Premessa
Luigi Mazza appartiene ad una generazione (nata tra la metà degli anni venti e l’inizio degli anni Quaranta del Novecento) di studiosi italiani[1] che ha provato ad innovare con originalità il discorso e la pratica urbanista nel nostro paese (in qualche misura codificato attorno all’insegnamento di Piccinato e di Astengo)[2]. Una generazione che ha manifestato, a differenza della successiva, un forte radicamento nella storia del nostro paese, nel suo divenire socio-economico e alla sua storia politica, senza per questo negarsi ad un confronto internazionale (si pensi in particolare allo stesso Mazza). Con queste esperienze al tempo stesso ben radicate, ma anche spiccatamente individuali (e in qualche misura disinteressate a un esplicito confronto reciproco), dovremmo forse confrontarci più incisivamente, pur nel quadro di un contesto socio-politico radicalmente mutato e con riferimento ad esperienze di pensiero successive[3]
Della riflessione di Luigi Mazza -di cui non sono stato allievo, ma con cui ho potuto, grazie a diverse occasioni di dialogo, apprendere negli anni della mia formazione- mi hanno sempre colpito due tratti. Il primo è l’interesse a confrontarsi con alcuni classici della disciplina (tra i quali Cerdà, Howard, Geddes, Abercrombie, Astengo, Chapin), nella convinzione di quanto sia rilevante la costruzione di un sapere più rigoroso, certo aperto alle contaminazioni disciplinari e molto attento alla lettura dei fenomeni emergenti, ma anche dotato di una storia interna con un minimo di cumulatività. Il secondo è lo sforzo di ripensare in forme assai originali l’azione urbanistica, a partire da una riflessione sul proprio fare, sulla propria pratica professionale maturata in una serie significativa di esperienze. Lungo questa seconda direzione mi sembrano centrali i contributi prodotti a cavallo del secolo, nell’arco di un quindicennio, che lo portano ad evidenziare specificità e parziale autonomia di diverse forme d’azione urbanistica (e a partire da queste ad ipotizzare un originale disegno di “riforma urbanistica”). Questi costituiscono un lascito importante su cui non possiamo non continuare ad interrogarci[4].
Prove di riforma urbanistica: scomporre regolazione, progetti e strategie
Il contributo fondamentale di questo insieme riflessioni risiede nella distinzione tra diverse forme di azione urbanistica. Per Mazza in particolare è non solo utile, ma sempre più necessario distinguere tra:
- una azione “regolativa” non negoziale che dovrà guidare le trasformazioni ordinarie che generano modificazioni marginali del tessuto già urbanizzato;
- una azione per “progetti” legata alla definizione delle grandi trasformazioni nel tessuto consolidato (ed eventualmente nel territorio in espansione), che comporta l’assegnazione di diritti volumetrici e che deve essere sottoposta a negoziazione;
- una azione di tipo “strategico” che definisce degli indirizzi a quelle procedure di negoziazione (che possano essere modificate nel tempo muovendo dai progetti e da ciò che emerge nei processi di concertazione).
Mazza osserva come queste tre differenti azioni possono già distinguersi nel tradizionale piano urbanistico, che tuttavia tutte le comprende e incastra.
Le prime organizzano quell’insieme di norme verbo-visive che regolano l’intervento in forme dirette sul tessuto già urbanizzato (sia esso il tessuto antico o quello consolidato nelle zone della grande espansione) e sulle zone di completamento.
Il diverso procedere per progetti è adombrato nelle aree sottoposte a piani attuativi, siano essi piani di recupero nelle zone più modificabili del tessuto consolidato o quello dei piani attuativi di promozione pubblica e privata nelle aree in espansione. La procedura del piano attuativo apre infatti dei gradi di libertà e dei margini di trattativa, ma come osserva Mazza rimane vincolata a principi di conformità ad alcuni parametri (volumetrici, d’uso, talvolta morfologici e tipologici) fissati una volta per tutte (spesso in tempi assai lontani) dal piano urbanistico generale ed onnicomprensivo.
Infine la dimensione strategica si manifesta nel piano tradizionale nella relazione generale e nella sua capacità di mettere in evidenza l’auspicabile convergenza tra diverse e autonome politiche settoriali e esplicita un modello di ordinamento spaziale (che perlomeno leghi scelte di espansione dell’urbanizzato, scelte di conservazione di ambiti agro-naturali, scelte relative alle infrastrutture della mobilità e quelle insediative relative al posizionamento e dimensionamento delle aree di espansione e/o della localizzazione di alcune attività) che non può totalmente essere incluso e compreso in norme e disegni di azzonamento e nelle scelte di dimensionamento delle aree destinate ad attrezzature collettive e di quelle destinate ad edilizia economica e popolare.
Si potrebbe osservare (sulla base di non poche ricerche di storia urbana) come la parte regolativa, nel bene e nel male, si è quasi sempre depositata nella materialità dello spazio urbano e in parte anche negli usi di differenti edifici e zone[5]. Viceversa, le aree sottoposte a piani attuativi sono state spesso realizzate “in variante” rispetto ai parametri definiti nel piano generale, non di rado procedendo con negoziazioni improprie (non trasparenti e non regolate) e con procedure abbastanza lunghe e faticose. Il procedere “in variante”, come ben osserva Mazza, cresce nell’ultimo ventennio del Novecento nel momento in cui si passa da un orizzonte di crescita urbana relativamente prevedibile (nelle sue dinamiche socio-demografiche) e/o orientabile (nelle sue forme spaziali) attraverso il disegno e la realizzazione di alcune infrastrutture pubbliche, ad una situazione di crescente incertezza. Una incertezza dovuta, come osserva Mazza, sia alle sempre più frequenti ma imprevedibili operazioni di dismissione e di ristrutturazione urbanistica nella città consolidata, rispetto a più prevedibili espansioni, sia alle condizioni di maggiore incertezza nel mercato urbano, per la presenza di nuovi attori e per una domanda sempre più mutevole nel tempo e segmentata e differenziata, sia, infine, al tramonto di una amministrazione pubblica forte, capace di dare un orientamento forte delle trasformazioni in atto con consistenti investimenti pubblici, e all’emergere di uno stile di governo consensuale (che sembra a Mazza meglio capace di confrontarsi con una società più pluralista). Nello stesso tempo, in questo nuovo contesto sembra difficile dare un carattere perentorio a qualsiasi indirizzo e disegno strategico, che l’urbanista deve forse suggerire, ma che per attuarsi richiede certamente la costituzione di una solida coalizione a suo sostegno.
Di fronte a tutto ciò, pare a Mazza sempre più necessario decomporre il vecchio scrigno unitario del piano urbanistico e riconoscere una parziale autonomia di ciascuna funzione di piano. In qualche strumento che riprenderà i tratti del “piano tradizionale” rimarrà una funzione regolativa/ordinativa, strettamente legata ad una azione marginale e conservativa della città esistente nelle diverse zone della città. Una componente dell’agire urbanistico destinata ad una certa permanenza e stabilità nel tempo e sottratta alle incertezze di continue contrattazioni. La funzione strategica-programmatica si espliciterà in un documento distinto che delinea regole procedurali che dovranno seguire i progetti di trasformazione e degli indirizzi e un disegno di futuro (un modello di organizzazione spaziale) che potrà orientare i progetti di trasformazione ma che non dovrà farsi legge. Indirizzi e disegni strategici rimangono cioè non solo ampiamente interpretabili da tutti i soggetti pubblici e privati, ma possono anche essere contraddetti a fronte di argomentazioni forti e convincenti in un processo di governo dialogico ed interattivo. Infine, i progetti di trasformazione potranno (e in qualche misura dovranno) essere orientati e valutati in base ai suddetti indirizzi e disegni strategici: si tratterà comunque sempre di una valutazione di congruenza e non di rigida e formale conformità. Non solo, come si è detto i progetti pubblici e privati potranno discostarsi da essi e al limite negarli proponendo sviluppi differenti, qualora vengano valutati positivamente. In questo caso si potrà e dovrà aprire una relazione circolare tra elaborazione di strategie e di progetti, capace di garantire un processo aperto di innovazione.
Con l’insieme di queste indicazioni Mazza fa i conti con la nuova centralità dei “progetti urbani” nelle concrete trasformazioni urbane della città europea a partire dagli anni Ottanta, ma prende le distanze dall’idea che i progetti debbano totalmente sostituirsi al piano e procedere fuori da qualche indirizzo strategico. Nello stesso tempo Mazza prende implicitamente la distanza anche dal tentativo di inserire i progetti urbani all’interno di una “nuova forma di piano” che vuole configurarsi come un più complesso “progetto di città” proposto in quegli anni in Italia principalmente dallo studio Gregotti e da Bernardo Secchi (a partire da spunti presenti nelle seppur diverse riflessioni di Quaroni, De Carlo, e Samonà). Egli piuttosto delinea una traccia per una possibile “riforma” della prassi urbanistica che per meglio svilupparsi dovrebbe in qualche modo modificare anche il quadro normativo. In questo senso tali riflessioni si confrontano seppure sempre in forma implicita con la proposta di “riforma urbanistica” promossa da Giuseppe Campos Venuti e fatta propria dall’INU, una proposta che muovendo da preoccupazioni simili si sviluppa tuttavia in direzione parzialmente differente. Campos Venuti e l’INU propongono una distinzione tra un piano strutturale e un piano operativo (che nasce da una rilettura di importanti esperienze classiche dell’urbanistica moderna). Il piano strutturale non conformante gli usi del suolo di questa proposta può in effetti presentare qualche analogia sia con il documento strategico ipotizzato da Mazza ma anche con il piano ordinativo-regolativo (per lo meno per la definizione del limite tra aree urbanizzate e urbanizzabili se non anche per qualche disegno del sistema infrastrutturale e per un legame con un possibile regolamento urbanistico della città consolidata). Il piano operativo viceversa, pur essendo immaginato come strumento di vita più breve (in alcune proposte quinquennale e legato al mandato del sindaco), ripropone una relazione lineare tra piano e progetto e un esame di conformità tra indicazioni di piano ed elaborazione dei progetti che Mazza vuole mettere in discussione.
