Punto, Linea, Superficie. Materiali urbani per la trasformazione territoriale

Eliana Saracino

Parole chiave: Infrastruttura, Paesaggio, Spazio Pubblico, Densificazione, Metabolismo Urbano

Keywords: Infrastructure, Landscape, Public Space, Densification, Urban Metabolism

Abstract:

IT) Gli interventi di riattivazione delle stazioni urbane periferiche costituiscono un’importante occasione di rigenerazione urbana e, più in generale, sono un emblematico caso studio per sviluppare delle riflessioni sulla dimensione della città contemporanea, sul significato dello spazio pubblico e sul ruolo del progetto urbano come strumento di intervento per riammagliare e dare nuovi significati al policentrismo della città diffusa.

Le linee, un sistema lineare capillarmente impresso sul territorio, le superfici, gli spazi di margine tra le isole della città dispersa, e i punti, ossia i nodi che li interconnettono, costituiscono i materiali urbani di cui disponiamo per innescare trasformazioni più ampie sul territorio, capaci di riarticolare la frammentazione, definendo nuove relazioni tra città, paesaggio e infrastruttura.

La sfida consiste nell’elevare questi luoghi da una condizione di invisibilità a esempi paradigmatici di spazio urbano, spazi non convenzionali, densi di significato, in cui la mobile cittadinanza contemporanea può sviluppare forme alternative di appartenenza, radicamento e identità.

EN) The reactivation interventions of peripheral urban stations represent a significant opportunity for urban regeneration. Moreover, they serve as emblematic case studies to develop reflections on the contemporary city dimension, on the meaning of public space, and on the role of urban design as a tool to reconnect and redefine new meanings into the polycentrism of the sprawl city.

Lines, linear systems widely imprinted on the territory, surfaces, marginal spaces between the islands of the dispersed city, and points, the nodes that interconnect them, constitute the urban materials at our disposal to trigger broader transformations on the territory. These transformations aim to rearticulate fragmentation, thereby defining new relationships among city, landscape, and infrastructure.

The challenge lies in elevating these spaces from a state of invisibility to paradigmatic examples of urban spaces. These unconventional spaces, rich in significance, provide a stage where the mobile contemporary citizenship can cultivate alternative forms of belonging, rootedness, and identity.

Materiali per riarticolare l’urbanità

Nel contesto disperso e frammentato dei territori attuali, i sistemi infrastrutturali organizzano e misurano lo spazio, creando legami tra luoghi diversi, che vengono messi in comunicazione indipendentemente dalla loro distanza fisica, facendo perdere importanza al concetto di prossimità a favore di quello di accessibilità. Tenendo insieme la scala territoriale e la scala locale, la città materiale dei luoghi e quella immateriale dei flussi, rappresentano gli elementi ordinatori della città diffusa e permettono all’homo mobilis (Amar, 2016), cittadino nomade della postmetropoli, di costruirsi una narrazione personale, fondata su una propria mappa mentale e sull’esperienza cinematica che fa dello spazio. I sistemi infrastrutturali incidono irrimediabilmente sull’ambiente e sul modo d’uso del territorio; in particolare le reti ferroviarie rappresentano quasi sempre un’occasione persa: vengono progettate seguendo logiche di tipo strettamente tecnico-funzionale, trascurando l’opportunità di trasformare la piaga in paesaggio (Roger, 1999) e di integrare realmente l’infrastruttura con i luoghi attraversati. Elemento ordinatore e separatore allo stesso tempo, l’infrastruttura si sovrappone al territorio modificandone in modo profondo la struttura, determinando una trasformazione lenta e radicale dell’equilibrio morfologico, alterando il rapporto tra tessuto edificato e spazio aperto. Nel loro essere indipendenti e impermeabili, i tracciati ferroviari producono alterità, separazioni, cesure nella continuità urbana e territoriale. Fratture nel paesaggio, che sia esso urbano o naturale.

