utilizzate da R. Manzo ne Il Quotidiano Immobiliare, 21 gennaio 2024 e nel “Piano casa? Non pervenuto”, Il Quotidiano Immobiliare, 31 ottobre 2024. Si rinvia a questi articoli per gli interessanti approfondimenti.
  13. Secondo stime di Federcasa (84 IACP associati e 770 mila alloggi pubblici gestiti), ristrutturare l’intero parco immobiliare pubblico – 900 mila alloggi e una media di 25 alloggi per edificio – sarebbe costato circa 88 miliardi; o anche, per recuperare le 60.217 case popolari sfitte, perché inagibili o fatiscenti, con una spesa media di 15/20 mila euro ad abitazione, sarebbero bastati 11,2 miliardi, dando un tetto a circa 180 mila persone; oppure ancora, per rispondere alla richiesta di un alloggio pubblico da parte di oltre 200 mila famiglie in lista d’attesa, si sarebbero spesi 26 miliardi, considerando un costo medio di 130 mila euro ad alloggio (1600 euro/mq per 80 mq). Il Foglio, Le case popolari fregate al 110%, Sabato 23 e Domenica 24 novembre 2024.
  14. Sono oltre 300 le amministrazioni locali (in continua crescita) che hanno approvato regolamenti e leggi per la gestione condivisa di beni comuni (dopo la prima sperimentazione pilota del comune di Bologna del febbraio 2014). Molte sono le iniziative che manifestano particolare attenzione per questo tipo di utilizzo, da Napoli con l’istituzione della Città dei Giovani nel Real Albergo dei Poveri a Cinisello Balsamo con il centro culturale Il Pertini; da Roma con il “Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni” alle proposte di legge di iniziativa parlamentare e di iniziativa popolare per la costituzione di Assemblee cittadine. Per una informazione approfondita dell’argomento, si rinvia a “labsus – Laboratorio per la sussidiarietà”.
  15. “La società italiana al 2024”, 58° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, Roma, 6 dicembre 2024.
  16. Un nuovo bene pubblico da tutelare “[…] che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale […]”. Art. 4, legge 18 aprile 2017, n.48.
  17. Il 72,5% degli italiani (42,7 milioni), come il 75,9% dei greci e il 77,3% degli spagnoli, vive in case di proprietà, a fronte del 65,4% dei francesi e del 45,2% dei tedeschi. 57° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2023. Spinta alla proprietà anche grazie a un esuberante mercato dei mutui fondiari.
  18. “Una città che chiude alle dieci di sera non è attrattiva. I residenti lo devono capire. Signora, – rivolto ad un’ipotetica residente – ho trovato il modo per risolvere il suo problema: facciamo un cambio: Io le do i miei 500 mq nel mio paese (Tivoli) e lei mi da i suoi 50 nel centro di Roma. Le assicuro che nel mio paese c’è pace e si dorme benissimo. Ma se vivi in centro un po’ di rumore te lo devi aspettare” F. Lollobrigida, Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. Fipe-Confcommercio, Assemblea annuale 2023, Roma 15 novembre 2023.
  19. Tra il 2021 e il 2022 nelle grandi città italiane le presenze turistiche sono più che raddoppiate, +104,4%, 57° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2023.
  20. Un recente studio sugli effetti urbani di Airbnb ha verificato l’esistenza di un meccanismo virtuale – l’algoritmo di Airbnb – che premiando i luoghi più visitati e recensiti finisce per concentrare ancora di più i turisti in alcuni luoghi delle città:” Le piattaforme digitali, come Airbnb, possono essere considerate come ‘orchestratori di reti’ che gestiscono i flussi di dati e di informazioni prodotti dagli utenti. In questo contesto, le recensioni agiscono come una camera d’eco che plasma la città creando una divisione sempre più marcata tra alcune parti connesse ai flussi globali dove si concentra tutto il valore e altre disconnesse con il risultato di una sempre maggiore polarizzazione e frammentazione tra centro e periferie”. A. Romano, C. Capineri, T. Bonini, Dieci anni di Airbnb a Firenze: gli effetti sulla città dal 2009, Rivista Geografica Italiana, 2023.