Richiamata questa proposta originale proposta di “riforma urbanistica” e collocata sulle principali tendenze emergenti in quella stagione, possiamo chiederci come si sviluppa la riflessione di Mazza su ciascuna di queste autonome funzioni, negli scritti e nella principale esperienza di piano che lo coinvolgono in quegli anni e possiamo interrogarci sui problemi che si pongono oggi nella definizione di ciascuna di queste funzioni e in questa proposta di intreccio a partire dall’evoluzione successiva della prassi urbanistica.
Quali trasformazioni edilizie regolare nel piano?
Una iniziale netta delimitazione del campo della regolazione
Un primo punto su cui è necessario soffermarsi riguarda quali interventi edilizi devono essere oggetto di regolazione (anziché negoziazione) e che forma deve avere questa regolazione. A questo proposito l’evoluzione del pensiero di Mazza non mi pare lineare.
Inizialmente (1990) per Mazza la funzione regolatrice dovrebbe riguardare tutta quella attività edilizia che non richiede assegnazione di nuovi diritti volumetrici e dovrebbe avere una intenzione essenzialmente conservativa tutelando nei loro tratti fisici e in qualche misura d’uso i quadri urbani esistenti. Di fatto la funzione regolativa deve investire tutta l’attività che arriva fino alla ristrutturazione edilizia allora definita in modo chiaramente distinto dalla demolizione e ricostruzione[6].
Successivamente (1993a) Mazza riconosce che “una politica conservativa richiede “qualche forma di adattamento e cambiamento” e sottolinea come la regolazione debba investire tutte le trasformazioni “basate sulla consuetudine e la tradizione” e le “trasformazioni marginali che non richiedono accordi negoziali” (1994a). Credo che in questa diversa e più aperta definizione del campo della regolazione urbanistica rientrino diversi elementi. Da un lato, forse, la anticipazione di una istanza per una più ampia considerazione della ristrutturazione edilizia che facendo proprio l’invito che fu di Roberto Pane per gli interventi nei tessuti storici vincola al rispetto di sagoma e sedime, ma apre ad innovazioni nei caratteri degli edifici, nei materiali e nelle destinazioni d’uso[7]. Dall’altro, forse, una più meditata considerazione, sia di quei tessuti di completamento dove un processo di micro-trasformazione comprende non solo ampliamenti di edifici esistenti che molto spesso non hanno saturato l’indice di zona, ma anche l’edificazione ex novo di qualche lotto nel tessuto rimasto inedificato (particolarmente presenti in città medie nei contesti urbani di più recente formazione delle tante cittadine in cui Gigi Mazza ha avuto modo di lavorare negli anni precedenti), sia di alcune dinamiche diffuse pulviscolari di trasformazione d’uso all’interno della città esistente (particolarmente presenti in contesti urbani e metropolitani e in primo luogo nella Milano su cui si concentra in quegli anni l’attenzione di Mazza).
Con la perequazione/compensazione si apre la via ad una diversa interpretazione
Il ragionamento di Mazza sembra intorbidirsi con il nuovo millennio (2003 e anni seguenti), quando i due assunti principali che definiscono il campo regolativo – la non assegnazione di nuovi diritti volumetrici (perlomeno rispetto a quelli mediamente riconosciuti nelle zone in cui si opera) e la natura se non marginale di adattamento conservativo delle trasformazioni legata a consuetudine e tradizione – vengono di fatto meno.
L’elemento scardinante mi sembra l’assunzione del tema perequativo-compensativo. All’inizio del nuovo secolo, Mazza infatti propone per Milano un indice territoriale unico in tutto il territorio comunale ad eccezione delle aree agricole (non mi è chiarissimo se agricole de facto o de jure), con un intento perequativo/compensativo (2003). Si potrebbe sottolineare come in tutti i piani che propongono un indice territoriale unico si finisca così per introdurre solo una illusione perequativa/compensativa, poiché così facendo si rimuove di fatto una varietà di valori che è iscritta nello spazio (che presenta siti e localizzazioni diverse, o, se vogliamo, suoli e dotazioni infrastrutturali differenti) e si è costruita nel tempo, depositandosi in moltissimi atti transattivi, e quindi di fatto si generano nuove sperequazioni. Una consapevolezza che era ben chiara allo stesso Mazza che non casualmente pochi anni prima aveva sostenuto che persino un indice di edificabilità unico per i progetti di trasformazione non fosse una scelta perequativa (anzi), qualora venisse applicata al di fuori del comparto, proprio in ragione della specificità storico-geografica delle diverse aree (1995c). Si potrebbe, altresì, sottolineare come il tema della compensazione-perequazione finisca per riprodurre quel sovradimensionamento del piano -e una problematica inflazione immobiliare- dalla cui rimozione muove inizialmente la riflessione di Mazza “sul suolo ineguale” (1990) lungo una linea di pensiero originalissima che mi sembra alternativa a quella dell’indice unico “apparentemente” perequativo e dalla quale nasce l’idea di distinguere in forma relativamente netta un fare regolativo e un fare per progetti. L’assegnazione di nuovi diritti volumetrici non sembra l’esito di un agire urbanistico inevitabilmente distributivo e una procedura da vincolare ad una qualche forma di scambio che consenta alla comunità di recuperare una parte dei plusvalori, ma viene concessa a tutti i proprietari, seppure non sempre con la possibilità di esercitarla sul proprio lotto poiché si prevede che le volumetrie che derivano dall’applicazione dell’indice possano essere spostate anche al di fuori di un possibile comparto di attuazione).
Il punto che si vuole qui maggiormente sottolineare è tuttavia un altro. Con l’indice unico e i trasferimenti volumetrici finiscono per entrare nell’area degli interventi diretti sottoposti a regolazione trasformazioni tutt’altro che marginali, ma capaci di stravolgere radicalmente i tratti di un settore urbano, ogni qualvolta l’indice fondiario massimo risulti almeno chiaramente superiore a quello del costruito e ogni qualvolta si proceda a profonde ristrutturazioni urbanistiche. Si annebbia così la iniziale distinzione tra azione regolativa e azione per progetti (come è del tutto evidente nel divenire dell’urbanistica milanese). Della cosa evidentemente sembra in qualche misura consapevole lo stesso Mazza. Per rendere attivabili le dinamiche perequative/compensative dell’indice territoriale unico Mazza ipotizza – come tutti coloro che hanno sviluppato questa procedura – un indice fondiario minimo delle nuove costruzioni superiore a quello territoriale, costringendo così chi costruisce anche ad acquisire diritti fondiari in aree dove tale diritto non è esercitabile e che andranno così cedute gratuitamente al comune. Mazza, tuttavia, in modo assai meno usuale propone che l’indice fondiario massimo sia inferiore a quello medio del costruito delle diverse zone. Ne consegue un incentivo all’attività conservativa della ristrutturazione edilizia dell’esistente (allora anche nei casi estremi di demolizione e ricostruzione comunque in sagoma e sedime), e l’indicazione che per più ampie ristrutturazioni urbanistiche che implicano una attività di nuova edificazione sia necessario perseguire densità inferiori a quelle della città già costruita. Operazioni eventuali di densificazioni sembrerebbero così rientrare ancora nel campo del fare per progetti, per quanto nel campo della regolazione rientrerebbero così trasformazioni di profonda riorganizzazione fisica e funzionale del tessuto costruito sicuramente svincolate da consuetudini e routine di tipo conservativo.
Una deriva che tutto travolge
Si tratta tuttavia di una indicazione – quella di mantenere l’indice massimo inferiore a quello mediamente presente nella zona – “insostenibile”, non solo per la diversa (e abbiamo detto discutibilissima e criticabile) interpretazione del concetto di ristrutturazione che nel tempo matura nella legislazione italiana, ma anche e soprattutto perché così rende poco conveniente una eventuale (e talvolta auspicabile) azione di più complessa ristrutturazione urbanistica.
A Milano l’indice fondiario massimo non solo si è alzato ben sopra all’esistente, dentro un’ipotesi di consistente crescita della città per densificazione gestita e realizzata non con piani strategici e progetti urbani da valutare in forma contrattuale – come immaginava Mazza – ma in forma regolativa. Si è andati ben oltre. Grazie ad una interpretazione sempre più “estensiva” del concetto di ristrutturazione (che prevede non solo demolizione e ricostruzione fuori dalla sagoma e dal sedime ma anche rilevanti incrementi volumetrici) e grazie all’elusione del articolo 8 della 1444 DM sugli standard e limiti di densità del1968 e dell’articolo art 41 quinquies della legge urbanistica, si è arrivati a farlo senza un piano attuativo tradizionale e come ristrutturazione edilizia, ovvero con carenza di standard e con oneri ribassati.
