Le sfide del ‘progetto urbano’[1]
1. «Dernier avatar de l’urbanisme»?
Questa è la domanda che Gabriel Dupuis ci rivolge (2002) nella breve recensione di un libro di Patrizia Ingallina (2001), che offriva uno dei primi quadri di sintesi delle esperienze francesi (ma anche italiane) di projet urbain del tardo ‘900. Avatar è immagine inusuale nel contesto; potrebbe apparire enfatica rispetto a una rassegna di routine (che non introduce problemi inediti e riflessioni originali). Forse l’autore intende esprimere un orientamento un po’ ironico e critico verso il cambiamento annunciato? Esaminando il testo, qualche dubbio può sembrare legittimo, ma dobbiamo riconoscere che le conclusioni sono sostanzialmente positive, nonostante alcune obiezioni. È vero: all’alba del nuovo secolo, le condizioni urbane erano cambiate, rispetto all’idea moderna di città, e l’urbanistica (non solo in Francia) aveva bisogno di rigenerarsi, alla ricerca di una nuova identità (alla lettera: di una reincarnazione), grazie alla capacità di rinnovare funzioni e strumenti, retoriche e rappresentazioni. Perché ormai era accertato che la tradizione prescrittiva e (eventualmente) scientista del planning, che aveva suscitato notevoli speranze nel corso del ‘900, poteva portare soltanto a esiti fallimentari. In quel quadro, il progetto urbano veniva a rappresentare un’alternativa promettente. Non aveva dubbi Christian Devillers, influente architetto-urbanista francese: non c’è futuro per la planification tradizionale; il projet urbain è una strategia, una pratica che merita di essere sperimentata (1994). D’altra parte, giudizi simili erano già stati formulati in altri contesti. In Italia, fra gli anni ‘50 e ‘60, Doglio, Samonà e De Carlo avevano denunciato la crisi a loro avviso irreversibile di quella che era stata l’«ubriacatura urbanistica» (espressione un po’ rude, ma efficace: De Carlo et al., 1976, p. 80). Nel medesimo periodo, a Harvard, Lluis Sert proclamava il fallimento dell’urban planning (simbolicamente certificato, nel 1956, dalla chiusura della scuola di Chicago di «rational planning», fondata nel dopoguerra da Tugwell e Perloff); considerava indispensabile, come alternativa, il rilancio della tradizione dell’urban design (Krieger e Saunders, 2009, cap. 1). Le esperienze commentate da Ingallina potrebbero essere intese, qualche decennio dopo, come una conferma oggettiva di quei giudizi e orientamenti. Il processo, tuttavia, non è stato lineare, né può essere considerato scontato. Il campo dell’urban design resta incerto e confuso (Palermo, 2023): si tratta ancora di una «mongrel discipline» (Carmona, 2014); forse l’ipotesi stessa di fondazione disciplinare appare ormai inappropriata per quello che è soltanto un campo di pratiche (Dovey, 2020). L’evoluzione delle esperienze formative mostra una sequenza di progetti incompiuti e di esperimenti poco convincenti: l’integrazione fra planning e design resta una chimera, ma non ha mai funzionato neppure la pretesa di autonomia da parte di ciascuno dei due filoni (Ceccarelli, 1983; Palermo, 2022, par. 5.3). Anche il progetto urbano rimane una nozione ambigua (Gasparrini, 1999): dovrebbe rappresentare una svolta rispetto alla tradizione della pianificazione generale e prescrittiva; in molti casi, però, esprime soltanto qualche opportunità addizionale e contingente – più flessibile e adattativa – che continua a convivere con le visioni e gli strumenti più ortodossi (questo è il limite principale che Dupuy denunciava nella sua recensione). La domanda iniziale sembra dunque ancora attuale: possiamo davvero sostenere che il progetto urbano sia il nuovo principio guida dell’urbanistica contemporanea? Quali sarebbero le ragioni e i caratteri salienti del cambiamento annunciato? Quali le potenzialità e punti critici? Questa eventuale rigenerazione rappresenta una svolta veramente matura, diffusa e condivisa? Non è possibile limitarsi a prendere atto della tendenza senza discutere alcuni dilemmi emergenti.
2. Uno spazio interstiziale
La prima considerazione è che la questione del progetto urbano nasce ai margini delle aree istituzionali e disciplinari tradizionalmente deputate ad affrontare i problemi delle trasformazioni territoriali: l’urbanistica, l’architettura, la stessa politica. Tende a occupare uno spazio intercluso, che è di tutti e di nessuno: non è chiaramente delimitato, autonomo, identitario. L’interesse sorge perché le principali tradizioni disciplinari fanno fatica a raggiungere i risultati attesi. Se la prospettiva è ancora generale e prescrittiva, la pianificazione urbanistica rivela incertezze e difficoltà imbarazzanti quando si tratta di organizzare e gestire trasformazioni d’area cospicue, innovative e di lunga durata. L’architettura rischia di entrare in confusione quando si dilata la scala dei problemi e si moltiplicano le tematiche che è necessario affrontare. Le visioni e i programmi della politica sono sempre alla ricerca del consenso necessario e delle condizioni di fattibilità degli interventi, che spesso richiedono compromessi o opportunismi rispetto alle intenzioni dichiarate. Fra occasioni mancate, intenzioni precarie, prospettive incerte, si apre uno spazio interstiziale di sperimentazione, che sembra destinato a una transizione permanente: perché nasce dai limiti e dalle difficoltà irrisolte delle tradizioni più solide e accreditate, ma non riesce a trovare una composizione affidabile. Dopo più di un secolo di esperimenti, dovremmo probabilmente concludere che non regge l’ipotesi di costituire un campo disciplinare nuovo e peculiare. I riferimenti ricorrenti ai temi e alle esperienze dell’«urban design» alludono soltanto a un complesso di pratiche, che restano eterogenee e spesso contingenti; dove i rapporti di forza rischiano di risultare determinanti nel contesto, mentre la competenza tecnico-professionale, in materia, non è un dato scontato e condiviso. Per provare a uscire da una situazione di stallo, io credo che sia utile distinguere le principali linee di sviluppo di questa vasta famiglia di esperienze. A mio avviso, almeno quattro sono le tracce di interesse emergente. Un filone di pensiero e d’azione tende a concepire il «progetto urbano come un metodo»: una via d’uscita semplice e all’apparenza confortante; purtroppo generica, solo preliminare, non sempre generativa («dal metodo non nasce nulla»: è il monito di Michel Serres, 2016). La seconda prospettiva punta alla ricerca di buoni modelli con una possibile valenza normativa (nel senso esplorato da Kevin Lynch, fra gli anni ‘60 e ‘80). Oggi ha perso credito l’ipotesi di disegnare «progetti-norma», con una funzione cogente rispetto alle trasformazioni future; resta attuale però la ricerca di linee guida, raccomandazioni, requisiti potenziali, utili per orientare il lavoro concreto di progettazione. La terza traccia mette in evidenza alcuni limiti costitutivi delle concezioni tecniche della progettazione urbana. Generalmente vana risulta l’intenzione di portare a compimento esperienze autentiche di place-making grazie al puro disegno e alla realizzazione conforme di un progetto d’area. Il senso effettivo della trasformazione fisica maturerà soltanto nel corso del tempo, tramite le pratiche di vita e d’uso che in quel contesto avranno luogo. Si tratta di un processo complesso e graduale di place-shaping, dove le condizioni sociali e ambientali incidono sensibilmente sugli sviluppi dell’esperienza progettuale (Adams e Tiesdell, 2013). Sottovalutare i nessi fra progetto e pratiche urbane può essere una semplificazione elusiva o strumentale. Sviluppando questa traccia, può sembrare ragionevole riprendere in considerazione anche il senso e l’impatto del progetto d’area rispetto al «politico» urbano; cioè al complesso di interessi divisivi che ogni importante trasformazione urbana mette in gioco, e che richiedono una composizione almeno parziale (ecco il quarto tema di interesse). La rappresentazione mediatica di questi processi tende ad assumere forme didascaliche, all’apparenza «win win». Sarebbe forse il caso di riabilitare altre immagini, un tempo influenti: la metafora della città come growth-machine (Molotch, 1976; Jonas e Wilson, 1999); il tema della just city, perché è lecito dubitare dell’equità della distribuzione dei benefici economici e dei costi sociali conseguenti alle operazioni di sviluppo urbano (Fainstein, 2010). La mia ipotesi è che sarebbe un errore privilegiare una concezione tecnica del progetto urbano, come puro disegno delle trasformazioni fisiche, metodo di condotta oppure guida potenziale che dovrebbe assumere una valenza normativa per le azioni future. Quelle vie sono state ampiamente esplorate, nel lungo periodo, ma gli esiti non sono stati pari alle attese. Perché mai, oggi, le prospettive dovrebbero sembrare più promettenti? Ritengo che sarebbe opportuno, invece, riconoscere la radicale incompletezza di qualunque visione del problema puramente tecnica, metodica o solo programmatica. Il senso e la qualità di un progetto urbano dipendono dal lavoro concreto di progettazione, ma prendono corpo soltanto tramite le pratiche di realizzazione e uso, nel contesto specifico del politico locale, che richiede contributi adeguati di analisi degli interessi e delle strategie in gioco, e la costruzione delle modalità più opportune di policy-making. Questi sono temi che sembra difficile eludere; eppure risultano spesso marginali rispetto al primato concesso al disegno, al metodo o ai modelli. Il paradosso di questo campo di esperienze è che si viene a formare nello spazio vuoto lasciato incolto dalle tradizioni ufficiali. Quel vuoto, però, è colmo di interessi (come Quaroni ha lucidamente anticipato nella Torre di Babele, 1967, p. 214): sottovalutare questa realtà significa rischiare l’irrilevanza. Pertanto, proverò a discutere contestualmente tutte e quattro le questioni, dopo avere rapidamente ricostruito una genealogia essenziale dell’idea di progetto urbano, seguendo le tracce delle sperimentazioni principali. Lo scopo è verificare i caratteri peculiari e la rilevanza effettiva di una concezione urbanistica di questo campo di pratiche: che viene spesso declamata (Palermo, 2017), ma non sembra ancora trovare conferme empiriche chiare, convincenti e condivise.