Secondo questa logica riproduttiva, il tessuto urbano è avanzato senza sosta sul territorio per semplice giustapposizione di oggetti consecutivi, generando una sovrapposizione di spazi, imprevisti e non progettati, dei residui spaziali spesso percepiti come spazi negativi, insicuri e pericolosi, portatori di degrado ambientale. Secchi (1993) li definisce come spazi tra le cose e scrive che «la città, il territorio sono divenuti immense collezioni di oggetti paratatticamente accostati e muti […]. Lo spazio che sta “tra le cose”, tra oggetti e soggetti tra loro prossimi […] è divenuto “vuoto” perché privo di un ruolo riconoscibile». I residui spaziali sono non immediatamente identificabili e decifrabili. Sono spazi in un momento di sospensione fra ciò che è stato e l’anticipazione di ciò che è possibile, costituendo una pausa in grado di far emergere le parti che su di essa si attestano.

L’intrinseca impermeabilità della linea ferroviaria non crea interazioni attive con i luoghi che attraversa, dando luogo a dinamiche di scambio esclusivamente nei nodi delle stazioni, punti di osmosi tra il sistema lineare, continuo e territoriale dell’infrastruttura e lo spazio, urbano o naturale, lasciato sospeso dal progredire della città diffusa. Le stazioni, fino all’ultimo decennio dello scorso secolo, sono state concepite come degli elementi urbani monofunzionali, dedicati esclusivamente al trasporto. Spesso portavano disvalore, generando non-luoghi senza identità, luoghi di cesura e degrado, luoghi di conflitto e marginalizzazione, indifferenti al contesto e alle dinamiche urbane. La risignificazione dei punti di interconnessione tra il sistema delle reti e il sistema degli spazi rappresenta oggi una risorsa di altissimo potenziale. Il nodo è propulsore di una catalisi rigenerativa dei tessuti circostanti: difatti, possiede allo stesso tempo una forza centripeta, come catalizzatore di attività, densità e funzioni urbane in virtù dell’alta accessibilità, e una forza centrifuga, come polo attivatore da cui far riverberare processi di rigenerazione urbana estesi anche agli ambiti circostanti.

Le linee, un sistema diffuso capillarmente impresso sul territorio, le superfici, gli spazi di margine tra le isole della città dispersa, e i punti, ossia i nodi che li interconnettono, costituiscono i materiali urbani di cui disponiamo per innescare trasformazioni più ampie nella metropoli dispersa e despazializzata. Sono luoghi che, mettendo insieme la dimensione territoriale e quella locale, possono riarticolare la frammentazione, definendo nuove relazioni tra città, paesaggio e infrastruttura. La sfida consiste nell’elevare questi luoghi da una condizione di invisibilità a esempi paradigmatici di spazio urbano, spazi non convenzionali, densi di significato, in cui la mobile cittadinanza contemporanea può sviluppare forme alternative di appartenenza, radicamento e identità[1].

Una questione di intensità

Lo spazio pubblico nasce dall’esigenza di organizzare attorno ad alcune funzioni e a certi spazi i bisogni collettivi delle comunità. Nel corso della storia urbana ha rappresentato il luogo dell’incontro, del commercio, dello scambio, della celebrazione di riti civili e religiosi e della condivisione di attività in comune. Ogni epoca ha prodotto un diverso modello di spazialità urbana, così come una tipologia di spazio pubblico che ne incarna le specificità. Nella postmetropoli si è assistito alla compressione del senso dello spazio e del tempo (Harvey, 1989) e al conseguente cambiamento sostanziale delle abitudini dei cittadini: il superamento della definita e predeterminata impostazione ritmica dei tempi ‘casa-lavoro-divertimento’ ha portato a una condizione più precaria e flessibile, propria della società dell’informazione, e dunque a un diverso modo di vivere il tempo libero e lo spazio pubblico. Per l’uomo contemporaneo lo spazio pubblico è un luogo in cui si compiono attività facoltative, è un luogo in cui si sceglie di svolgere azioni a seguito di un atto volontario. Non è lo spazio che bisogna frequentare per necessità, per avere informazioni, per essere in contatto con il mondo di cui è cambiata radicalmente la dimensione di riferimento e la velocità della comunicazione.