Non solo, in tutta Italia la continua estensione del concetto di ristrutturazione edilizia di cui si è detto e i notevoli aumenti volumetrici concessi da norme nazionali e regionali in deroga ad ogni previsione di piano (piano casa nella sua formulazione nazionale e in alcune sempre più estensive riproposizioni regionali; norme regionali per la rigenerazione urbana diffusa, norme di incentivazione per l’incremento delle prestazioni ecologiche), e la proliferazione di norme locali che, ad esempio, escludono dal conteggio della superficie lorda di pavimento) dubbie dotazioni comuni che si vorrebbero incentivare (condominiali, ma anche servizi convenzionati di effettivo uso pubblico), o anche il moltiplicarsi di seppur lodevoli quote di edilizia sovvenzionata, o, peggio, convenzionata, tutto questo ha fatto nel tempo ricadere nel campo dei titoli abilitativi diretti operazioni di densificazione che hanno impatti significativi sul tessuto e sulla vita della città consolidata e che si legano a notevoli incrementi di valore senza reali ritorni pubblici.
Non penso che Mazza approverebbe queste due derive, che negano non solo la sua ipotesi di riforma urbanistica, ma anche i principi ideali di un impegno di una vita – accademico e professionale – come urbanista riformista.
Il sottovalutato potere trasformativo delle micro-trasformazioni
Credo che non solo in Mazza ma più in generale in gran parte della cultura urbanistica ci sia piena consapevolezza di quanto una folla oscura di micro-trasformazioni del tessuto consolidato -che non comportino necessariamente quelle pesantissime modifiche volumetriche di cui si è appena detto, finiscano comunque per essere spesso alla base di radicali metamorfosi urbane, che generano cambiamenti radicali nel paesaggio urbano, potenti fenomeni di inclusione ed esclusione (di soggetti ed attività) e più in generale modifiche significative della abitabilità di intere parti della città, oggi sempre più decisive nel trasformarsi dei territori urbanizzati e nel promuoverne una riconversione ecologica. Eppure, molti studi sul cambiamento fisico e paesaggistico dei quartieri, di processi di ghettizzazione o di gentrificazione, o di più moderato declassamento o riqualificazione degli stessi evidenziano la proprio la rilevanza di tali “micro-trasformazioni”.
E’ indubbio che queste attività di trasformazione edilizia, di trasformazione degli usi di interi edifici o di parti di essi, ma anche, estendendo il nostro sguardo di reinterpretazione di spazi “terzi” e pubblici e di contrattualizzazione degli affitti, di senso e funzione di intere parti della città, non possa essere gestita attraverso una valutazione contrattuale di numerosissimi progetti, ma è altrettanto sicuro che, differentemente da ciò che immaginava Mazza, non possano riguardare solo trasformazioni marginali e che rientrano nel campo della routine e della consuetudine.
Che fare allora?
Certamente non buttare via la sottolineata distinzione di Mazza tra un fare urbanistica attraverso una azione regolativa che deve depositarsi in un piano e che tende ad avere una certa stabilità nel tempo e un fare urbanistica per progetti che si definiscono in forma contrattuale e che deve confrontarsi con qualche forma di indirizzo strategico. Nello stesso tempo bisogna prendere atto che l’azione regolativa non può essere confinata alle sole trasformazioni di tipo conservativo, non solo perché questa ipotesi è stata contraddetta nella prassi urbanistica, ma soprattutto perché con essa siamo chiamati a gestire dinamiche importanti di microtrasformazione urbana. Forse ha più senso, per rileggere questa distinzione, riprendere la coppia trasformazioni decentrate-diffuse/concentrate-unitarie, recuperando in qualche misura altresì la distinzione tra trasformazioni ordinarie/straordinarie. La regolazione è chiamata a gestire anche prepotenti processi di modificazione ogni qualvolta essi si esprimano con innumerevoli e ordinarie azioni.
Parimenti – anche sulla base delle attuali derive – è decisivo immaginare tre modalità di trasformazione. Per titoli abilitativi diretti, per piani attuativi/permessi di costruire convenzionati conformi ad alcune indicazioni di piano e infine per progetti (liberamente proponibili e valutabili). La trasformazione regolamentata in modo stabile dal piano e governata con titoli abilitativi diretti a parere di chi scrive non può comportare incrementi volumetrici e di ingombro (altezza massima e occupazione del suolo, comprensivi di ogni superficie) rispetto a quelli consolidati nei diversi tessuti in cui opera e non può comportare qualsivoglia modifica d’uso (rispetto agli usi precedenti di un manufatto e del contesto in cui è inserito) a meno di procedere con una pianificazione attuativa/permesso di costruire convenzionato o come vedremo nelle operazione per complessi all’elaborazione di progetti da valutare.
Questo implica una critica decisa verso la miriade di provvedimenti regionali, nazionali e degli stessi piani regolativi locali che danno diffusamente rilevanti premi volumetrici incontrollati negli effetti urbanistici per incentivare efficientamenti energetici o altro e verso l’interpretazione iper-estensiva del concetto di ristrutturazione e l’elusione della pratica attuativa che è diventata prassi nel comune di Milano e in alcuni altri contesti locali. Trasformazioni più intense che comportino radicali trasformazioni d’uso e incrementi volumetrici (rispetto a quelli tipici di un settore urbano) devono essere gestiti con quella tradizionale forma di limitata concertazione e discrezionalità che è data dal piano attuativo/permesso di costruire, conforme a norme più generali che definiscono dei limiti delle eventuali densificazioni, del mix di funzioni ammissibili e il recupero di quelle dotazioni collettive che questo tipo di operazioni devono definire (ivi incluse quote di residenza sociale). Questa forma di azione intermedia, che sembra scomparire nella riflessione di Mazza, non è eliminabile se si vuole in qualche modo indirizzare e gestire l’insieme delle trasformazioni diffuse e il metabolismo urbano. In tutti i casi la gestione regolativa non si lega né a trasformazioni puramente marginali né a quelle legate a un fare consuetudinario e secondo tradizione (come inizialmente pensava Mazza), ma piuttosto regola un agire diffuso e pulviscolare (anziché unitario e puntuale), che per qualche verso possiamo considerare “ordinario”, purché a questa ordinarietà dell’agire si sappia riconoscere la capacità di generare talvolta profonde metamorfosi urbane. Trasformazioni più consistenti e radicali dovranno ricorrere alla pratica del progetto.
L’importanza spesso sottovalutata della dimensione regolativa del piano
Il governo di questi processi trasformativi è a mio parere quello che dovrebbe guidare la perdurante attività pianificatoria, che va intesa non tanto come una prassi burocratica – forse necessaria – ma di scarso interesse o del tutto irrilevante, ma come una attività nient’affatto marginale, chiamata a gestire importanti trasformazioni di tessuti consolidati e semi-consolidati rispetto a principi di equità sociale, di miglioramento delle prestazioni ecologiche-ambientali ed anche di abitabilità complessiva.
Questa attività non può darsi in forme de-spazializzate ed uniformi, per normative nazionali e regionali e/o in forma uniforme all’interno dei diversi insediamenti. Essa viceversa richiede un piano regolatore ripensato che ricorra ad una prassi fine di azzonamento, capace di interpretare in modo spazializzato e contestuale, obiettivi ed indirizzi più generali.
Una simile attività deve a mio parere svilupparsi in stretto dialogo con le riflessioni sulla forma della città e sulla sua articolazione in parti e tessuti elaborate nella cultura architettonico-geografica-storica. A questo proposito è lo stesso Mazza, pur così critico rispetto alle velleità tecnocratiche o individuali ed artistiche della cultura urbanistica-architettonica, ammette, con grande onestà intellettuale, la capacità di architetti-urbanisti, geografi umani, e storici, con le loro letture storico-morfologiche, di cogliere gli elementi persistenti e di struttura, la cui assenza di rispetto da parte dei piani e dei progetti redatti da “planner” ha provocato dei veri disastri (1995b). Il portato di queste letture può anche influire su qualche indirizzo del piano/progetto strategico e sicuramente può trovare spazio nella elaborazione dei singoli progetti, ma certamente deve influenzare radicalmente la parte regolativa.
Infine (e soprattutto) la regolazione delle trasformazioni ordinarie deve far proprie le attenzioni di Mazza sui fenomeni di differenziazione socio-spaziale, di inclusione ed esclusione sociale che si producono nella città, e sulle modalità tecniche con cui garantire – con lo zoning o con altri strumenti – se non pieni diritti di cittadinanza, almeno fondamentali diritti sociali (oggi spesso minacciati da forme radicali di gentrificazione e da interpretazioni discutibili delle pratiche della rigenerazione urbana).
Questa più attenta considerazione del ruolo della attività regolativa delle trasformazioni diffuse, non deve tuttavia spingere ad un ritorno al piano onnicomprensivo: le trasformazioni unitarie ed intensive di ambiti di più grandi dimensioni nel nuovo contesto politico economico e sociale non possono più rientrarvi. Per governarle – ossia per garantire uno scambio leale tra sviluppatori e città e per inserirle dentro forme e modelli di organizzazione dello spazio e del territorio che richiedono riforme e ripensamenti – è necessario sia sviluppare documenti strategici più efficaci (per meglio orientare e valutare i progetti urbani), sia non delegare la loro elaborazione alle sole logiche estimative e finanziarie degli sviluppatori e a quelle sempre più spettacolarizzate e funzionali ad una attività comunicativa finalizzata alla raccolta del consenso di una pratica dell’architettura che sembra invece oggi rispetto al passato meno interessata alla sua dimensione urbana e civile.
Schemi ordinativi costituzionali e regolazione delle opere pubbliche
L’attività regolativa del piano deve investire anche le opere pubbliche?