3. La sorprendente esperienza francese
L’introduzione più efficace al tema si trova, a mio avviso, nelle esperienze e riflessioni francesi degli ultimi decenni del ‘900. In quel contesto, sono emerse con grande chiarezza le due dimensioni fondamentali del progetto urbano: la riscoperta della città fisica; l’innovazione necessaria dei meccanismi di governo delle trasformazioni territoriali. Due tendenze che esprimevano una discontinuità sostanziale rispetto alla tradizione più influente della planification urbaine, che in Francia a lungo ha assunto forme centralistiche e direttive, rispetto a una rappresentazione del territorio spesso schematica e solo funzionale. Soltanto nel 1983, infatti, è stata approvata una legge urbanistica che ha introdotto principi di decentramento territoriale, assegnando al governo locale importanti responsabilità in materia di urbanistica. Non si è trattato soltanto del trasferimento di alcuni poteri originariamente accentrati, ma di un rinnovamento significativo di visione e strumenti; forse più rapido e intenso perché conseguente a una lunga fase di immobilismo. Fra gli anni ‘80 e ‘90 abbiamo potuto constatare la proliferazione di dispositivi inediti di governance urbana: come il «projet urbain» appunto (Devillers, 1994; Panerai e Mangin, 1999), la «politique de la ville» (Chaline, 1997), «gouverner par contrat» (Gaudin, 1993 e 1999). Tuttavia, la tradizione urbanistica ha continuato a esercitare un’influenza diffusa (l’ambigua convivenza fra strumenti vecchi e nuovi è stata l’oggetto principale delle critiche di Dupuis, 2002). Larga parte dell’area disciplinare e professionale ha continuato a ispirarsi ai valori e modelli più ortodossi, come la sola, autentica base di legittimazione, destinata, purtroppo, ad applicazioni imperfette. Si è configurato così un modello ibrido che annoverava strumenti eterogenei, dai piani tradizionali a varie forme innovative di progetti o politiche urbane. Vaga o marginale è rimasta la percezione di un cambiamento reale di paradigma; l’impressione più comune era, semplicemente, che si fosse ampliato il repertorio delle opportunità; il sistema politico avrebbe potuto scegliere, di volta in volta, la retorica, la strategia, gli strumenti più convenienti nella fase e nel contesto, secondo la logica ben nota del «contingent planning» (Alexander, 1996), resa ora più potente ed efficace dallo sviluppo delle tecniche (analitiche, giuridiche, progettuali). Mancava invece l’esigenza, la volontà di mettere in discussione il sistema tradizionale di pianificazione. Urbanisti autorevoli, come Pierre Merlin (1991) e Gilles Novarina (2003), hanno continuato a esprimere palese rispetto o nostalgia verso le forme direttive di pianificazione pubblica, ancora considerate come un modello potenzialmente virtuoso, che purtroppo solo sotto condizioni rare riesce a garantire risultati pari alle attese. In un libro recente che vorrebbe rappresentare un quadro-bilancio dell’evoluzione della cultura urbanistica, Novarina (2023) dedica scarsa attenzione alle frontiere dell’innovazione; preferisce impegnarsi nell’ennesima rilettura dei classici (o precursori) della disciplina, tracciando una sequenza di figure e di episodi eterogenei, che si susseguono senza un inquadramento storico-critico e una visione del futuro (la stessa strategia, ripetitiva e inconcludente, rilanciata in Italia da Gaeta, 2024). Peraltro, gli argomenti a sostegno della tradizione «generale e prescrittiva» restano deboli. Come conferma Xavier Desjardins (2020, Introduction), la strategia principale si riduce a un appello retorico alla coscienza e al senso di responsabilità dei cittadini: può la società urbana fare a meno di una visione condivisa dello sviluppo futuro, della capacità di coordinamento delle azioni parziali, di una regolazione giusta ed efficiente degli usi del suolo? In questi termini, la risposta sembra scontata. Si sorvola, però, sulla capacità effettiva degli strumenti tradizionali di garantire una risposta adeguata ai problemi incombenti, che nel lungo periodo troppo spesso è mancata. Il discorso urbanistico, di conseguenza, continua a rimanere in bilico fra aspirazioni, velleità e insuccessi: un circolo vizioso che sembra senza via di uscita.