  21. Sono solo di qualche anno fa le interessanti riflessioni di Luca Ricolfi quando definiva l’Italia “una società signorile di massa” caratterizzata da più inoccupati che occupati, da consumi opulenti in assenza di lavoro, grazie alla ricchezza accumulata dagli italiani negli anni passati. Per molti anni, “lo scopo dominante degli italiani che lavorano è stato sempre più̀ l’acquisto di case e di tutto quello che le è connesso. […] Il miglioramento del tenore di vita è affidato esclusivamente alla dinamica della ricchezza, case e risorse finanziarie, e non più̀ alla dinamica dei redditi. Grazie allo spirito di sacrificio dei padri, è decollato quel processo di iperpatrimonializzazione che della società signorile di massa è un pilastro essenziale”. L. Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano, 2019.
  22. Con Gentrification, termine inglese che deriva da gentry (piccola nobiltà) normalmente si indica il progressivo imborghesimento di un quartiere popolare, frutto di processi di rigenerazione ambientale attivati da un determinato gruppo sociale o professionale (in genere appartenente a una fascia medio-alta della borghesia) o essere indotta attraverso piani di riqualificazione strutturale. Il termina fu coniato nel 1964 dalla sociologa tedesca R. Glass che, trasferitasi a Londra, osservava come molti quartieri popolari stavano perdendo il loro carattere di classe operaia e venivano occupati da appartenenti alle élite cittadine, diventando accessibili “…solo ai più abbienti che possono permettersi di vivere e lavorare lì. […] Una volta che questo processo di gentrificazione inizia in un distretto, va avanti fino a quando tutti o la maggior parte degli occupanti originari della classe operaia sono sfollati, l’intero carattere sociale del distretto è cambiato”. Il cambiamento era dovuto – ritiene la sociologa tedesca – al crescente sostegno dello Stato allo sviluppo immobiliare privato e alla mancata applicazione della normativa sugli affitti.
  23. “La città non è stanca delle case, perché le case, gli uffici, le strutture pubbliche e private sono la vita e la sostanza della città. La città è stanca delle case abbandonate al degrado, del consumo avido del suolo, delle aree inutilizzate, delle case che potrebbero ospitare persone e che sono invece vuote per calcoli meschini, per paura verso chi cerca un’abitazione, per evitare fastidi. La città è stanca delle case occupate e sottratte a chi ne ha diritto”. Lasciate riposare la terra. Di che cosa è stanca la città? M. Delpini, Arcivescovo di Milano, Discorso alla Città Basilica di Sant’Ambrogio, Milano, 6 dicembre 2024.
  24. Anche la Comunità di Sant’Egidio, parlando di Roma, racconta il profondo disagio che pervade tutte le città italiane. Un richiamo fortemente allarmato, in particolare per quel che riguarda l’emergenza abitativa: oltre 23 mila i senza tetto, 162 mila le case sfitte, oltre 5 mila gli sfratti nel 2023, 14 mila i nuclei familiari in lista di attesa per la casa popolare. M. Impagliazzo, “Michelin dei poveri. Dove mangiare, dormire, lavarsi”, Sant’Egidio, Roma, 2023.
  25. La città non è stanca dei turisti, perché desidera essere conosciuta, ammirata per la sua storia e le sue bellezze. La città è stanca dei turisti che l’affollano senza rispetto, che invadono le case con passaggi rapidi e la spopolano di residenti. La città è stanca dei turisti frettolosi che considerano i tesori cittadini solo come oggetti da fotografare invece che come racconti di storia, testimonianza di fede, bellezze da contemplare. Lasciate riposare la terra. Di che cosa è stanca la città? M. Delpini, Arcivescovo di Milano, cit.