C’è poi da chiedersi se questa dimensione regolativa se ciò che rimane del vecchio piano debba riguardare anche elementi complessivi della struttura urbana e le trasformazioni promosse dall’amministrazione pubblica.
I piani tradizionali elaborati tra fine Ottocento e i primi quarant’anni del Novecento -come è noto- avevano alcune indicazioni in questo senso. I piani definivano sempre non solo giacitura e dimensioni dello spazio stradale e delle piazze (inteso come spazio del movimento ed anche dello stare), ma spesso davano indicazioni precise sul progetto di suolo e sottosuolo che le investiva. Spesso a questo si assomma il disegno della trama dello spazio verde che ora si sovrappone e si inserisce negli interstizi di quello stradale, ora tende a configurarsi come una rete parzialmente autonoma e sovrapposta a quella stradale e la localizzazione di alcune attrezzature collettive.
Questa prassi sparita nel secolo breve trova delle riprese a fine Novecento nel piano o in altri strumenti regolativi che sottolineano la necessità di una maggiore attenzione allo spazio aperto tra le cose, al “progetto di suolo” e degli “spazi aperti” nel costruito (sicuramente a partire dalla esperienza barcellonese degli anni Ottanta, dalla esperienze sulle strade cortile olandesi, dal ritorno ad un fertile intreccio tra progettazione paesaggistica degli spazi verdi e riflessioni sulla città).
Nello stesso tempo nella storia urbanistica -a cavallo del secolo, ma anche nell’urbanistica del secolo breve che ricorre alla distinzione tra un piano strutturale e strategico e a piani attuativi e operativi- riconosciamo in non pochi piani i tentativi -non sempre destinati al successo-. di definire un modello di organizzazione urbana, una struttura della forma urbana, una figura d’insieme dell’urbanizzato che almeno riuscisse a regolare le relazioni tra spazi aperti e spazi costruiti (con cunei, cinture, sistemi continui di spazio non urbanizzabile) e quelle tra infrastrutturazione della mobilità, urbanizzazione e localizzazione di alcune funzioni centrali o fortemente attrattive (di popolazione e/o di merci).
Qual è il pensiero di Mazza a riguardo? Non mi è facile capirlo. Nei suoi scritti troviamo solo una chiara indicazione che l’attività regolativa debba permettere la conservazione delle aree verdi esistenti (1999), anche se poi questa stessa indicazione sarà egualmente ripresa nel piano/progetto strategico per Milano, all’interno del quale si trova non solo la netta riproposizione di un limite tra aree agricole e urbanizzate ma anche quello schema a T che in qualche misura sembra suggerire la traccia per una possibile indicazione, per quanto appena abbozzata, su una nuova possibile struttura della forma urbana di Milano e della sua area metropolitana. In generale una scarsa attenzione in questi scritti (ma non certo in quelli contemporanei di rilettura dei classici della disciplina) sembra nascere dalla sua dichiarata convinzione che i modelli di organizzazione spaziale siano ormai “dati”, “fissati” dalla stagione della crescita urbana. Una convinzione che nasce forse da una sua osservazione che in questi anni si concentra su ambiti urbani compatti e maturi, più che su urbanizzazioni diramate e diffuse, dove il tema sembra essere quello di riconoscere e rafforzare segni deboli ma pur presenti di ordinamento e di strutturazione dello spazio. Una convinzione che a mio parere, tuttavia, non coglie quanto fosse allora importante anche per le città italiane più consolidate e compatte così come per le forme di urbanizzazione più recenti aperte e diramate del territorio, dei modelli di organizzazione spaziale, dei disegni della struttura della forma urbana, delle figure di riferimento per orientare una sempre più necessaria operazione di re-infrastrutturazione del paese.
L’idea invece che il piano possa e debba regolare e/o indirizzare l’intervento diffuso degli uffici tecnici sullo spazio pubblico non sembra appartenergli. Ne è un indizio il disinteresse per l’attenzione alle forti indicazioni per il disegno del suolo che sono strettamente associati al disegno di alcune “griglie” in alcuni “classici” dell’urbanistica. Delle griglie si coglie la funzione strutturale e ordinativa, ma mai la complementare attenzione alla costruzione della dimensione materiale concreta ed esperibile degli spazi collettivi, dello spazio di relazione tra i differenti edifici.
Ambivalenze del piano dei servizi: strumento regolativo e al tempo stesso strategico
La riflessione di Mazza su questi temi mi sembra più consistente nel momento in cui si confronta con il “piano dei servizi” che la legislazione lombarda propone come specifico strumento di piano (uno strumento alla cui formulazione credo abbia dato qualche contributo).
Mazza apprezza il piano dei servizi per almeno tre ragioni. In primo luogo, perché spinge a lavorare non solo sulla dotazione di servizi, ma anche sulla loro accessibilità e sulla loro fruibilità e sostenibilità. In secondo luogo perché invita a superare l’autoreferenzialità piani pubblici settoriali (della mobilità, del verde, delle attrezzature scolastiche e sportive, ecc.) o meglio di integrarli per le loro implicazioni spaziali in un unico documento che guidi l’azione pubblica (per inciso uno dei pochi punti di convergenza con l’urbanista De Lucia), infine perché consente di definire alcune necessarie “legature”, al libero agire dei progetti da lui stesso ipotizzato, diventando elemento che può e deve indirizzare il documento strategico.
Il piano dei servizi sembra tuttavia “scentrato” rispetto una ipotesi di riforma urbanistica basata sulla distinzione tra azione regolatrice, strategica e per progetti. Il piano dei servizi ha infatti al tempo stesso una funzione regolatrice e una funzione strategica. Può e deve regolare direttamente alcune scelte pubbliche e interventi pubblici, ma può e anzi deve indirizzare le negoziazioni pubblico-pubblico e pubblico-privato, chiamate a gestire le trasformazioni unitarie e più radicali. Proviamo allora a distinguere con riferimento a questi temi funzione regolatrice e strategica.
Stabilità costituzionale degli schemi ordinativi e regolazione delle azioni minute e ripetute
Anche in questo caso definire il limite tra la funzione regolatrice e la funzione strategica-progettuale non è operazione scontata. In linea tentativa direi che tre altri elementi possano e debbono rientrare in un più tradizionale e stabile strumento regolatore.
Un primo elemento dovrebbe riguardare la definizione sulla base del riconoscimento dello stato di fatto di un limite tra spazio urbanizzato e spazio non urbanizzato, tra “un interno” in cui può e deve esplicitarsi la dinamica dei progetti urbanistici trasformativi e un “esterno” in cui essa non deve essere ammessa, o perlomeno non può essere ammessa attraverso delle sole valutazioni locali. Negli scritti di Mazza c’è più di uno spunto in questa direzione, sia nella già ricordata indicazione che l’azione regolativa debba salvaguardare lo spazio verde, sia nelle considerazioni sui diversi livelli di governo del territorio. Questa sottile “linea rossa” , disegno di un “confine” tra lo spazio urbanizzato e riurbanizzabile la cui trasformazione dovrebbe essere di preminente competenza municipale; e uno spazio agricolo e forestale con insediamenti dispersi con forti valenze ecologiche e paesaggistiche ma anche fruitive e sociali, – la cui qualificazione produttiva, ecologica e paesaggistica, o anche eccezionalmente la nuova eventuale urbanizzazione (con compensazioni ecologiche) per attività che non possono inserirsi nel territorio già urbanizzato- non può che conoscere una forma di governo intercomunale e trans-scalare. L’azione in positivo dei parchi e più eccezionalmente di provincie e regioni sullo spazio agroforestale, cosi come l’esempio negativo di nuovi insediamenti commerciali, logistici, data center inevitabilmente (mal)gestiti dai singoli comuni senza alcuna relazione con il disegno di altre infrastrutture e senza reali compensazioni ecologiche forniscono, io credo, buoni argomenti a favore di questo esercizio di ordinamento strutturante (su cui aveva scommesso anche qualche pianificazione paesaggistica regionale).
Un secondo elemento che non può che depositarsi con una qualche precisione in uno strumento di lunga durata e di tipo regolativo, riguarda l’individuazione di possibili griglie ordinative, che possono non solo strutturare l’urbanizzato nella stagione dell’espansione, ma anche ricomporlo dopo la crescita. Anche in questo caso le riflessioni di Mazza danno qualche spunto in questa direzione. Si pensi alla rilettura che egli fa del piano stradale di Cerdà, o dello schema di equo attrezzamento per località del piano di Abercombie per la City di Londra nelle sue riletture dei classici dell’urbanistica. Credo che sia coerente a queta ipotesi l’invito di Mazza a distinguere nel più stabile “piano dei servizi” due tipi di “standard”: quello “inedificabile” verde e stradale che non può perdere il suo connotato di spazio aperto e di relazione; e quello “costruito” destinabile a diversi servizi, ciò può essere modificato al mutare della domanda sociale (e in qualche misura ricade nella dinamica strategie/progetti).
Come possibili griglie ordinative ripensando al passato possiamo pensare ad una tradizionale griglia stradale o una rete verde che la interseca o vi si sovrappone (in forme del tutto consolidate in alcuni contesti nazionali, ma non in Italia) o ancora al disegno di più dure infrastrutture del trasporto pubblico che dovrebbero indirizzare nella lunga durata non solo eventuali espansioni (come nel Novecento). Piuttosto la localizzazione di alcune attività fortemente attrattive e la localizzazione di più intense trasformazioni per “progetti”. In forme più innovative possiamo pensare ad una originale “trama dello spazio pubblico” che intreccia a scala urbana o di settore urbano le principali attrezzature collettive con spazi stradali e verdi dove incentivare la dimensione dello stare, della socialità e della mobilità dolce (di cui sono espressione le stesse piazze scolastiche); ma anche in qualche misura un più generale disegno della classificazione stradale inteso non tanto come strumento settoriale per regolare la mobilità automobilistica (con provvedimenti settoriali), ma come strumento di indirizzo alla progettazione del suolo pubblico e della separazione necessaria o integrazione possibile tra le diverse forme di mobilità sul sedime stradale.