Una volontà di rottura e di innovazione radicale rispetto alla tradizione si è manifestata invece, in Francia, nel mondo dell’architettura o meglio dell’architettura-urbanistica, grazie ad alcune figure eminenti, non numerose, ma attive e influenti. Bernard Huet è stato uno dei più autorevoli interpreti della svolta auspicata: grazie a una revisione profonda del discorso urbanistico, che prendeva le distanze dai modelli burocratici e funzionalisti, per riportare al centro della scena la città fisica, l’evoluzione storica delle forme e condizioni urbane, il tema dell’«architettura della città» (Pommier, 2021). Christian Devillers ha condiviso con Huet alcune critiche radicali della planification tradizionale: la visione settoriale dei problemi, la logica impositiva, la rigidità delle regole e modalità di intervento; ha voluto invece dimostrare la possibilità concreta di ripensare lo spazio urbano e le sue trasformazioni grazie agli strumenti dell’urban design, secondo processi più partecipati e meglio legittimati di consensus-building (Devillers, 1994). Anche Philippe Panerai si è preoccupato di rinnovare lo statuto disciplinare, riorganizzando il sapere tecnico e le pratiche correnti secondo nuovi manuali di analisi morfologica (1999, con Depaule e Demorgon) e progettazione urbana (1999, con David Mangin). Sul fronte istituzionale, Ariella Masboungi ha curato un filone importante di analisi e valutazione delle esperienze innovative di projet urbain promosse in Francia dalle politiche pubbliche (2002, 2012). Questi personaggi rappresentano un’èlite attiva e influente, che peraltro non è stata in grado di modificare gli orientamenti di massa della disciplina e della professione. Un dato mi sembra interessante. Ogni autore, correttamente, ha riconosciuto l’influenza di alcuni contributi di analisi e progettazione urbana maturati in Italia nel secondo dopoguerra (grazie alle teorie ed esperienze di figure come Muratori, Samonà, Quaroni, Aldo Rossi, Aymonino, De Carlo, Gregotti, Cervellati). Le vicende francesi peraltro hanno rapidamente superato i riferimenti originari. Il fatto nuovo e importante, che in Italia è sostanzialmente mancato, è stato lo sviluppo di posizioni innovative sui temi della governance urbana. François Ascher (2001) ha indicato la via, delineando una svolta radicale rispetto alle posizioni più tradizionali di Merlin e Novarina; in breve, potrei osservare che l’autore ha proposto una concezione «debole, ma responsabile» dell’urbanistica, affine alla visione elaborata in Italia, negli stessi anni, da Gigi Mazza. Sulla stessa linea, si è mosso in seguito Alain Bourdin (2010): per affrontare la crisi e i problemi posti dalle nuove condizioni insediative, occorre un’urbanistica pragmatica, duttile, consapevole dei limiti, ma anche pronta ad assumere le sue responsabilità nel contesto della ville néolibérale. Un dato interessante e peculiare, nel caso francese, è stato la convergenza fra quelle riflessioni urbanistiche e un filone di «analisi delle politiche» fondato sul principio dei policy tools (Lascoumes e Le Galès, 2004). Come è noto (Palermo, 2009, cap. 7), si tratta di un ramo degli implementation studies che si è sviluppato originariamente nel pragmatico mondo anglo-americano (Hood, 1983; Salamon, 2002). Il messaggio più banale è che la definizione e valutazione degli strumenti operativi è un passaggio essenziale per verificare la fattibilità di una politica o di un progetto specifico. La prospettiva più innovativa è il riconoscimento della pluralità degli strumenti a disposizione della pubblica amministrazione. Alla quale spetta la responsabilità di scegliere e attuare la strategia che appare meglio giustificata nel contesto: dove il tema chiave prescelto può essere la regolazione, la redistribuzione, la comunicazione pubblica che porterà alla formulazione ufficiale del problema, l’enactment di una varietà di attori e l’integrazione o almeno il coordinamento delle loro azioni. Emerge dunque la dimensione politica e strategica della scelta degli strumenti, che può diventare decisiva. Gli sviluppi di questo approccio in Francia sono stati forse i più tempestivi e consistenti nel continente europeo. Nello spazio di intersezione fra nouvel urbanisme e policy analysis, spiccano i contributi originali ed esaurienti di Gilles Pinson, che ha cercato di assicurare alle tendenze emergenti degne giustificazioni culturali e una chiara legittimità politica. La riscoperta della città fisica resta un presupposto irrinunciabile per l’azione pubblica, ma deve essere integrata da una concezione innovativa del governo del territorio. Due sembrano essere i requisiti essenziali. Il principio base è «gouverner par projets» (Pinson, 2004 e 2009), cioè mediante trasformazioni parziali capaci di produrre effetti rilevanti di natura strategica e morfologica, a varie scale territoriali. Per evitare i rischi del «disjointed incrementalism» (Lindblom, 1959), sarebbe necessario inquadrare le azioni locali entro una visione coerente d’insieme, come «strategic spatial framework» o «politique de la ville» (Pinson, 2006). Una prospettiva accorta e suggestiva, in linea di principio, ma la sua realizzazione non è certamente scontata.
Questa visione e le esperienze conseguenti sono in grado di configurare un vero «paradigm shift» per la disciplina urbanistica (non solo francese)? Qualche dubbio è lecito. Forse si tratta soltanto di un complesso di sperimentazioni degne di interesse, perché cercano di rispondere a difficoltà ormai evidenti e diffuse; non rappresentano, però, una tendenza matura e realmente legittimata, agli occhi della cultura disciplinare, della politica e del senso comune. Anche perché la concezione del projet urbain, in Francia, è rimasta in bilico fra tre interpretazioni e prospettive non equivalenti (la nozione sembra destinata a rimanere «floue», osservava Patrizia Ingallina nel 2001). La prima traccia è naturalmente la riscoperta del progetto fisico di parti della città, come modalità essenziale delle trasformazioni urbane; al limite, si potrebbe trattare soltanto di qualche «progetto esplorativo», utile per creare conoscenza e orientare l’azione futura (esemplari sono stati i contributi di Huet, Devillers, Panerai, fra gli anni ‘80 e ‘90). La seconda traccia è la mutazione necessaria dei modelli di governance per una società post-fordista e post-moderna, che richiedono un uso trasparente e responsabile di strumenti inevitabilmente parziali, flessibili, adattativi. Un nuovo filone di esperienze si è aperto nello spazio d’intersezione che si veniva a creare fra il nouvel urbanisme di Ascher e Bourdin, e i policy tools di Le Galès, Lascoumes, Pinson, alle soglie del nuovo secolo. La terza traccia, forse la più effimera, riguarda la suggestione coeva delle «strategie urbane», come guida potenziale – pubblica – dello sviluppo sociale, economico e spaziale della città (Ascher, 2001; Pinson, 2005 e 2006). Quella via rischia di rappresentare una semplificazione ideologica di fronte alle difficoltà del cambiamento, se condividiamo le critiche di Mazza al strategic spatial planning (Mazza, 2004), che ho ampiamente sviluppato in Palermo, 2022 (cap. 7). Questa è la famiglia di significati che io considero più debole e illusoria. Probabilmente ha rappresentato il tentativo, troppo esile e precario, di assicurare un esito riformista alle spinte neoliberiste in atto da tempo, opponendo agli interessi di parte un’improbabile idea di «città come attore collettivo» (Le Galès, 2002; Healey, 2002). Per qualche tempo, le retoriche del strategic thinking (che, come insegna Mintzberg, 1994, non deve essere confuso con le attività effettive di strategy-making) hanno pervaso i discorsi disciplinari; tuttavia, gli effetti concreti sono stati oggettivamente modesti e la tendenza è diventata più marginale (oggi sembra essere coltivata soprattutto dagli operatori privati). Si è trattato di una stagione ideologica di scarso rilievo rispetto ai problemi incombenti. Lo stesso Gilles Pinson sembra avere sopravvalutato il fenomeno a inizio secolo (2005, 2006). Non vi è dubbio, però, che negli anni più recenti, l’orientamento dell’autore sia cambiato: il tema centrale di interesse sono ora i poteri e i processi che determinano gli sviluppi reali della città neoliberista (Pinson, 2020; 2017, con Morel Journel; 2020, con Lefèvre), rispetto ai quali le retoriche della strategia urbana pubblica risultano imbelli o marginali.
Nonostante questi limiti, io credo che non vi siano dubbi sull’interesse e sulla significatività di questo filone di esperienze. In Italia non possiamo contare su un movimento analogo; anzi, dobbiamo constatare che la capacità d’influenza ha cambiato verso nel corso del tempo. L’architettura-urbanistica francese si è ispirata agli studi tipo-morfologici ideati in Italia negli anni ‘50 e ‘60; in seguito, però, sono gli Italiani che, verso la fine del secolo, hanno provato a trarre spunto dalle nuove esperienze francesi di governance urbana. Curiosamente, la tendenza si è manifestata negli ambienti dell’architettura-urbanistica (si veda Falini, a cura, 2003) oppure in alcuni settori della pubblica amministrazione tesi a rinnovare un approccio burocratico tradizionale e le sue varianti tecnocratiche (grazie a figure leader come Gaetano Fontana nel campo dei lavori pubblici o Fabrizio Barca, sui temi dello sviluppo economico-territoriale). Molto più marginale è stata l’attenzione espressa dai circoli ufficiali dell’urbanistica italiana. Pertanto, anche in Italia, ancora più che in Francia, la questione del progetto urbano è rimasta una suggestione polisemica, empiricamente poco definita. Prima di discutere il senso e la qualità delle esperienze, sarà utile una rapida ricognizione del campo d’azione che si è venuto a configurare.