Possiamo oggi parlare di spazio pubblico come spazio della reciprocità, uno spazio costituito da un insieme di luoghi e persone, il cui valore d’insieme è relativo alla loro reciproca relazione. Non necessariamente è riconoscibile in una tipologia spaziale. Non è identificabile nella strada o nella piazza. È uno spazio che diviene pubblico a prescindere dal suo ordinamento giuridico, a seconda del senso che una determinata cultura e comunità gli attribuisce in uno specifico momento. Ma nella società globale non si può parlare di un modello culturale univoco, quanto di culture ibride, derivanti dalle diverse istanze, culturali, etniche, sociali e ambientali, che si sovrappongono nello spazio urbano. Queste producono molteplici forme ‘leggere’ di comunità e di sociabilità (Amin & Thrift, 2005), che si sviluppano nell’ambito di un clima di dispersione dei comportamenti e dei modelli di vita, e che fanno propri alcuni dei principali connotati della contemporaneità, come ad esempio l’autonomia del soggetto che agisce per sé stesso, insieme all’altro, vivendo affollate solitudini (La Pietra, 2023). Le tribù postmoderne (Amendola, 2005) costruiscono solidi e temporanei legami emotivi, generano nuove forme di aggregazione, condivisione e comunanza attorno a interessi parziali, transitori e despazializzati: la comunità diventa una dimensione instabile e una realtà aperta e mutevole, che produce forme di aggregazione che hanno una relazione con lo spazio più complessa, non necessariamente legata a un rapporto di prossimità, e che per questo permette appartenenze molteplici. I legami aggregativi su cui si basano sono eterogenei e trasversali, indipendenti da vincoli predeterminati di tipo economico, sociale, politico o spaziale. Danno vita così a inediti scambi e intersezioni che riproducono uno dei caratteri fondativi della città, quello dell’incontro con l’altro, con l’estraneo, con il diverso da sé, restituendo quell’aspetto dell’imprevedibilità in parte perduto nelle dinamiche socio-spaziali proprie della città postmoderna.

La stazione – e le piccole stazioni urbane in particolare – possono essere, non solo un punto di partenza e arrivo, ma possono assolvere la funzione di spazio pubblico che risponde alle esigenze collettive del cittadino nomade metropolitano. Rispondono al modo di vivere la città contemporanea che avviene secondo più dimensioni (temporali, spaziali, funzionali), possiedono un’endemica capacità di creare intensità e congestione, si inseriscono continuativamente e organicamente nell’uso quotidiano e nell’itinerario di viaggio delle comunità, fungendo da fulcro per le attività giornaliere nella vita fluida dell’abitante-consumatore della città postmoderna. Valorizzarle come nodi complessi e funzionalmente più articolati fa presumere elevate possibilità di successo per interventi di recupero urbano (Burdett, 2015), in virtù della loro capacità attrattiva e del loro alto livello di accessibilità, da integrare ulteriormente con reti di trasporto collettivo e di mobilità sostenibile. Possono diventare spazi polifunzionali attivi durante l’arco dell’intera giornata, in cui confluiscono, oltre che i servizi relativi al trasporto, anche quelli che colmano le carenze della città e dei suoi tessuti.

Il nodo catalizza trasversalmente diverse popolazioni attratte dalla concentrazione funzionale o dalla necessità di spostamento; queste, nella metropoli frammentata, non avrebbero avuto altra occasione di scambio. Per scelta o casualità, questi catalizzatori vengono vissuti con temporalità diverse dai diversi soggetti urbani nella loro esperienza quotidiana della città: dagli abitanti delle aree limitrofe, per una questione di prossimità; dai pendolari, che intercettano lungo il tragitto da e verso il luogo di lavoro opportunità di time saving per le attività quotidiane; dagli impiegati nelle nuove attività e servizi necessari al funzionamento del nodo stesso; dai turisti, per i quali questi punti, se opportunamente integrati con servizi legati alla mobilità e all’accoglienza, possono diventare nuove porte della città, da cui partire per scoprirla e esperirla con diverse velocità; dai flâneur contemporanei, che vagano senza meta nella folla indistinta; dagli appartenenti alle molteplici tribù metropolitane, che possono trovare in questi luoghi uno spazio di autorappresentazione e radicamento, perché vi riconoscono un senso di appartenenza costruito insieme agli altri attorno alla partecipazione ad uno specifico atto collettivo.