Ho sempre pensato che la riflessione di Mazza sulle griglie potesse dialogare con quella di Secchi sul progetto di suolo. Quest’ultima pur mettendo al centro un insieme di spazi aperti più ampio investe in prima battura quello delle griglie di cui parla Mazza, ne esplora la possibile articolazione materiale e sotto la spinta della riflessione ecologica e paesaggistica anche le dimensioni pedologiche e botaniche, dando al tempo stesso una certa unitarietà ad uno spazio costruito inevitabilmente sempre più plurale e frammentato. Vale la pena ritornare a insistere sul fatto che il “disegno delle griglie”, ancor di più se integrato con il “progetto del suolo” è fondamentale non solo nella stagione della crescita, ma anche in quella di una re-infrastrutturazione dei territori urbanizzati che si confronti con nuovi problemi ecologici e con nuove forme di vita di associata e di mobilità, e che faccia (almeno) resistenza se non di contrasto ai più pesanti e riemergenti processi di polarizzazione sociale. Certo, questi disegni debbono saper assorbire e dare spazio a processi di innovazione sociale e forme di agire tattico e parziale. Dubito tuttavia le esperienze puntuali di innovazione sociale (che pure rinnovano in forme interessanti spazi aperti non solo interstiziali), possano affrontare il carattere integrato di non poche emergenze ambientali (relative al trattamento delle acque o alla mitigazione e adattamento al cambiamento climatico) e non tramutarsi in involontari attivatori di processi di gentrificazione.
È mia convinzione che sia quanto mai necessario anche un disegno d’insieme che deve attuarsi nel tempo lungo con una miriade di azioni minute. Questo disegno in determinate fasi può emergere anche in un piano strategico che favorisce e apprende dall’innovazione di processi auto-organizzativi o da più tradizionali sperimentazioni progettuali locali. Tuttavia la sua implementazione continua ed ordinaria può avvantaggiarsi da un suo (almeno) successivo inserimento in uno strumento regolativo capace di agire su pratiche di azione decentrate in modo stabile e routinario, perlomeno con norme di indirizzo. Di certo oggi questo disegno, che trovi implementazione nello strumento regolativo o in quello strategico, deve riuscire a confrontarsi modificandole non solo con le routine d’intervento che guidano l’azione del settori comunali dei lavori pubblici, ma anche -specialmente nelle metropoli più grandi- con i modi di operare nello spazio di molti soggetti con autonomie funzionali (gestori delle acque, aziende di trasporto, aziende sanitarie, ecc.) che fanno lo spazio materiale esperibile della città e dei territori urbanizzati.
Un ultimo elemento costituzionale e regolativo è tradizionalmente legato alla eventuale ridefinizione degli “standard” minimo di aree e/o di attrezzature pubbliche da reperire nei piani attuativi (come sottolinea esplicitamente Mazza in 1995c) e di eventuali ed auspicabili quote di edilizia convenzionata o sovvenzionata da ottenere per quelle trasformazioni diffuse che tuttavia ricorrono tuttavia al piano attuativo o al permesso di costruire convenzionato conforme al piano regolativo. Entro questa dimensione va definita la stessa questione perequativa con maggiore attenzione alla varietà spaziale dei valori consolidati storicamente.
Quali progetti, quali attori nella contrattazione?
Come è noto per Mazza i progetti devono uscire dal piano regolativo, non devono più essere chiamati ad attuarlo, hanno una forte libertà di proposta, fermo restando che debbono dialogare con le strategie, in una forma aperta e bidirezionale. Le strategie vanno infatti esplicitate per valutare i progetti (la loro assenza genera una pratica di negoziazione sregolata e opaca), ma le strategie possono essere modificate dai progetti se questi presentano buone argomentazioni (i progetti servono dunque come verifiche parziali delle strategie complessivi e come dinamica innovativa). Si ipotizza un processo circolare di apprendimento tra piano strategico e progetto (a cui detto per inciso fanno riferimento anche Secchi e Gregotti, ma dentro un procedere del progetto molto limitato per soggetti pubblici-privati e progettisti coinvolti e che poi “si chiude” definitivamente con l’approvazione del piano il quale si fa legge locale).
Quali trasformazioni nei progetti?
A questo proposito Mazza sembra ipotizzare un limite verso il basso e uno verso l’alto. Il limite verso il basso è tale da far ricadere nell’area dei progetti moltissimi interventi, ossia tutti gli interventi che “in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo vadano oltre la manutenzione ordinaria e straordinaria basata sulla consuetudine e la tradizione” (1993) o meglio vadano oltre quelle “trasformazioni marginali che non implicano negoziazioni (1994a). Il limite verso l’alto è dato dalla esclusione da questa prassi di interventi che comportino nuovo consumo di suolo, o perlomeno nuovo consumo di suolo fuori dai perimetri delle aree già urbanizzate. Questo limite è definito in modo esplicito quando viene sottolineato che la salvaguardia degli spazi aperti deve essere regolamentata per legge, ossia sottoposta ad una azione regolativa relativamente stabilizzata nel tempo (1999), escludendo di conseguenza dagli ambiti dove possono essere presentati progetti le aree agricole di Milano (2000d). Lo stesso limite emerge implicitamente quando si sottolinea che è oggi possibile e necessario “dare più flessibilità” e “negoziazione trasparente” a quelle trasformazioni intensive e radicali, poiché si realizzano dentro lo spazio già urbanizzato, laddove un’orditura infrastrutturale è già data e dove i progetti non devono assume come vincolo stringente un disegno infrastrutturale di previsione. L’ambito d’azione dei progetti sembra essere essenzialmente quello degli interventi di nuova costruzione con densificazione e/o di ristrutturazione urbanistica dentro il tessuto già urbanizzato. Interventi per i quali non si pensa di ipotizzare un indice unico (indice unitario nel comparto non all’esterno) per le loro condizioni spaziali e storico geografiche assai differenziate.
Per quanto riguarda il limite verso il basso mi sembra che l’ipotesi di Mazza non abbia retto e non possa reggere. La soglia è troppo bassa. Da una parte l’amministrazione e la politica italiana non mi sembrano in grado di gestire in forme negoziali soddisfacenti una mole di trasformazioni così ampia. Dall’altra c’è un basso continuo di trasformazione di piccola e media dimensione che non può che essere gestita con regole e indirizzi che permangono nel tempo, dando certezze ai cittadini e agli operatori. Per evitare che queste trasformazioni diventino operazioni, come è avvenuto a Milano, e stravolgano i caratteri di un tessuto con impatti poco valutati, è centrale, a mio parere, ritornare a titoli abilitativi diretti per una ristrutturazione edilizia riportata alla sola demolizione e ricostruzione in sedime e sagoma e per i soli ampiamenti e le nuove costruzioni che operano rispettando principi insediativi, profili di densità e altezza dei diversi tessuti urbani. Inoltre, occorre una pianificazione attuativa (o in alternativa un procedere per permessi di costruire convenzionati) per ogni intervento che muti profondamente i principi insediativi, i profili altimetrici e le forme d’uso connotanti un settore urbano.
Per quanto riguarda l’individuazione di quel limite verso l’alto credo che Mazza avesse invece perfettamente ragione, anche se quel limite è stato ampiamente superato nella prassi. Negli anni successivi infatti gli impatti più negativi dei progetti integrati locali e di accordi di programma riguardanti interventi pubblici ha riguardato interventi di espansione, comportanti un ingente consumo di suolo, grande e incontrollato impatto sulle infrastrutture e stravolgimenti di modelli di organizzazione spaziali pianificati o emersi in forma non pianificata nel corso del tempo. Non casualmente nel panorama delle più problematiche trasformazioni contemporanee ricadono in particolare nuovi impianti logistici e devastanti interventi infrastrutturali settorialmente definiti ricadenti a queste due casistiche. Quel tipo di trasformazioni talvolta evitabili, quasi sempre differentemente organizzabili, non è gestibile esclusivamente a livello locale (nella interazione operatore-comune) o in forma settoriale (con l’imporsi di un solo settore nella progettualità pubblica).
I soggetti coinvolti nel contratto
La negoziazione sui progetti per Mazza (una sostanziale continuità 1990-2002b) deve essere trasparente, deve evitare il dominio dei poteri forti (ma non è chiaro a chi pensi Mazza: ai partiti che avevano dominato la scena negli anni precedenti? o agli operatori -immobiliari e autonomie funzionali- che stavano diventando i dominus incontrastati dell’urbanistica?), deve riconoscere al pubblico una parte del plusvalore che si crea (un punto fermo di Mazza, che lo lega alla tradizione riformista e rende “scentrate” le critiche di Salzano e De Lucia al suo presunto totale adeguamento alle nuove logiche urbane neoliberali), ma deve anche aumentare i gradi di libertà, ridurre i tempi di decisione e riavviare il mercato urbano milanese garantendo una maggiore possibilità d’azione agli operatori immobiliari e gli sviluppatori.