4. Tre famiglie di temi
Possiamo distinguere almeno tre campi di pratiche, che in origine presentavano caratteri almeno in parte indipendenti, ma nel corso del tempo hanno dato vita a molteplici processi di contaminazione, assumendo una nuova centralità in fasi diverse; la sequenza stessa dei riferimenti, non privi di ambiguità, rende l’idea dell’evoluzione in corso degli interessi disciplinari. Un primo, consistente filone riguardava i temi della rigenerazione urbana: una categoria ambivalente (Lanzani, 2024), che può alludere a interpretazioni diverse dell’intervento sull’esistente. La polisemia trova conferme evidenti nei linguaggi disciplinari in uso, che sembrano esitare fra opzioni non equivalenti: renewal, revitalization, renaissance, regeneration, in lingua inglese; réhabilitation, renouvellement, rénovation, régénération, in francese; recupero, rinnovo, riqualificazione, rigenerazione, in italiano. Forse è il caso di (provare a) restituire alla materia un quadro concettuale più ordinato e condiviso. Uno dei temi chiave è lo scopo e la modalità dell’intervento. La priorità deve essere la riqualificazione fisica della città esistente, oppure il processo di rinnovamento deve investire anche la società, l’economia, l’ambiente urbano, cioè la qualità della vita e il potenziale di sviluppo dell’area da riqualificare? Se la prima famiglia di interventi apparteneva principalmente alla sfera del physical planning, dagli anni ‘90 è emerso un secondo filone di interessi, teso a tutelare le condizioni sociali di quelle aree oppure, in termini più generali, a favorire il local development secondo tutte le dimensioni (sociali, economiche, ambientali), grazie a processi di trasformazione spaziale che mettevano in gioco non solo le forme fisiche dell’insediamento, ma le funzioni e le pratiche urbane. Quel filone ha trovato importanti sostegni e nuove opportunità grazie alle politiche di sviluppo territoriale e coesione sociale dell’Unione Europea. Nel nuovo secolo, un’ulteriore linea di sviluppo si è progressivamente affermata, conquistando all’apparenza il centro della scena. È stato ribadito l’interesse per l’urban (re)development, ma è cambiata sensibilmente la declinazione del tema: smartness e capacità di innovazione urbana sono diventati i requisiti salienti («the smartness mandate»: Halpern e Mitchell, 2022). Le prime tracce della svolta si sono manifestate quando è emersa l’attenzione per i temi della «città creativa». In seguito, si è rapidamente consolidato il filone denominato «smart urbanism», ormai indagato da una letteratura sterminata. Dalla riqualificazione fisica allo sviluppo sociale-territoriale, poi all’innovazione urbana: ecco, in sequenza, le tre fasi emergenti, anche se ciascuna tende a rielaborare i temi di interesse ereditati. La reinterpretazione di oggetto e scopo ha comportato anche una modifica sostanziale dei modelli e strumenti di governance. I dubbi sulla pianificazione prescrittiva, già diffusi fra le file degli stessi urbanisti, sono stati esaltati dalla revisione progressiva di temi e scopi dell’intervento. La deriva verso strumenti più flessibili e adattivi sembra ormai una tendenza irrevocabile. Riconsideriamo alcuni caratteri essenziali delle tre linee di esperienze.
Riqualificare la città fisica
Il paradosso di questo filone di pratiche urbane è che presenta alcuni caratteri unitari, secondo le prime evidenze, ma un’indagine meno sommaria rivela ben presto ambiguità e distinzioni sostanziali, che si riproducono nello spazio e nel tempo. La prima impressione è che questo sia un laboratorio ideale per mettere alla prova il concetto di progetto urbano. Si tratta di intervenire sulla città esistente, laddove emergono dei problemi di struttura o d’uso; di individuare un’area critica (che di solito non è formalmente predefinita); di elaborare un intervento di recupero o rinnovo, che di solito si vale di strumenti ad hoc, più agili e mirati della normativa generale; di mettere in opera il progetto, superando varie difficoltà, che possono sorgere per problemi di risorse, di consenso, di regolazione, di tempi lunghi (Somhegyi e Giombini, 2024). Su queste pratiche si è ormai consolidato un sapere tecnico ben definito, che si estende dall’analisi della città fisica all’economia e al management del progetto, e vale indipendentemente dall’orientamento ideologico e pratico dell’esperienza (Couch, 1990; Karrer et al., 1998; Remesar, 2016). Secondo Tigran Haas (2018, con Locke), un unico paradigma di reurbanism potrebbe guidare tutti gli interventi sulla città esistente. Convergenti appaiono anche le retoriche ufficiali. In una varietà di tempi e di contesti, le definizioni di questa famiglia di interventi risultano sostanzialmente equivalenti. Lo scopo è rimediare alle criticità di alcune strutture fisiche, senza trascurare la cura delle esigenze sociali che il contesto esprime: grazie a una «comprehensive and integrated vision and action which leads to the resolution of urban problems and which seeks to bring about a lasting improvement in the economic, physical, social and environmental condition of an area that has been subject to change» (Robert e Sykes, 2000, p. 17). Gli stessi virtuosi principi sono stati confermati in tempi diversi e in contesti non comparabili: Stati Uniti, Europa (Couch et al., 2003; Jones ed Evans, 2008; Tallon, 2010), ma anche il Sud del mondo (Leary e McCarthy, 2013). Quest’immagine unitaria si dissolve rapidamente se osserviamo le pratiche effettive. Il dato impressionante è la divaricazione fra le operazioni che seguono una logica di mercato (la maggior parte) e quelle, più rare, che vorrebbero rispondere a istanze comunitarie. La letteratura dimostra uno squilibrio evidente a favore del primo gruppo (fra le eccezioni: Pierson e Smith, 2001; Colantonio e Dixon, 2011; Matthews e O’Brien, 2016). Può essere un obiettivo intenzionale o un effetto collaterale, ma il fenomeno della gentifrication è normalmente associato alle operazioni di urban renewal o regeneration (Dennis Gale, 2021, ha confermato la tendenza nell’arco di un secolo). Inoltre, in una varietà di contesti, eventualmente con qualche slittamento temporale, si riproduce la medesima sequenza di fasi (almeno quattro, in generale), ciascuna delle quali segnala una mutazione significativa della politica pubblica e degli interventi sul campo. La prima è la stagione che possiamo indicare con il nome di renewal, réhablitation, recupero, ed ha come oggetto principale la città fisica. La seconda (ben rappresentata dalla nozione francese di renouvellement: Chaline, 1999) prende atto degli effetti sociali indesiderati delle politiche urbane precedenti e richiede un impegno pubblico più forte ai fini della revitalization economico-sociale delle aree urbane in crisi. Le difficoltà crescenti del welfare state, tuttavia, condizionano la misura e l’efficacia di quei programmi; diventa indispensabile l’attivazione e la partnership di interessi privati, disposti a cooperare nel campo (McCarthy, 2007; Horita e Koizumi, 2009; Shand, 2013). Si apre così la stagione più attuale di urban regeneration, che oggettivamente appare più sensibile alle spinte neoliberiste del mercato urbano (Kinsella, 2021) o alla volontà dello Stato autocratico, laddove esiste (Romano, 2020), piuttosto che alle istanze virtuose del riformismo. Il ciclo, dunque, sembra chiudersi con un ritorno alle difficoltà della prima fase. Limiti e rischi delle esperienze sono plausibili; devono essere verificati caso per caso. La narrazione ufficiale ormai rinuncia a distinguere i temi della rénovation da quelli del (re)development. L’immagine ambivalente dell’urban regeneration può comprendere (o confondere) le due famiglie di questioni. Forse esprime la volontà di impostare meglio il problema; forse rappresenta una revisione soltanto retorica, che rischia di illudere e (appunto) di confondere. Solo l’esperienza effettiva potrà chiarire il dilemma.