Dunque un’alta concentrazione di persone e di attività. E quando parliamo di rigenerazione urbana, la questione della densità costituisce un aspetto essenziale. Il dato va oltre la semplice proporzione tra persone e spazio. La concentrazione di differenti funzioni, che siano esse attrattive alla scala urbana o a quella locale, e la convergenza in un punto di una massa critica di persone genera inevitabilmente una sorta di intensità. Intercettando e favorendo lo sviluppo di queste dinamiche, si genera quello stato di piacevole congestione, essenza stessa della condizione contemporanea (Koolhaas, 1978), che caratterizza la città. I nodi infrastrutturali e i territori ad essi adiacenti sono dunque luoghi potenzialmente connotati da una forte urbanità che, grazie alla diversificazione dei servizi offerti e ai differenti tipi di popolazione che attraggono, innescano dinamiche proprie della città consolidata, rappresentando pertanto campi privilegiati per immaginare figure di spazio collettivo in cui sviluppare nuovi rituali urbani. Svolgono un ruolo sostanzialmente paragonabile a quello della strada o della piazza, intese come catalizzatori di densità, prima dell’inversione dei concetti di vuoto e di pieno prodotta dalla città del movimento moderno.

Attraverso la condivisione di atti collettivi, le comunità leggere si definiscono fin dal principio sulla relazione che intercorre tra lo spazio e la forma di socialità che in esso si sviluppa. Le identità si formano in un processo evolutivo dinamico, che si fonda sulla stratificazione dei rapporti che si instaurano nel luogo e con il luogo, tali da generare un senso di appartenenza e radicamento; si formano attraverso l’identificazione con lo spazio stesso, al quale, nel farsi dell’azione, viene attribuita una sorta di personalità, un carattere di specificità, che lo rende eccezionale, diverso dagli altri e pertanto distinguibile nel territorio globale. Gli spazi pubblici contemporanei devono essere allora luoghi adatti alla rappresentazione di questa frammentazione, di questa parcellizzazione dei legami sociali, delle relazioni mutevoli e della flessibilità. Deve essere uno spazio pubblico multiplo, in cui la popolazione che lo attiva proietta in esso – anche solo temporaneamente – un senso collettivo e parziale, risignificandosi così di volta in volta. Deve essere uno spazio pubblico in grado di modificarsi, evolversi e accogliere il cambiamento nel tempo per poter essere ancora attraente e potenziale oggetto di scelta da parte di comunità istantanee, sempre diverse, che agiscono nello spazio urbano.

Appunti per un metabolismo urbano

Nella complessità della postmetropoli contemporanea serve avere una visione ampia e articolata dell’urbanità, più appropriata alla realtà attuale. Serve offrire un’alternativa ai rigidi meccanismi dell’usuale pianificazione. Serve pensare in termini di progetto urbano, in un approccio che, tenendo insieme pianificazione, architettura e paesaggio in un patto fra le discipline che converge verso il raggiungimento di obiettivi comuni, tende verso un’ibridazione in cui le valenze reciproche di ciascun ambito non sono antitetiche, ma complementari, in una sovrapposizione di campi in continua ridefinizione. Questo implica una pratica adattativa e transcalare di progetto (Waldheim, 2006), che si fa carico di costruire la qualità urbana, consentendo la continuità dei cicli vitali in una sorta di funzionamento metabolico dell’organismo-città, e che produce modelli aperti e incompleti, reversibili e evolutivi, prefigurando in termini positivi e potenziali il cambiamento, l’indeterminatezza e la negoziazione.