Ciò detto quali soggetti che dovrebbero partecipare a questa negoziazione e alla definizione del contratto con gli operatori immobiliari? Con riferimento ai soggetti pubblici è chiaro a Mazza che non sempre può essere la sola amministrazione comunale (1996). Ci sono frequenti riflessioni sulla necessità di una valutazione di alcuni progetti da parte di diversi soggetti istituzionali, con riferimento alle loro differenti strategie. Non casualmente nei problemi di relazione tra pianificazione locale e di area vasta è il secondo punto che Mazza, a fianco di quello delle relazioni tra piano e progetto, pone al centro di una “riforma” urbanistica. Non mi sembra invece ci sia la stessa attenzione al possibile coinvolgimento di altri soggetti nella pratica contrattuale.
Di fatto si ipotizza un gioco binario tra pubblica amministrazione e operatori immobiliari, o meglio un gioco a tre con la componente tecnica del nucleo di valutazione priva di poteri decisionali, ma in grado di strutturare l’interazione lungo alcuni binari. Il riconoscimento di una società sempre più pluralistica e della necessità di forme di governo consensuali non si apre ai soggetti della società civile. Sembra inoltre che Mazza, che pure ha mostrato una certa attenzione ai nuovi tratti delle città e metropoli occidentali (si pensi solo alla XVII Triennale del 1988 codiretta dallo stesso Mazza), non immagini degli antidoti alle crescenti asimmetrie di potere tra operator immobiliari e pubbliche amministrazioni che cominciavano allora ad intravedersi (almeno) a Milano e in Lombardia, ma che erano già plateali a livello internazionale. Una apertura ad altri attori a forme più estese di partecipazione a bilanciamento degli operatori immobiliari, sarebbe stato quanto mai necessaria nel momento in cui viene meno il sistema dei partititi e la loro novecentesca capacità di essere portatori di progettualità e visioni forti complessive capaci di mediare tra diversi soggetti e di interessi.
L’esito è un contratto con uno scambio sempre più diseguale (nient’affatto leale, come avrebbe voluto Fausto Curti[8]) dentro un governo delle trasformazioni sempre più debole (e che invece Mazza avrebbe voluto forte per quanto non autoritativo). È una deriva che Mazza ovviamente non approverebbe, ma di cui non colse i primi segni già allora evidenti e verso i quali di conseguenza non pose alcun freno. Non c’è spazio nella sua riflessione per l’emergere di altre istanze attraverso qualche forma di dibattito pubblico (che proprio in Francia negli stessi anni veniva formulato) e neppure per la rivendicazione di una possibile intenzionalità politico-culturale del sapere tecnico dell’urbanistica (secondo la tradizionale impostazione riformista europea o quella di una urbanistica che gioca una autonoma azione per promuovere equità sociale alla Norman Krumholz o nuove emergenti sensibilità ecologiche)[9].
Documenti strategici e progetti urbani
Pianificazione strategica vs strategie spaziali
I progetti debbano confrontarsi con un documento strategico. Sulla natura di questo documento Mazza fa una considerazione preliminare su cui mi sembra utile tornare. Egli distingue un approccio urbano alla pianificazione strategica che potrebbe individuare delle complessive “possibili” strategie urbane e un approccio urbanistico alla pianificazione strategica che deve definire delle strategie spaziali di cui è assai più difficile fare a meno (1994b, 1996, 2000c).
A riguardo del primo tipo di pianificazione strategica, si è sperimentato nei tavoli la costruzione di un piano strategico per Torino, maturando, mi sembra, un certo scetticismo su questo approccio che finisce per trattare la città come una impresa, minimizzando i conflitti che caratterizzano il governo urbano. Questa pianificazione strategica implica una improbabile stabile coalizione di interessi e di visioni di governo che ha spesso ha carattere conservativo. In questa pianificazione strategica, del resto, si dà più valore più alla costruzione di una coalizione di governo che alla costruzione di visioni generative e alla elaborazione di politiche sostantive efficaci. Vale la pena richiamare questa forma di pianificazione, che oggi ahimè costituisce un genere letterario tanto fiorente, quanto inutile (e dove il sapere tecnico dell’urbanistica si fa generico e irrilevante).
Sul secondo tipo di pianificazione strategica Mazza ragiona con maggiore intensità e profondità in occasione della redazione del documento strategico di Milano, mettendo più in generale questo tipo di documento al centro della sua ipotesi di riforma urbanistica. Come si rapporta con le altre attività urbanistiche? Il piano strategico spaziale (che talvolta viene nominato come “progetto strategico”), sottolinea Mazza, ha una interazione unidirezionale con il piano ordinativo-regolativo. Non costituisce generalmente una variante dello stesso perché in questo modo perderebbe la sua forza di sollecitazione e di innovazione, variandola di norma solo con l’eventuale approvazione dei singoli progetti di trasformazione. Ciò non toglie che per qualche specifico aspetto particolarmente maturo e condiviso che impatta anche sulle trasformazioni ordinarie, possa indurre una modifica puntuale del piano regolatore. Esso ha invece una interazione biunivoca con i singoli progetti. Contiene regole procedurali che i progetti devono seguire, ma anche visioni strategie e indirizzi che i progetti non solo possono far propri con reinterpretazioni più o meno originali, ma anche possono mettere in discussione se producono argomentazioni convincenti. Queste eventuali scostamenti e nuove formulazioni maturati nei singoli progetti possono portare anche ad una riscrittura del documento in processo circolare ed aperto.
Insomma la definizione di strategie, visioni, missioni (svincolate dal peso di farsi legge), possono e debbono indirizzare orientare i singoli progetti di trasformazioni, senza tuttavia ingabbiare i progetti nella procedura di conformità. Rimane così aperta la possibilità che lo sviluppo concreto di un progetto in un contesto e in un particolare momento generi innovazioni radicali o anche solo meglio si adatti a condizioni specifiche del contesto fisico in cui si interviene e a condizioni generali che caratterizzano il momento in cui è elaborato.
Sui contenuti del piano/progetto strategico
Date queste relazioni quali sono per Mazza i contenuti del piano/progetto strategico spaziale? In termini generali mi sembra che si ipotizzi un mix di principi generali da perseguire, di regole procedurali e di strategie spaziali. I principi come osserva Mazza devono esser generali, sottratti alla trattativa, che non si traducano in norme aventi valore di legge. Vanno sempre interpretati nel contesto, anche se – aggiungo io – c’è sempre il rischio che siano rituali richiami traditi dalla pratica reale. Le necessarie regole procedurali del piano/progetto strategico riguardano come osserva Mazza non solo le modalità di presentazione dei progetti e di funzionamento del gruppo di valutazione (che si esprime con parere non vincolante, ma che istruisce il dibattito politico di cui il consiglio comunale è sovrano), ma anche la definizione del campo dei progetti (i limiti e i massimi) ed eventualmente alcuni plafond della trattativa (non tanto agli standard che vista la normativa nazionale fa ricadere nel piano delle regole, quanto di eventuali quote di edilizia convenzionata o sovvenzionata ecc.). Nel documento strategico di Milano che Mazza redige in dialogo con gli amministratori – l’assessore di centro-destra è Lupi – e la struttura tecnica comunale), ritroviamo in effetti alcune (9 punti) condivisibili ma finalità un poco generiche, gli ambiti di esclusione (le aree agricole), degli indici differenziati (per le sole aree a standard con vincolo decaduto), delle quantificazioni delle aree da cedere a standard (a mio parere ragionevoli per le aree con vincolo decaduto, assai basse per le diverse funzioni nelle altre aree di intervento), delle generiche indicazioni su quote di edilizia economica e sociale (più in termini di premialità volumetriche che di quote rispetto al volume totale).
Per strategie spaziali non mi è facile comprendere ciò che Mazza intendesse. Sono le griglie che rilegge nell’urbanistica dei classici e che personalmente ho immaginato possano almeno in parte cadere in alternativa nello strumento regolativo? Sono degli schemi di assetto spaziale dei modelli di organizzazione spaziale che ritroviamo nella classica pianificazione struttural-strategica? O sono anche delle indicazioni trans-scalari che possono riguardare schemi di assetto, ma anche suggerimenti per quel “progetto di suolo” su cui si sofferma Secchi negli stessi anni? Per comprenderlo non possiamo che guardare alle strategie spaziali proposte in due documenti per Milano. Nella più strategia autoriale per i nove parchi (dove il contributo di Mazza è in dialogo con alcuni architetti: Pierluigi Nicolin e Raffaello Cecchi) e nel più politico documento di piano che abbiamo precedentemente segnalato.
Di fatto ritroviamo tre schemi spaziali. Il primo è quello che pone una area parco di dimensioni rilevanti per ogni area di ristrutturazione urbanistica. In forme più evidenti e con esplorazioni progettuali che si muovono a scale differenti nello studio per i nove parchi per Milano (1995), in forme meno evidenti e senza esplorazioni progettuali nel piano (2000d e 2000 piano). Il secondo è la cosiddetta T rovesciata (2000d 2e 2000 piano), una ricaduta comunale di uno schema infrastrutturale sovracomunale che segnala le tre direttrici entro le quali recepire in via preferenziale i progetti urbani o perlomeno quelli all’interno delle quali collocare funzioni direzionali e fortemente attrattive, in ragione della loro connessione con investimenti consolidati sulle infrastrutture della mobilità. Una indicazione di assetto territoriale che tuttavia rimane nella sua definizione poco meno di un logo comunicativo (e che con grande disappunto di Mazza non sarà realmente assunto nella valutazione dei progetti). Infine in un secondo momento come terza strategia spaziale, in interazione con il piano dei servizi, emerge il classico schema dei nuclei di identità locale a cui dovrebbe essere garantita una equa distribuzione di servizi, non solo con tradizionali investimenti pubblici, ma anche attraverso aree e attrezzature ottenute nella contrattazione relativa ai singoli progetti (che conoscerebbero così una legatura con una strategia complessiva).