Sviluppo sociale-territoriale
Alle soglie del nuovo secolo, questo filone di esperienze rappresentava l’apice dell’innovazione e delle speranze, come esito di un processo evolutivo sulla carta molto promettente. Il primo passo era stato riconoscere l’opportunità di agire (governare) per progetti (par. 3). In un primo tempo, i contenuti dei progetti erano strettamente settoriali: come il tema della réhabilitation di un patrimonio edilizio o di un’area in degrado (Backouche, 2016). Per superare i limiti del «disjointed incrementalism», è parso ragionevole estendere il campo dell’intervento. Perché non integrare quei programmi con delle misure di sostegno sociale alla popolazione residente e di rivitalizzazione economica dell’area? In effetti, dagli anni ‘90 il paradigma della sostenibilità presuppone un’azione congiunta sui problemi ambientali, economici e sociali (Beatley 1995; Jepson, 2001), e la capacità di conciliare le esigenze di tutela e di sviluppo (Wheeler 2004, Mancebo, 2008). I principali «programmi complessi» sperimentati in Italia in quella fase (Urban, Interreg, Prusst, Patti territoriali, Programmi integrati di intervento, e altri ancora) hanno seguito quella via. L’integrazione auspicata avrebbe dovuto limitare gli effetti perversi possibili delle politiche di settore: come la «gentrification» che spesso consegue all’«urban renewal» (Semi, 2015). Sostenibilità e integrazione sono diventati dunque i nuovi totem della programmazione urbana e territoriale, grazie anche al forte impulso delle politiche di sviluppo e coesione dell’Unione Europea. La prospettiva è stata esplorata da ogni punto di vista: analitico, metodologico, normativo, progettuale, operativo, valutativo. Non avrei nulla da aggiungere o da modificare rispetto a quanto ho scritto a suo tempo (Palermo, 2004, capp. 11 e 13; 2009, cap. 4), né mi sembra il caso di proporre un’ulteriore rassegna sull’argomento. Le domande da porre sono probabilmente due: quale bilancio è possibile trarre sulla base delle esperienze? Perché l’interesse per il tema oggi risulta sempre più debole? In linea di principio, l’approccio è ineccepibile. Si tratta di una versione complessa dell’idea di projet urbain, che non si limita a tracciare una visione strategica, ma definisce una rete di interventi operativi, complementari o meglio integrati. Le difficoltà si manifestano nel corso dell’esperienza, per ragioni non solo tecniche, ma politiche, sociali, amministrative. Infatti, possono sorgere problemi rilevanti di volontà e responsabilità politica, di formazione del consenso, di gestione operativa; come normalmente accade per l’attuazione di qualunque progetto complesso. È stata illusoria la speranza di superare gli ostacoli per via tecnocratica (il senso e l’esperimento della «nuova programmazione» in Italia, alle soglie dei 2000: Palermo, 2009, capp. 4 e 6). Non basta irrigidire il metodo e i controlli; anzi, quella mossa potrebbe diventare un alibi che distoglie dalle responsabilità cruciali: trovare una via d’uscita a problemi che possono sembrare intrattabili; costruire il consenso necessario. Sembra essere mancato anche quel realismo critico che Wildavsky, giustamente, raccomandava (1979): deve essere sempre chiara la percezione degli interessi concreti e dei comportamenti plausibili degli attori implicati. Quando una nuova legge o un nuovo programma sono ratificati, l’orientamento più comune dei players è trasferire nel nuovo formato gli interessi preesistenti. Non deve sorprendere, pertanto, il fatto che, in molti casi, le procedure sofisticate ed esigenti della nuova programmazione abbiano legittimato interventi occasionali, da tempo in lista d’attesa. Il bilancio deve essere cauto: non sono mancati risultati interessanti in qualche contesto locale, ma certamente le ambizioni originali sono andate deluse. Dovremmo avere imparato che non è il caso di confidare troppo sul metodo e sugli indirizzi programmatici; la capacità di sviluppare e gestire le pratiche diventa il requisito essenziale sul campo. Un dato dovrebbe preoccupare. Un impegno pedagogico era palese e intenso 20-30 anni fa. Lo scopo era creare le condizioni per un progresso sostanziale, nel lungo periodo, della qualità ed efficienza della pubblica amministrazione, non solo per la gestione corrente, ma anche come capacità progettuale innovativa. La meta non è stata raggiunta; oggi sembra tristemente abbandonata, come dimostra la vicenda imbarazzante del PNRR. I discorsi edificanti degli anni ‘90 sullo sviluppo sociale-territoriale sono rimasti in un limbo. Non si affrontano le difficoltà conseguenti, che non ammettono soluzioni facili; la mossa più semplice è spostare l’attenzione verso qualche nuova frontiera dell’innovazione, che può sembrare suggestiva e attraente (ma non sarà immune da problemi simili nel prossimo futuro). La crisi attuale della narrazione dello ‘sviluppo virtuoso’ nasce dunque da situazioni di imbarazzo e da spinte opportunistiche: il senso di impotenza rispetto a difficoltà che si sono rivelate quasi intrattabili; il tentativo, strumentale e capzioso, di spostare l’attenzione verso nuovi obiettivi, oggi attraenti, ma destinati a generare nuove delusioni.
Innovazione urbana
Lo smart urbanism è la nuova frontiera? L’interesse è esploso negli ultimi decenni, nelle comunicazioni pubbliche e nella riflessione disciplinare. Anche in questo caso si tratta dell’esito di un processo evolutivo. La «città creativa» è stata probabilmente l’immagine inaugurale: ha aperto un discorso sulle possibilità di legare iniziative di rivitalizzazione urbana e cura della qualità dell’insediamento. Charles Laundry (2000) ha elaborato una prima dottrina sul tema, che è stata poi ampiamente sviluppata dai professionisti del place-making (Carriere e Schalliol, 2021). Si tratta generalmente di visioni positive: la possibilità che il processo di innovazione possa creare qualche problema rispetto al quadro preesistente non costituisce un tema reale di interesse (fra le poche eccezioni, Oli Mould, 2015, che mette a fuoco i fenomeni di «urban subversion» che possono accompagnare i tentativi di trasformazione creativa; Ruth Fincher et al., 2016, che mettono in guardia rispetto alle mistificazioni possibili del place-making). Gli sviluppi successivi hanno preso una direzione opposta rispetto al cambiamento osservato nel campo della riqualificazione urbana, a fine ‘900. In quel caso, era cresciuta la complessità materiale dell’intervento: in un primo tempo solo fisico, poi anche sociale. La tendenza più attuale, negli ultimi 20 anni, rivela invece un processo avanzato di dematerializzazione/deterritorializzazione. È ormai evidente che il soggetto dello smart urbanism è la «città digitale» (Laguerre, 2006). I contributi di Carlo Ratti sono un documento esemplare. L’autore ragiona sulla «città di domani» (Ratti e Claudel, 2017), ma la rappresenta soltanto come una «senseable city» (Picon e Ratti, 2023). Si preoccupa della urbanità delle nostre città, ma le concepisce come se l’urbs non esistesse (Ratti, 2022), replicando l’errore commesso da alcune correnti del planning, nel cuore del ‘900. Le promesse della città come «rete di sensori» dovrebbero essere valutate con rigore, ma anche un po’ d’ironia. Una mole impensabile di dati diventa disponibile (Offenhuber e Ratti, 2014): per quali usi? L’utilità a fini commerciali è una certezza, così come la possibilità di moltiplicare i giochi infantili dei social networks; ma potrà cambiare la qualità, la sostanza dei servizi urbani? Questa è un’incognita, perché il problema cruciale non è la disponibilità di informazioni e la loro gestione tecnica, bensì – materialmente – la dotazione e organizzazione dei servizi. È inutile vantare come obiettivo la «città entro 15 minuti» (Moreno, 2020; Manzini, 2022), se le dotazioni attuali comportano liste di attesa di 15 mesi. Alcuni circoli complottisti intravedono in questo slogan la volontà perversa del deep state di confinare e reprimere le libertà individuali; io ritengo che si tratti soltanto di semplificazioni retoriche da parte del sistema politico e dei media. In questo quadro, trovo superficiale e fastidiosa l’enfasi priva di misura verso le tecnologie dell’innovazione, come se l’obiettivo fosse soltanto creare una «computable city». Persino Michael Batty, recentemente (2024), ha riconosciuto i limiti di quella visione, dopo avere a lungo celebrato le potenzialità di big data e smart urbanism (Batty, 2005 e 2013; pubblicazioni della prestigiosa MIT Press, che trovo poco convincenti).
La riflessione disciplinare su questi temi resta incerta e divisa. L’orientamento largamente prevalente è positivo (ho tracciato un quadro in Palermo, 2022, par. 4.7). Non mancano alcune voci critiche che esprimono pregiudizi allarmati «against the Smart City» (Greenfield, 2013). I contributi più interessanti sono quelli che cercano di chiarire meglio le condizioni di sostenibilità e rilevanza dell’innovazione (Marvin et al. 2016; Karvonen et al., 2018). Federico Cugurullo (2021) ha voluto evocare un’immagine singolare – «Frankenstein urbanism» – per alludere metaforicamente ai rischi dell’innovazione tecnologica e alle responsabilità conseguenti della politica e della tecnica. Cautela, ironia e critica sembrano giustificate di fronte alle pretese dei tecnocrati o degli imprenditori del settore (indagate in alcune situazioni esemplari, come Masdar City e Hong Kong); l’alternativa (abbastanza ardua) sarebbe un maggiore controllo sociale sulle applicazioni della tecnologia. L’autore, peraltro, sembra guardare con una certa fiducia agli sviluppi futuri dell’Intelligenza Artificiale (Cugurullo, 2020; Cugurullo et al., 2024), che alle pratiche urbane potrebbe assicurare potenzialità operative inedite (l’idea guida di Ratti), fino a configurare una sorta di nuovo AI urbanism (ma le implicazioni sociali, etiche e cognitive dell’impatto delle innovazioni tecnologiche restano un tema marginale). Il quadro che emerge, a mio avviso, non può che confermare la radicale incompletezza delle tecniche. Il senso e le conseguenze reali sono largamente condizionati dal contesto, che è sociale, ma anche materiale. Un punto non mi pare in discussione. Questo filone di esperienze tende a divergere sostanzialmente dai temi del projet urbain (inclusa la rigenerazione urbana); in effetti, appartiene a un altro mondo. Il primato della città digitale finisce per cancellare la città fisica: un esito che la cultura urbanistica non dovrebbe accettare. Senza un’inversione di rotta, i discorsi attuali sulla Smart City hanno poco a che fare con l’urbanistica. Sarebbe un’illusione supporre di aver trovato un surrogato alle difficoltà endemiche della disciplina.