  26. Nell’ultimo anno, quasi 200 mila famiglie non sono riuscite a rimborsare una o più rate di mutui a tasso variabile accesi per l’acquisto di una casa. Indagine mUp Research e Norsta, commissionata da Facile.it.
  27. «Sono egiziani, marocchini, algerini, albanesi, montenegrini, kosovari, italiani di prima, seconda e terza generazione. Spesso minorenni. Hanno la divisa “maranza” (tute nere, scarpe Nike, sacoche a tracolla, passamontagna). Lo stesso look dei ragazzi delle banlieue parigine o spagnole. Parlano arabo, francese, italiano, qualcosa d’inglese, alcuni hanno l’accento slavo, altri del Sud America. Non c’è una leadership anche perché nella terra dei “reietti” sono tutti “uguali”. Tutti “bro”, fratelli. […] La rabbia è un sentimento covato in una città in cui questi ragazzi si sentono estranei e per questo padroni del loro unico spazio. Ma la città che distruggono è anche la loro. Cesare Giuzzi, Corriere della Sera, Prima ora, 28 novembre 2024.
  28. Dal Messaggio di fine anno 2023 del Presidente della Repubblica.
  29. Così questo commento de La Stampa può valere, indifferentemente (e solo come constatazione di fatto, in disparte qualunque interpretazione populista), per entrambi gli schieramenti politici: ”Avrebbero dovuto fare delle periferie luoghi di inaudito nuovo splendore, doveva anzi bastare uno schiocco di dita, era così evidente e così facile, ma cinque anni dopo le periferie sono ancora lì, se non un passo indietro: rifiuti dove c’erano rifiuti, buche dove c’erano buche, emarginazione dove c’era emarginazione…Tutto finito”.
  30. Si fa riferimento all’A. C. n.1987/2024,”Disposizioni di interpretazione autentica in materia urbanistica ed edilizia” (approvato dalla Camera dei Deputati e ora incardinato presso la Commissione Ambiente del Senato della repubblica), fortemente criticato nella lettera-appello “Non approvate il Salva-Milano” , da otre 140 urbanisti, giuristi, economisti, storici, sociologi, geografi: “Questa proposta di legge [riporta la lettera-appello] cambierà radicalmente il futuro delle nostre città, rendendole sempre più congestionate ed elitarie Toglierà ai Consigli comunali il potere di controllare che i costruttori e i fondi immobiliari facciano l’interesse pubblico, e cioè realizzino, insieme ai nuovi palazzi, anche i servizi per la città, edilizia sociale, parcheggi, marciapiedi, piste ciclabili, parchi, scuole, biblioteche eccetera. […] Non è vero che la “rigenerazione urbana” si possa fare senza piano e con oneri ridotti nelle aree già urbanizzate, perché queste sono già infrastrutturate e ricche di servizi: tutti i cittadini sanno quanto verde, quanti parcheggi, quanta edilizia sociale e quanti servizi manchino proprio lì dove la città già esiste, eppure si intende densificarla, aumentando i carichi urbanistici. […] Se approvata, questa legge impedirà di promuovere politiche di vera “rigenerazione” e riqualificazione delle nostre città e delle periferie, ridurrà verde e servizi, innescherà dinamiche finanziarie che aumenteranno i prezzi dell’abitare e accresceranno le disuguaglianze nelle città.
  31. Basterebbe ricordare la rilevanza dell’Ufficio architettura della Gestione, diretto da A. Libera, che ebbe un ruolo fondamentale nell’impostazione del Piano Ina-Casa e nella redazione della prima manualistica di riferimento. Così come il CerDoc (Centro permanente di documentazione per l’edilizia residenziale, presso il Comitato edilizia residenziale del Ministero dei lavori pubblici) al quale venne trasferito tutto il materiale bibliografico nonché la dotazione tecnica di tutti gli enti che operavano nel settore dell’edilizia pubblica. E ancora, tutta la documentazione e il materiale elaborato dalla Dicoter (Dipartimento coordinamento territoriale), “Cento anni di piani urbanistici – Archivio piani Dicoter”, sistemazione e archiviazione di tutti i Piani regolatori dall’unità d’Italia all’istituzione delle Regioni; “1° Rapporto sullo stato della pianificazione in Italia al 2000” (Dicoter-Inu); “l’Italia che verrà, una visione del paese al 2020”. Per citare solo alcuni elementi dello sforzo di costruire conservare e continuamente elaborare una indispensabile base conoscitiva pubblica.