Il caso specifico preso in esame costituisce un esempio paradigmatico per esemplificare questi processi. Il progetto in questi luoghi implica, da un lato, intervenire sulle reti (ambientali, infrastrutturali, tecnologiche, sociali) che propongono nuove forme di aggregazione e nuovi valori fisici, simbolici e d’uso, garantendo il legame con la dimensione metropolitana, e dall’altro agire puntualmente sui nodi, come un’agopuntura, il successo della cui riattivazione è abbastanza scontato grazie alla loro alta accessibilità collettiva e capacità attrattiva. Tra queste due dimensioni esiste quello spazio intermedio su cui serve scommettere.

Lo spazio sospeso, generato dalla progressiva frammentazione del territorio, è lo spazio entro cui riarticolare la relazione fra le parti. Introducendo attività e funzioni eccezionali di richiamo sovralocale, ma fortemente radicate nei caratteri specifici del territorio in cui risiedono, caratteri che vengono riletti, riattualizzati e reinterpretati per definire prospettive future di sviluppo[2], sono i territori privilegiati in cui mettere in atto un processo sostenibile di ristrutturazione urbana. Un processo volto a contrastare il consumo di suolo, a ridefinire le relazioni fra la città e il paesaggio, a restituire spazi pubblici e servizi collettivi a isole di città monofunzionali, a creare opportunità di crescita economica e sociale. Allora il progetto urbano assume la valenza di progetto di territorio: quando riesce a innescare un processo di trasformazione diffusa dei luoghi, orientando le scelte dei differenti soggetti, pubblici e privati, coinvolti nella trasformazione spaziale verso un’idea di futuro condivisa e sostenibile, ossia durevole nel tempo. Disponibilità di spazio, una relativa riduzione del controllo, una buona accessibilità, infrastrutture già esistenti, un’innegabile capacità di condensazione di flussi sono motivi per cui questi luoghi sospesi possono essere facilmente reintegrati nei tessuti esistenti, diventando nuove centralità capaci di dare senso a interi settori urbani.

Nei terrains vague (de Sola-Morales, I., 1995a) tra infrastruttura e città, la vita urbana trova un campo significativo di sperimentazione. È necessario trovare un nuovo modo di guardare questi spazi vuoti indifferenziati, leggendoli come distanze da poter rendere interessanti attraverso una nuova capacità dello sguardo (de Solà-Morales, M., 1995b). Sono spazi che, se guardati da un altro punto di vista, chiedono senso, ma non invitano ad attribuirlo in modo stabile; stimolano piuttosto un processo di continua risemantizzazione per la definizione di un senso provvisorio, pronto a rinnovarsi ancora – e fatto per rinnovarsi ancora – generando così nuove ‘specie di spazi’. A uno sguardo più ampio, il loro insieme costituisce un sistema, una sorta di soft-infrastructure, un tessuto connettivo all’interno degli insediamenti diffusi, capace di fornire una narrazione alternativa degli elementi urbani. Un’infrastruttura morbida, perché in continua trasformazione, luogo in cui la città può assorbire la sua necessità di cambiamento e di soddisfazione di nuovi bisogni non preordinati dal sistema dominante. Come le friche in natura sono caratterizzate da un intenso dinamismo evolutivo, sono spazi che possono essere intesi come riserve urbane per la sperimentazione. Pertanto non si tratta necessariamente di densificare e suturare con il costruito, quanto di riconnettere, lasciando delle sacche di trasformabilità, infrastrutturate ma aperte al cambiamento. Lo spazio continuo interstiziale è una rete che si diffonde nella filigrana della città, andando a comporre in una sequenza dinamica uno spazio pubblico totale che cambia, muta e si adatta in un processo di metamorfosi evolutiva continua.