5. Variazioni di scala e di tema
La policy analysis da tempo ha scoperto che la scala è una variabile strategica per la concezione e comprensione dei processi di governo del territorio (Brenner, 2000 e 2019). All’apparenza, questa sensibilità sembra ancora mancare rispetto alle interpretazioni del progetto urbano. Infatti, la scala delle esperienze può variare in modo radicale: dall’intervento locale che si inserisce come tassello in un tessuto consolidato, ai «large scale development projects» che devono trasformare aree urbane complesse, in condizioni spesso critiche, e richiedono investimenti cospicui, competenze normative, alte capacità gestionali. È lecito sottovalutare le differenze fra questi campi d’azione? Christian Devillers sembra disposto a correre il rischio, candidandosi ad affrontare i problemi a qualunque scala (2003, p. 47 e 54). Probabilmente, come Bernardo Secchi negli anni 2000, tende a sopravvalutare il ruolo della visione e del disegno dell’architetto-urbanista rispetto a processi sociali-territoriali che presentano un alto grado di complessità. Nell’area disciplinare, però, si manifesta una chiara tendenza alla specializzazione dei temi: da tempo si sono moltiplicati i contributi sui cosiddetti megaprojects, che spesso fanno riferimento a contesti complicati come la metropoli o la megalopoli; un altro mondo rispetto ai progetti di quartiere tipici del new urbanism (nonostante le pretese di quel movimento di offrire contributi rilevanti a qualunque scala).
In effetti, non sembra possibile confondere un intervento limitato di infill urbano, che spesso può essere affrontato con gli strumenti tradizionali del progetto di architettura, con le esperienze dei progetti di quartieri o di urban redevelopment di sobborghi urbani; tanto meno con le grandi trasformazioni di aree strategiche a scala vasta. Dove incomparabile non è soltanto l’oggetto, ma anche il contesto dell’intervento: da una parte, un modello tradizionale di vita suburbana, dall’altra le prospettive incombenti e un po’ inquietanti della megacity. In contesti così diversi, il progetto urbano assume caratteri peculiari e solleva problemi distinti. Le differenze sono di natura tecnica, ma investono anche il senso politico dell’intervento. Possiamo riconoscere almeno due grandi filoni. Da un lato, si può trattare di grandi programmi di opere pubbliche, che hanno come scopo diretto l’infrastrutturazione del territorio, ma vengono a svolgere anche una funzione di leva ai fini dello sviluppo futuro dell’economia. Quei programmi hanno assunto un ruolo rilevante nelle stagioni della ricostruzione, dopo traumi gravi come le guerre mondiali o la grande crisi degli anni ‘30; in generale, rappresentano un punto di forza delle politiche economiche keynesiane. Altshuler e Luberoff (2003) hanno documentato come la fase più intensa di sviluppo, in quel senso, si sia verificata fra gli anni ‘50 e ‘60 nel mondo occidentale («the great megaprojects era»). Le ragioni del relativo declino, in seguito, sono state di due ordini. Ha pesato la minore capacità di investimenti pubblici, mentre si aggravava la crisi del welfare state; ma anche una vasta e attiva opposizione sociale, soprattutto fra i ‘60 e i ‘70, verso progetti di trasformazione che tendevano a colonizzare lo spazio e la società locale: come imposizioni dall’alto, dettate da ragioni funzionali o strumentali, senza una cura reale per la storia, il senso, la forma del territorio, i modi nei quali è abitato. Viene in mente la polemica, nel dopoguerra, fra Jane Jacobs e Robert Moses sul tema delle trasformazioni urbane di New York (Larson, 2013). È del tutto evidente che quella concezione dei megaprojects è incompatibile con i principi guida del projet urbain. Infatti, osservano Altshuler e Luberoff, il rilancio dei programmi di infrastrutturazione/trasformazione del territorio nel tardo ‘900 ha dovuto rispettare una più matura cultura della sostenibilità. O meglio, questa è la tendenza che si è manifestata nel mondo occidentale. Esperienze ‘dure’ di mega-trasformazione del territorio sono ancora oggi diffuse dove prevalgono regimi autocratici: per esempio, è disponibile una vasta documentazione sulle esperienze cinesi, sia nella madre patria, sia nei territori esterni che sono diventati meta di colonizzazione economica (Schindler et al., 2021; Jang, 2022).
Dove lo Stato non è più in grado di intervenire da solo, è il mercato che oggi rilancia programmi di megaprojects, in partnership con il pubblico o in autonomia, con l’assenso della pubblica autorità. È questo il secondo grande filone di esperienze emergenti, che in effetti rappresenta l’interpretazione più attuale del tema, come ha documentato Susan Fainstein, 2009. Il riferimento all’interesse pubblico diventa secondario o ambiguo. Si tratta generalmente di operazioni di valorizzazione fondiaria e immobiliare, apertamente orientate al profitto. Alla città (alla società urbana) di solito si promette qualche beneficio futuro in termini d’immagine e di impulso al cambiamento: quei progetti dovrebbero diventare «drivers of change» (Lecroart e Palisse, 2007; Salet e Gualini, 2007). Ha buon gioco la geografia critica a mettere in luce i punti deboli e i rischi della tendenza (Moulaert et al., 2001; Swyngedouw et al., 2002). Osservatori meno ideologicamente schierati (per esempio, Del Cerro, 2013) tendono a esprimere giudizi più cauti: iniziative del genere possono creare effetti perversi, ma anche nuove opportunità. Sarà decisiva la capacità pubblica di orientare i processi verso un esito riformista, ma anche la lungimiranza degli operatori privati, se disposti a non abusare della posizione dominante, evitando di creare troppi rischi per il mercato e per la società. In ogni caso, questa famiglia di esperienze è totalmente estranea al mondo del projet urbain. La distanza è radicale sul piano dei principi, perché si configura una sorta di «transnational urbanism» (Ponzini, 2020) che opera secondo modelli precostituiti (Bourdin e Idt, 2016), esito di processi di selezione competitiva; senza troppa cura per i valori e le esigenze del contesto. La distanza vale anche per le tecniche, poiché la realizzazione di megaprojects mette in gioco competenze raffinate – finanziarie, tecnologiche e gestionali (Flyvbjerg, 2003; Priemus et al., 2008) – che però hanno una funzione solo complementare nel campo specifico dei projets urbains, dove le questioni del locale, dello spazio, della forma del territorio assumono un peso determinante. Non vedo ragioni, dunque, per confondere tipi di pratiche che sono radicalmente differenti.
6 Architettura, ma non solo
L’insieme dei riferimenti che ho appena presentato mostra che la nozione polisemica di progetto urbano richiama aspirazioni e requisiti di segno diverso. Da un lato, attribuisce di nuovo un ruolo rilevante all’architetto, anche alla scala delle trasformazioni urbane; rimette in gioco, dunque, un’idea di «architettura della città». Nello stesso tempo, però, è chiara la consapevolezza che il projet urbain non si può ridurre a un progetto ordinario di architettura. Le situazioni che ho descritto negli ultimi due paragrafi sollevano problemi e questioni che trascendono le competenze e responsabilità tradizionali dell’architetto. Possiamo concludere che si apre uno spazio di opportunità per l’urbanistica, purché sia intesa come analisi e progettazione della città fisica? In realtà, l’ipotesi sembra chiara e convincente fino a quando lo scopo è criticare l’urbanistica burocratica, ancora fondata sulle nozioni di standard e di zoning. I limiti di quell’approccio sembrano evidenti; le critiche degli architetti-urbanisti sono ormai datate, impietose, giustificate. Più incerto diventa il discorso se il compito è sviluppare una concezione dell’urbanistica effettivamente più sensibile, in teoria e in pratica, ai temi della forma e del progetto urbano. Questa è la sfida che da tempo appare aperta, ma incompiuta.