Si tratta per alcuni versi di strategie spaziali consolidate che reinterpretano alcune esperienze “classiche” dell’urbanistica: quella dei Nil le indicazioni del piano per Londra di Abercrombie, quella della T rovesciata lo schema formulato di Astengo a Genova e il sistema dei nuovi parchi, che riprende il disegno di Olmsted. In questo ultimo schema si noti tuttavia l’assenza di un vero riferimento a Olmsted il quale non fa parchi così “introversi” e legati ad un progetto di valorizzazione immobiliare, ma costruisce sistemi del verde appoggiati alla geografia fisica e infrastrutturale della città in una logica più tradizionalmente riformista. In ogni caso al di là dalla coerenza effettiva con questi riferimenti c’è da chiedersi, perché dopo aver alleggerito queste indicazioni dai vincoli di legge, rimanere ad indicazioni così scarne ed essenziali? In quelle esperienze, così come in altri piani strategici urbanistici un riferimento a modelli di assetto territoriale si specifica a scale differenti e si arricchiscono di esplorazioni progettuali. Perché non avvicinarsi ad aree di ristrutturazioni urbanistiche ampiamente note con alcune indicazioni ed esplorazioni non vincolanti?
Le possibili ragioni di una “astinenza”
Mazza sottolinea più volte come il ruolo del contributo della cultura tecnica (e anche di una intuizione di autore) può crescere attraverso questo sganciamento dall’azione ordinativa-regolativa e le meno vincolanti indicazioni strategiche; ma poi sembra fare un atto di astinenza. Il classico legame tra strutture di mobilità e localizzazione di alcune attività ampiamente esplorato dalla cultura tecnica e poco meno che dichiarato con un segno di struttura che assomiglia più a un logo che altro, il riferimento al verde rimane diagrammatico e non si radica nella storia geografia della città, privandosi di quelle dimensioni sociali che pure ha avuto per tutto il Novecento; lo stesso schema di Nil che grazie al piano dei servizi si arricchisce di maggiori indirizzi non è più di tanto discusso e rimane un poco scolastico non facendo i conti con un quadro così diverso per popolazioni e forme di territorialità.
Non sono in grado di dire quale sia in Mazza la ragione di questa prudenza che sfiora l’astinenza. Una spiegazione che mi è stata fornita – da chi a lui è stato più vicino – è che non si potesse e dovesse fare di più in assenza di un consenso solido e certo da parte degli attori politici e sociali al governo della città, quasi che in questa situazione la cultura tecnica debba tacere, anziché provare a stimolare il confronto politico e sociale su questi temi muovendo da una politicità implicita di ogni sapere (e di una originale interpretazione del proprio sapere)? D’altra parte, è proprio la dimensione strategica, liberandosi dal peso di farsi legge, evita che un disegno generoso multidimensionale di indirizzo diventi espressione di prepotenza o alimenti una illusione tecnocratica. Semplicemente l’ipotesi di Mazza sembra compatibile con il fatto che la cultura urbanistica in un processo aperto possa giocare un ruolo autonomo di stimolo, di indirizzo, ed anche di contestazione, riuscendo talvolta a influire su biforcazioni evolutive della città, a creare discontinuità. Certo per farlo meglio deve sia rafforzare il suo contenuto tecnico, sia la sua capacità di rapportarsi con alcuni attori sociali piuttosto che con altri. Deve stare nel processo politico del governo del territorio, con una sua responsabile autonomia. Negli ultimi anni certo non lo ha fatto. Nel nome della fattibilità è diventato un sapere “facilitatore” di una politica sempre più orientata alla solo ricerca del consenso nel breve periodo e indipendentemente funzionale agli attori più forti che fanno in modo sempre più indisturbato la città. Credo che Mazza non condividerebbe alcune delle considerazioni che ho qui formulato, ma sono sicuro che si opporrebbe a questa deriva del nostro sapere.
In questa astinenza c’è però forse dell’altro. Nella esperienza di ricerca di Mazza c’è stata sicuramente una forte attenzione rispetto a possibili schemi ordinatori generali che i piani hanno saputo imprimere sul territorio, ma ci sono due aspetti che a mio parere limitano l’approfondimento di vere e proprie strategie spaziali. Il primo è una minor attitudine o interesse a cogliere i segni di struttura territoriale che possono emergere attraverso una lettura storica geografica. Mazza nella sua pratica professionale di urbanista legge con finezza gli schemi ordinatori che un potere forte ha saputo dare a Torino ed Alessandria, ma non coglie, a mio parere in modo sorprendente, degli assetti spaziali emergenti in processi più decentrati meno pianificati. Si vedano in questo senso le sorprendenti osservazioni su tre città medie in cui ha operato -Lecco, Pinerolo e Desio- che gli paiono del tutto prive di un modello di organizzazione spaziale[10]. Il secondo è la riduzione di ogni osservazione sulla forma sulla organizzazione materiale della città a una “poetica” individuale. Tuttavia lo spazio aperto lo spazio di relazione, della mobilità e dello stare, verde o pavimentato che costituisce la trama del vivere insieme e che lega i diversi episodi edilizi, che almeno in parte coincide con lo spazio materiale delle griglie su cui ragiona Mazza, non è mai stato il prodotto di poetiche individuali, ma da una integrazione e combinazione tra forme di agire collettivo e azione delle amministrazioni, in passato radicate su consuetudine e saperi taciti, oggi su una difficile integrazione tra una pluralità di saperi tecnici e una combinazione di agire amministrativo e di un sociale fuori dalle istituzioni. Siamo sicuri che di questa dimensione del fare città e territorio non ci debba essere una qualche ricaduta da una parte nel sistema delle regole (per le azioni che possono farsi più consolidate e routinarie), dall’altro in simili documenti strategici (per l’agire più sperimentale e innovativo)?
Del resto per ambiti più limitati riferiti alle aree di ristrutturazione urbanistica più note su cui è probabile ed auspicabile che vengono presentati dei progetti, perché non sviluppare alcune esplorazioni progettuali che muovano non solo dall’area in questione e in prima battuta a partire dagli interessi degli investitori, ma che muovono anche dalla loro collocazione in quadri spaziali più ampi, quartieri più o meno carenti di attrezzature, reti verdi che li attraversano che possano indirizzare in un processo aperto l’elaborazione di progetti? Insomma nel mio ragionare, la distinzione tra regole, progetti e strategie di Mazza, consentirebbe di assorbire -in misura asciutta e limitata e più generosa ed esplorativa nel piano strategico la nuova centralità che il progetto di suolo e del paesaggio (si pensi ai contributi di Secchi e Desvigne o alla esperienza della Ruhr a cavallo del secolo) deve avere nel fare urbanistica; sia l’importanza di esplorazioni progettuali su alcune aree di trasformazioni: non tutte di quelle immaginabili e di quelle su cui verranno formulati progetti, ma forse le più rilevanti, una volta che essi siano liberati dal peso di dover diventare rigida norma? Non abbiamo imparato che le procedure valutative dei progetti arrivano sempre troppo tardi, quando è assai difficile rimettere in discussione ipotesi trasformative? Non è in questo modo che possiamo superare la dannosa frattura realizzatasi tra urban design e urban planning, senza ricadere nell’illusione dirigista di alcune delle migliori prove del town planning del secolo breve?
Derive da combattere
Dopo le riflessioni e la prassi sperimentale di Mazza (e in forme diversi di alcuni degli altri urbanisti inizialmente richiamati) mi sembra che così come per l’aspetto regolativo anche per l’azione via strategie e progetti siano emerse delle derive che vanno evidenziate.
Molti documenti strategici -ad esempio in Emilia Romagna, che dopo aver perseguito l’ipotesi di riforma urbanistica di Campos Venuti ha poi fatto propria quella di Mazza- sembrano da una parte un rosario di buoni e decontestualizzati propositi (sostenibilità ambientali, inclusività sociale, competitività) di cui non si dice più di tanto come possano tradursi in fatti e di cui non di esplicitano mai possibili conflittualità e dall’altro un insieme di indirizzi spaziali inefficaci e inutili perché troppo generici e troppo de-spazializzati: una freccia che indica una connessione auspicabile o necessaria, un ideogramma che allude al ruolo di una area trasformabile (“polo della….”)
Nello stesso tempo i progetti vengono elaborati in modo sempre più autoreferenziale. I progetti pubblici di infrastrutture in totale autonomia e forma settoriale. L’intreccio classico tra scelte localizzative e politiche dei trasporti ancora frequentemente ignorati. Gli effetti sul sistema insediativo della riorganizzazione secondo principi di razionalità settoriale di alcuni servizi quasi sempre ignorati, così come la possibilità di pensare molte infrastrutture ed attrezzature come multifunzionali ed elementi integrati al tessuto sociale e materiale della città. I progetti degli operatori immobiliari fanno il più delle volte del progetto architettonico-urbano non certo una occasione di civile interrogazione sulle possibilità trasformative dei luoghi e neppure una supposta espressione delle poetiche dei progettisti, ma un potente fatto comunicativo, una immagine seduttiva nel marketing economico e politico.