Ciò significa pensare alla città come un sistema vivente e metabolico e dunque riconoscere la presenza di processi attivi, intensi e vitali che testimoniano la capacità di recupero e resistenza dei sistemi urbani, in cui il paesaggio, la città e l’infrastruttura costituiscono la trama connettiva e strutturante in cui si determinano nuovi statuti tra naturale e artificiale. Per raggiungere questi scopi è necessario quindi scardinare la rigidezza della pianificazione e muoversi verso una modernità debole e diffusa (Branzi, 2006), fatta di sistemi imperfetti e incompleti, in cui si lasciano le maglie sufficientemente larghe per accogliere la possibilità di cambiamento e di costruzione di uno spazio aderente alle richieste di uno specifico momento. Alla produzione di progetti definitivi e conclusi, immagine di una società stabile, fondata su ritmi strettamente regolamentati, si contrappongono sistemi aperti e irrisolti, reversibili e fluidi, che probabilmente meglio corrispondono a una società anch’essa fluida e poco definita come quella contemporanea, collocata in uno stato continuo di imperfezione e crisi.

Note

1 Il tema è stato oggetto di studio per due anni accademici nel Laboratorio di Progettazione 3M della Laurea Magistrale in Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre. È stata presa in esame una sezione radiale del territorio di Roma che si sviluppa verso sud-est (Fig. 1), lungo la direttrice della via Appia e lungo due linee di ferrovia urbana, tra il centro e il Grande Raccordo Anulare.

Si propone la realizzazione di due nuove stazioni, Selinunte (Fig. 2) e Statuario (Figg. 3-4), già in previsione nei programmi di sviluppo di RFI, e la trasformazione di quella già esistente di Torricola-GRA (Figg. 5-6). Tre situazioni molto diverse, occasione per ripensare la città: la prima apre a riflessioni di natura prevalentemente urbana, trattandosi di un ambito in stretta relazione con un tessuto edilizio consolidato; la seconda pone il tema della riconnessione fra parti di città slabbrate, separate dalle infrastrutture antiche e moderne; la terza solleva le questioni del rapporto con la campagna romana e con il riuso di edifici abbandonati.

2 Molti dei progetti sviluppati hanno colto questi aspetti legati alle identità del territorio proponendo, a integrazione del nodo di mobilità, funzioni urbane attrattive a scala sovralocale, come ad esempio, soluzioni legate all’accoglienza e al rapporto con la storia del territorio agricolo; al paesaggio, inteso in termini produttivi, come vivaio/mercato; alle attività sportive (piscine, centri sportivi, percorsi all’aperto, ecc.) da inglobare nelle reti ambientali territoriali e da usare come elementi di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici.

Riferimenti bibliografici

Amar, G. (2016), Homo mobilis: une civilisation du mouvement, FYP éditions, Limoges.

Amendola, G. (2005), La città postmoderna: magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma.

Amin, A. e Thrift, N. (2005), Città: ripensare la dimensione urbana, Il mulino, Bologna.

Branzi, A. (2006), Modernità debole e diffusa, Skira, Milano.

Burdett, R. (2015), “Infrastrutture, spazio pubblico ed edilizia di alta qualità nei processi di rigenerazione urbana a Londra”, Techne, 10, pp. 19-23.

de Solà-Morales, I. (1995a) “Terrain vague”, in Davidson, C. (a cura di), Anyplace, MIT Press, Cambridge (MA).

de Solà-Morales, M. (1995b), “Territori privi di modello”, in Neri, R. (a cura di), Il centro altrove: periferie e nuove centralità nelle aree metropolitane, Electa, Milano.

Harvey, D. (1989), The condition of postmodernity. An enquiry into the origins of cultural change, Blackwell Publishing, Oxford.

Koolhaas, R. (1978), Delirious New York: a retroactive manifesto for Manhattan, Oxford University Press, New York.

La Pietra, U. (2023), Viviamo affollate solitudini, Politi Seganfreddo Edizioni, Milano.

Roger, A. (1999), “Vita e morte dei paesaggi”, Lotus, 101, pp. 83-90.

Secchi, B. (1993), “L’urbanistica degli spazi aperti”, Casabella, 597-598, pp. 5-8.

Waldheim, C. (2006), “A reference manifesto”, in Waldheim, C. (a cura di), The landscape urbanism reader, Princeton Architectural Press, New York.