Il giudizio sembra inconfutabile nel caso italiano, dove alcuni personaggi di spicco hanno saputo anticipare alcuni nodi critici del dibattito internazionale. Fin dagli anni ‘50, Giuseppe Samonà ha imposto all’attenzione temi fondamentali come l’«unità architettura-urbanistica», la dimensione storico-evolutiva dei processi di trasformazione urbana, l’orientamento progettuale – reputato indispensabile – della descrizione urbanistica (Infussi, 1992). Tuttavia, non ha risolto alcune ambiguità sulle relazioni fra piano e progetto: rilanciando, per esempio (nella riedizione del 1971 di L’urbanistica e l’avvenire della città), una concezione alquanto vaga e illusoria della «pianificazione comprensoriale», che in effetti non ha avuto sviluppi rilevanti. Inoltre, qualche perplessità sembra legittima se il «piano-programma per il centro storico di Palermo» (elaborato con Giancarlo De Carlo e altri, 1979-1982; materiali pubblicati nel 1994) deve essere inteso come uno dei contributi più maturi e sostenibili che la cultura degli architetti-urbanisti ha saputo offrire al governo delle trasformazioni urbane. Infatti, si è trattato soltanto di un complesso di raccomandazioni, predisposte da un gruppo di lavoro poco coeso, che ha sviluppato nel contesto le convinzioni prestabilite dei suoi leaders (Samonà e De Carlo, appunto); anche perché la pubblica amministrazione, nel caso in questione, è rimasta sostanzialmente assente, indifferente rispetto al corso del processo. Non solo le proposte programmatiche non hanno avuto seguito, ma qualche anno dopo la stessa amministrazione ha affidato un nuovo incarico ad altri consulenti (Benevolo, Cervellati e Insolera), che hanno adottato nel contesto quell’approccio tipologico che Samonà considerava insostenibile (Bonfantini, 2002): un esito della vicenda davvero beffardo.
La debolezza di una concezione meramente programmatica dell’urbanistica è stata confermata anche dalle esperienze autorevoli di Ludovico Quaroni. Negli anni ‘60, la sua visione della città fisica come articolazione di parti distinte, tessuti ed emergenze, e la sua interpretazione design-oriented della pratica urbanistica hanno rappresentato una svolta originale e potenzialmente feconda rispetto all’ortodossia disciplinare che dominava in quella fase (Quaroni, 1981). Altrettanto interessante è stata l’intuizione che parti differenti della città hanno bisogno di strumenti di intervento diversificati: sistemi di regole, nel caso di tessuti omogenei; progetti urbani nel caso di aree di trasformazione di interesse strategico (Quaroni, 1967). Più debole e vaga, però, è rimasta la formulazione tecnica del «piano-idea», come quadro di riferimento spaziale, con valenza strutturale e strategica, che dovrebbe anticipare la visione essenziale della città futura, come guida influente dell’intero processo. Lo stesso Quaroni si è impegnato tenacemente su quel tema, senza trovare soluzioni davvero convincenti. Né gli architetti che si ispirano al suo insegnamento sembrano avere compiuto dei progressi significativi rispetto alle sfide da tempo in agenda (Balbo, 1992): l’idea di progetto come possibilità evolutiva del contesto, le relazioni fra piano urbanistico e progetto di architettura, tra forme urbane e norme urbanistiche, tra forme fisiche e pratiche di vita. Non sono in discussione alcuni principi edificanti, ma la sperimentazione resta aperta. D’altra parte, altri filoni degli studi tipo-morfologici in Italia non hanno neppure provato a sviluppare teoricamente i nessi fra analisi e progettazione. Carlo Aymonino ha indagato le relazioni fra tipi edilizi e forme urbane; era ben consapevole, però, che si trattava soltanto di alcune dimensioni parziali del fenomeno urbano (1977); si rifiutava di trarre da quelle indagini conclusioni progettuali troppo generali e vincolanti (infatti, rimproverava a Saverio Muratori un approccio troppo deterministico, per la volontà di dedurre dall’analisi urbana alcuni elementi essenziali della progettazione). Mi resta qualche dubbio, però, sulla possibilità di cogliere il «significato della città» (Aymonino, 1975) solo tramite un’indagine della quale lo stesso autore riconosceva i limiti oggettivi. Qualche perplessità sembra giustificata anche verso la visione di Aldo Rossi, che ha avuto il merito di rilanciare il tema dell’«architettura della città», ma ha continuato a privilegiare la singolarità dei monumenti rispetto alle relazioni, più opache e controverse, fra luoghi eminenti e tessuti urbani ordinari (Rossi, 1966). Si tratta di problemi ben noti, che Giancarlo De Carlo ha trattato in modo esemplare in qualche caso speciale, dove le condizioni del contesto gli hanno consentito una sperimentazione libera e intensa (a Urbino come a Terni); tuttavia, egli non ha realmente cercato di costruire una teoria generale su vicende così delicate e contingenti. Resta dunque aperta una domanda (in Italia, come in Francia, ma non solo): come deve essere inteso il contributo effettivo dell’urbanistica a questa famiglia di problemi? Perché e in quale misura può essere considerato rilevante?
7 La banalità del metodo
Con l’entusiasmo dei neofiti, la prima via esplorata in Italia sul tema, alle soglie del secolo, è stata quella del «progetto urbano come metodo» (una documentazione esemplare si trova nel caso del piano di Roma: Campos, 2001). È importante notare che il contributo metodico non verteva propriamente sul disegno e sull’implementazione di buone trasformazioni urbane, ma innanzi tutto sulla concezione del processo: quali procedure era opportuno seguire; quali erano gli attori implicati, secondo fasi e ruoli specifici; quali i requisiti da rispettare per garantire un’integrazione e una governance efficace dell’intero processo. Il contributo si poteva ridurre a un insieme di raccomandazioni, che in qualche caso rispecchiavano il senso comune. La rilevanza si poteva misurare secondo due modalità principali: come capacità di orientare il progetto effettivo sulla base di un complesso specifico di regole o indirizzi preliminari; oppure di migliorare la comprensione dei problemi e delle possibilità di intervento tramite l’elaborazione di progetti esplorativi. Entrano in gioco, rispettivamente, l’idea di progetto-norma e la funzione cognitiva del progetto-guida. Le due prospettive potevano sembrare innovative e promettenti mezzo secolo fa. Sulla base delle esperienze, oggi le aspettative sono seriamente ridimensionate. L’anticipazione di un «form-based code» piuttosto dettagliato, con valore cogente, si è rivelata generalmente un azzardo, salvo il caso di progetti immobiliari circoscritti e maturi. La sola alternativa plausibile è limitarsi alla formulazione di linee guida meramente indicative, la cui rilevanza effettiva dipenderà dalle condizioni contingenti. L’idea di valersi di esplorazioni progettuali per comprendere meglio le criticità e le possibilità evolutive di un’area in trasformazione (ipotesi magistralmente concepita e interpretata da Giancarlo De Carlo) rischia di diventare un’istanza illuministica, troppo complicata e faticosa agli occhi della cultura contemporanea; in una fase nella quale sta risorgendo il mito dell’analisi induttiva. La tendenza ora in atto rinnega i principi più elementari del costruttivismo, come l’idea che qualunque rappresentazione empirica sia mediata da un complesso di presupposti, talvolta intenzionali, spesso taciti (cioè ereditati dal contesto). Questo non significa cadere nel relativismo (l’accusa che alcune fonti ortodosse hanno rivolto a Bruno Latour, per esempio), ma riconoscere che le rappresentazioni del reale con le quali ci misuriamo sono generalmente plurali perché almeno in parte costruite. Il nodo critico è fare chiarezza rispetto alle mediazioni più influenti e assumerne le responsabilità. L’ideologia oggi di moda, invece, è molto lontana da quella tradizione, che è stata una conquista, nel secondo ‘900, rispetto alle versioni più dogmatiche della cultura positivista. L’attualità segna il ritorno di una visione «assolutamente induttiva»: datemi una base cospicua di big data e la potenza di calcolo necessaria (oggi facilmente disponibile); sarò in grado di scoprire, con un metodo meramente induttivo, relazioni ed evidenze in grado di produrre conoscenza e orientare l’azione. Così potrebbe nascere quella «scienza delle città» da sempre (vanamente) agognata, e lo «smart urbanism» potrebbe mantenere le sue promesse. Nel par. 4, ho voluto ribadire il carattere semplicistico e illusorio di queste posizioni, che comunque rendono astratta e inattuale la concezione del progetto urbano come contributo cognitivo. Sull’altro fronte, la funzione normativa risulta sempre più debole: al limite, si tratta di mere raccomandazioni, affidate alla benevolenza dell’amministrazione e dell’opinione pubblica (con tutti i rischi che il caso del piano-programma di Palermo ha evidenziato). È solo questo l’esito dei discorsi ambiziosi sul metodo per progettare e realizzare interventi importanti di trasformazione urbana? La conclusione più significativa sembra essere una legittimazione della flessibilità e della contingenza. Non a caso l’idea di projet urbain riprende e generalizza una serie di esperimenti urbanistici in deroga (rispetto alla logica del piano tradizionale), portati a compimento in vari contesti: come le zones d’aménagement concerté (ZAC) in Francia; le urban development corporations (UDC) in Gran Bretagna, i programmi di recupero e riqualificazione urbana (PRU) in Italia. Il rapporto controverso fra principi di certezza e di flessibilità è la realtà da affrontare con spirito critico e capacità di proposta, invece di indugiare su qualche divagazione metodologica, che si rivela superflua o banale.