In questo procedere la stessa cultura tecnica urbanistica opacizzando o cancellando del tutto la sua storica implicita progettualità riformista, cessa di essere una reale controparte degli interessi più forti, ripensandosi di fatto come un “facilitatore” al loro dispiegarsi. A meno che ricominci ad esercitare (almeno) una azione di critica a quei documenti strategici, ma anche e soprattutto a quei progetti urbani (se non trova spazio per una loro ridefinizione dall’interno). Insomma per evitare questa deriva credo siano necessarie tre mosse da parte dell’urbanista: riprendere una posizione autonoma e critica rispetto alle dinamiche in corso, modificare le forme dei piani strategici quando è chiamato a elaborali, non porsi solo nella posizione di chi indirizza (con il piano strategico) e di chi valuta i progetti trasformativi, ma anche del coprogettista quando vi sono le condizioni politiche perché lo faccia e non vi operi come esclusivo referente dello sviluppatore (ad esempio come nella parte finale della sua vita fece Secchi, in particolare a Kortrijk ed Anversa o come ha fatto Desvigne a Lione e Bordeaux).
Credo che Mazza non condividerebbe alcune delle considerazioni che avanzo in questo scritto, reinterpretando alcuni aspetti del suo pensiero. Son tuttavia sicuro che sarebbe impegnato a denunciare anche questo secondo insieme di derive (a fianco di quelle prima richiamate del piano regolatore) e ci inciterebbe a farlo, con rigore tecnico e con passione civile.
Riferimenti bibliografici
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Mazza, L. (1995b) ‘Ordine e cambiamento, regola e strategia’, in Mazza, L. (2004a), 29-48
Mazza, L. (1995c) ‘Un progetto strategico per Milano’ in Mazza L (2004b) 11-24
Mazza, L. (1996a) ‘Funzioni e sistemi di pianificazione degli usi del suolo, in Mazza, L. (2004a), 49-79
Mazza, L. (1997) Trasformazioni del piano, Milano: FrancoAngeli
Mazza, L. (1998a) ‘Appunti sulla efficacia tecnica dei piani urbanistici’, in Mazza, L. (2004a), 102-109
Mazza, L. (1998b) ‘Certezza e flessibilità: due modelli di piani urbanistici’, in Mazza, L. (2004a), 110-123
Mazza, L. (1999) ‘Due domande per Milano’, in Mazza L (2004b) 25-33
Mazza, L. (2000a) ‘Strategie e strategie spaziali’, in Mazza, L. (2004a), 124-133
Mazza, L. (2000b) ‘Verso una trasformazione della pianificazione urbana’, in Mazza, L. (2004b), 71-83
Mazza, L. (2002a) ‘Regole e strategie riflessioni sul caso italiano’, in Mazza, L. (2004b), 71-83
Mazza, L. (2002b) ‘Flessibilità e rigidità delle argomentazioni’, in Mazza, L. (2004b), 71-83
Mazza, L. (2003a) ‘Primi appunti sul piano dei servizi’, in Mazza, L. (2004b), 84-92
Mazza L. (2003b) Una ipotesi di indice unico per le assegnazioni d’uso del suolo del piano regolatore 135- 151
Mazza, L. (2004a) Piano, progetti, strategie, Milano: FrancoAngeli
Mazza, L. (2004b) Prove parziali di riforma urbanistica, Milano, FrancoAngeli
Mazza, L. (2010) ‘Limiti e capacità della pianificazione dello spazio’, in Territorio, 52, 7-24
Mazza, L. (2015) Spazio e cittadinanza. Politica e governo del territorio, Roma, Donzelli
Palermo, Pc. (2002), Il futuro dell’urbanistica riformista, Carrocci, Roma, 2022
Palermo, Pc. (in corso di pubblicazione), Le radici e le frontiere. Figure e culture dell’urbanistica contemporanea, Planum Publisher, Milano
- In questo elenco inserirei i più anziani Benevolo e Campos Venuti, il quasi coetaneo, Secchi, e il poco più giovane Magnaghi. A questi aggiungerei anche i più eccentrici rispetto alle pratiche urbanistiche Crosta e Indovina, così come figure meno a tutto tondo ma egualmente capaci di fornire alcuni contributi particolarmente originali come Gambino, Belli e Gabrielli (e per qualche verso Calzolari coetanea di Benevolo e Campos Venuti). Infine, inserirei gli apparentemente più ortodossi Cervellati, De Lucia e Salzano. Credo che a molti possa suscitare perplessità l’inserimento in questo mio elenco di questi ultimi tre autori che nella fase finale della loro vita sono stati etichettati come fautori della “ortodossia” e ostili ad ogni innovazione. Anche se non posso qui argomentarlo, questa lettura mi pare riduttiva: può valere per una loro ribadita riproposizione dottrinale di una “idea forte di piano” (più dichiarata che praticata) ma si presta poco per interpretare il loro agire a cavallo tra gli anni sessanta e settanta (nella stagione della gestazione degli standard urbanistici e delle politiche di riuso dei centri storici), cosi come a cavallo del secolo (quando almeno Salzano più lucidamente di altri colga alcuni tratti di una nuova stagione di governo della città e del territorio e l’impossibilità in questo contesto di riproporre una strategia tradizionalmente riformista). ↑
- E che tuttavia aveva avuto contributi significativi anche da figure più coerenti tra i quali credo vada richiamato almeno Detti e dai più sperimentatori e divergenti Quaroni, Samonà, De Carlo. ↑
- Lo ha iniziato a fare Pier Carlo Palermo soffermandosi su Giuseppe Campos Venuti, Luigi Mazza, Bernardo Secchi, congiuntamente al più anomalo Pierluigi Crosta e al più giovane Alberto Clementi (Palermo 2025). ↑
- Nell’insieme si tratta di più di venti scritti (articoli su riviste, saggi in volume collettanei, introduzione di documenti di piano) raccolti poi in tre volumi, di cui può essere utile richiamare qui i titoli: Trasformazioni del piano (Mazza 1997); Piano, progetti, strategie (Mazza 2004a); Prove parziale di riforma urbanistica (2004b). ↑
- Perlomeno fino a quando condoni e norme nazionali e regionali di incentivazione generalizzata dell’edilizia (piano case, legislazioni sulla cosiddetta rigenerazione urbana – di cui ho provato a delinearne ambiguità Lanzani 2024), ne hanno notevolmente indebolito l’efficacia. ↑
- Varrà la pena rammentare la triste storia del dissolvimento della distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, in violenza alla lingua italiana e a decenni di studi edilizi ed urbani. Nella versione originaria della L. 457/78) la distinzione tra risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia è nitida prevedendo un mix di interventi di riprestino e di sostituzione di elementi che può portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso da quello precedente. Nel 2001 (DPR 380/2001) il quadro si allarga notevolmente, con qualche intorbidimento della distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione. Sono ricondotti all’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia anche di demolizione e ricostruzione dell’immobile a patto che esso abbia la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente (ma non con le stesse caratteristiche di materiali), consentendo modifiche di sagoma e di sedime per le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica. Con la legge 98 del 2013 si assiste ad un primo stravolgimento con la quasi morte del concetto di ristrutturazione e con il mantenimento del suo feticcio ai soli fini di pagare con oneri ribassati quelli che di fatto sono nuove costruzioni. Dentro un testo quasi illeggibile viene meno l’obbligo di mantenere dopo la demolizione la ricostruzione nello stesso sedime e la stessa sagoma, fatte salve le aree sottoposte a vincolo dove quel vincolo permane. Non solo, l’edificio può essere anche essere un rudere di edificio, l’ombra di un edificio che fu e che non si dà più nel presente. Infine nel 2020 (con il “Decreto Semplificazioni” – D.L. 76/2020), si arriva a dire in modo assai ambiguo e in contrasto con la lingua italiana non solo che “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”, ma anche interventi che possono “prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”. ↑
- Ho sentito un paio di volte personalmente Gigi Mazza fare riferimento alla posizione di Roberto Pane nel dibattito sui centri storici degli anni Cinquanta (sulla scorta della rilettura che ne aveva fatto Umberto Janin Rivolin nella sua tesi di dottorato, di cui Mazza fu relatore). Non ho trovato però rimandi diretti negli scritti. ↑
- Fausto Curti sviluppa alcune riflessioni sulla dimensione contrattuale del fare urbanista che mi sembrano dialogare con le riflessioni più generali sulla forma del piano di Mazza. Sarebbe utile approfondire punti di contatto e distinguo (Curti 2006). ↑
- Nel lodevole e condivisibile volontà di distinguere contributo tecnico dell’urbanistica (spesso allora annebbiatosi) e quello dichiaratamente politico (spesso ridotta a posizione di partito), mi sembra che venga meno la consapevolezza della politicità implicita delle colture tecniche. ↑
- Ho operato come urbanista a Desio trenta anni dopo Mazza. Ne ho potuto apprezzare il lavoro di rilievo (sviluppato con un allora giovane Balducci) del centro storico (che amplia la lezione di Astengo ad Assisi) e l’impegno radicale per realizzare nella prevista espansione nuove dotazioni con lo strumento dello standard. Mi ha sorpreso viceversa la mancata lettura di quale fosse il modello tendenziale ma riformabile di organizzazione del territorio di quell’insediamento, un modello che si sarebbe potuto cogliere con una lettura a differenti scale. Una mancata lettura che ha conseguenze negative sulla organizzazione della espansione. Inoltre sorprende il totale disinteresse come urbanista alla qualità dello spazio di relazione dello spazio delle case, il cui più virtuoso farsi al di fuori della replica delle più stinte routine tecnico amministrative non si capisce chi e come possa stimolare, se non un urbanista consulente esterno, oltretutto accademico, come appunto era Mazza. ↑