  32. Rapporto 2022, Ministero per la pubblica amministrazione, Roma, 20 settembre 2022.
  33. Il meccanismo dello spoils system non si applica ai vertici dei Ministeri della difesa, degli esteri e dell’interno.Mentre lo spoils system del sistema americano implica la cessazione del rapporto di lavoro, in Italia, il rapporto di lavoro del dirigente statale permane a tempo indeterminato, mentre il rapporto d’ufficio diventa temporaneo ed è regolato con un provvedimento di conferimento dell’incarico in cui “sono individuati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice” (art.19, co.2, d.lgs. n.165/2001) Ancor oggi, sono queste le “regole d’ingaggio” dei dirigenti pubblici di carriera, da cui deriva la differenza tra l’essere dirigente e lo svolgere le funzioni dirigenziali. G. Bolego, Il pubblico impiego dalle riforme degli anni ’90 ad oggi, Corte dei Conti, Roma, 2021.
  34. Non vi è dubbio che sulla carta tanti sono i loro benefici, ma, nel caso di un loro massiccio utilizzo sarebbe opportuna una presa di coscienza della classe politica, a cui tanto piacciono i signori del web, ricordando che: “L’amministrazione pubblica deve cercare di sfruttare tutte le potenzialità insite nell’Intelligenza artificiale, senza però abbandonare l’aspirazione a essere aperta e adattabile alle circostanze concrete. […] Si tratta di strumenti in grado di automatizzare compiti ripetitivi, fornire previsioni per assumere decisioni basate sui dati e contribuire alla personalizzazione dei servizi pubblici, utili a svecchiare l’immagine di un’amministrazione burocratica e lenta: maggiore efficienza, economicità, rapidità e riduzione dei tempi di conclusione dei procedimenti. […] Resta sullo sfondo la questione, ineliminabile, dell’aumento del nostro condizionamento dai grandi colossi informatici. […] l’Intelligenza artificiale, anche se utilizzata solo in maniera strumentale, rischia di portare con sé un germe di autoritarismo. Essa suggerisce all’amministrazione l’adozione di decisioni dettate da una logica efficientista, opposta alla logica democratica. […] Per l’amministrazione la questione è, dunque, cercare di sfruttare tutte le potenzialità insite nell’Intelligenza artificiale senza però abbandonare l’aspirazione ad essere aperta, flessibile e adattabile alle mutevoli circostanze concrete lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale diviene un’occasione imperdibile per rafforzare l’intelligenza naturale dei funzionari pubblici.” M. Ramajoli, Riforme amministrative e IA, il Mulino, Bologna, 28 maggio 2024.
  35. Se si considera l’incidenza dei dipendenti pubblici rispetto alla popolazione, tale valore in Italia nel 2020 era pari a 54 dipendenti per 1000 abitanti. Rispetto a Francia, Spagna e Germania, l’Italia è quella che in proporzione presenta il minor numero di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione. Quanto al ricambio generazionale, nell’ultimo decennio è stato generalmente lento e non funzionale. Nelle amministrazioni centrali, la sostituzione del personale in servizio è stata pari a un solo nuovo assunto a fronte di tre cessazioni. Se nel 2001 l’età media di un dipendente pubblico era di 44,2 anni, nel 2020 si attestava a 50,74 anni. Nello stesso anno, l’Italia era anche il Paese dell’area OCSE con il più alto tasso di dipendenti ultracinquantacinquenni nel comparto delle Funzioni Centrali. Rapporto 2022, cit.