8. L’incompletezza dei modelli
Potremmo cercare di chiarire meglio il significato e i requisiti essenziali delle ‘buone’ trasformazioni urbane? Non manca una tradizione autorevole in questo senso, a partire dalla «theory of city form» elaborata da Kevin Lynch (1981), che segnala una curiosa anomalia. L’autore ha dedicato un capitolo intero alle buone ragioni che ci potrebbero indurre a dubitare della possibilità di costruire una teoria normativa di valenza generale (ivi, cap. 5), ma alla fine non ha rinunciato al tentativo di formulare una «grande teoria», disegnando un quadro di principi prestazionali che dovrebbero valere in ogni luogo e ogni tempo. La selezione, come sempre è accaduto nel lavoro di Lynch, era fondata su un’indagine empirica densa e originale, rispetto alla quale l’autore ha sviluppato un processo audace di astrazione. Non mi sembra interessante, in questa sede, discutere ancora una volta la completezza e adeguatezza della teoria (che come è noto si basa su sette principi: ««vitality, sense, fit, accessibility, control, justice, efficiency»). Vorrei solo osservare che la proposta non sfugge al paradosso evidenziato da Karl Popper: quanto più generale vuole essere un’ipotesi teorica, tanto meno accurata può essere l’argomentazione e più deboli risultano le deduzioni possibili (Pera, 1982). Il problema non è solo l’eventuale incompletezza della lista, ma la mancanza di una gerarchia fra i criteri (che verosimilmente emergerà in ogni contesto specifico); inoltre, nessuna indicazione è disponibile nel caso, plausibile, di tensioni locali fra principi diversi. Che cosa accade se la vitalità mette a rischio la coerenza, oppure se l’apertura all’esterno, grazie all’accessibilità, mette in discussione i significati più tradizionali? Su questi nodi la «grande teoria» tace; la pretesa di generalità preclude una riflessione significativa e questo è un limite oggettivo. Tuttavia, il modello configurato da Lynch è stato ampiamente ripreso e sviluppato nel corso del tempo. Negli ultimi decenni, i contributi si sono moltiplicati, con un’attenzione speciale per il tema dello spazio pubblico (Mehta e Palazzo, 2020; Mehta, 2023). Non è cambiato l’approccio e la varietà senza fine delle ipotesi oggi disponibili rischia di creare qualche effetto di disorientamento. La rappresentazione normativa dello spazio pubblico dovrebbe seguire il modello STAR (Varna, 2014), che assume cinque principi base («physical configuration, ownership, control, civility, animation»)? Oppure dobbiamo ritenere più fertile lo schema concettuale proposto da Ewing e Clemente (2013), già illustrato in Palermo (2023), che introduce i criteri di «imageability, enclosure, human scale, transparency, complexity, coherence, legibility, linkage»? In verità, le diverse proposte sono in sostanza equivalenti. Non rappresentano teorie distinte, mature e ben giustificate, bensì gli esiti provvisori di un lavoro di attention-shaping, che ha solo il merito di mettere a fuoco alcune dimensioni essenziali del problema; peraltro in termini solo preliminari, se è vero che manca qualunque riflessione sull’ordinamento lessicografico e sugli effetti mutui e collaterali dei criteri evidenziati. La mia conclusione è che questi lavori svolgono una funzione puramente istruttoria. Il contributo principale è la selezione di un pacchetto di issues che sembra impossibile ignorare. L’elaborazione, però, non rivela progressi significativi rispetto ad alcuni presupposti ormai consolidati: come la convinzione, largamente condivisa, che la pratica dell’urban design debba prendersi cura di questioni fondamentali di natura «morphological, perceptual, social, visual, functional» (il quadro concettuale adottato da Carmona e Tiesdell, 2007). Ribadire simili esigenze non è una grande scoperta. I tentativi di costruire un modello teorico generale e influente ci riportano, ancora una volta, alla sfera delle buone raccomandazioni. Non è un grande risultato.
9. Pratiche del progetto
«Il n’y a que des pratiques», ci ricorda Crosta, seguendo Foucault (Crosta, 2010). «There is no planning, only planning practices», conferma Ernst Alexander (2015), prendendo educatamente le distanze da un flusso inesauribile di chiacchiere teorico-metodologiche, che alla disciplina urbanistica, in verità, non hanno saputo assicurare nuova forza e legittimità. Questi giudizi sembrano pertinenti anche in relazione al tema del progetto urbano, data la debolezza o inconcludenza dei tentativi di definire/fondare il concetto, che ho rapidamente illustrato fino a questo punto. Quali conclusioni dovremmo trarre da tali prese di posizione? Sarebbe un errore supporre che all’urbanista non resti che prendere atto del corso degli eventi, riducendo il suo compito a qualche aggiustamento in progress, nei limiti del possibile (secondo l’interpretazione più riduttiva della tendenza emergente dell’everyday urbanism: Palermo, 2025, cap. 9). L’influenza oggettiva delle pratiche effettive non può diventare un alibi rispetto alle responsabilità disciplinari; non può giustificare l’elogio della pura contingenza (tutto va bene, purché qualcosa accada?); tanto meno la rassegnazione a un perenne «muddling through» (nel senso di Lindblom, 1959 e 1979) come l’unica forma di razionalità possibile nel contesto. Il punto essenziale è che la disciplina urbanistica dovrebbe prendere atto che una mutazione sostanziale ormai è compiuta. Il progetto moderno era fondato su principi esigenti di regolazione e controllo. Il corso delle esperienze ha dimostrato il primato inesorabile del tactical urbanism: flessibile, adattativo, transitorio. La svolta è radicale e rende vana qualunque nostalgia per il passato; perciò richiede giustificazioni e prese di responsabilità. L’attenzione per le everyday practices non significa soltanto riconoscere che senso e qualità di un progetto urbano matureranno nel corso del tempo, tramite le prove dell’esperienza. Dovrebbe indurre anche a ripensare i principi che guidano la conoscenza e l’azione disciplinare.
La cultura urbanistica ha sempre fatto fatica a convivere con le tradizioni del pragmatismo e della ragion pratica (Palermo, 2022, par. 9.2). Forse non le ha realmente comprese; certamente le ha sottovalutate, mentre inseguiva altre suggestioni: la norma, la scienza, il disegno d’autore. Riconoscere l’importanza delle pratiche del progetto significa essere disposti a rivedere alcune premesse concettuali. Nei testi migliori dedicati alla planning theory, lo spazio riservato alle tradizioni del pragmatismo è esiguo e marginale. Philip Allmendinger (2017) dedica un capitolo al tema, come ricognizione esauriente dell’impatto dei principi fondamentali e delle figure guida di quell’area culturale sul mondo del planning (cap. 6). Tuttavia, il suo scopo primario è discutere le tendenze, i problemi, le possibilità del post-modern planning (capp. 8 e 10). A tal fine chiama in causa diversi movimenti disciplinari di interesse emergente (le correnti radicali, il post-strutturalismo, le teorie della complessità). Nel quadro che si delinea non vi è traccia di riferimenti alle questioni del pragmatismo, e questa forse è un’occasione mancata. Robert Beauregard (2020) riconosce una dimensione pragmatica nei principali compiti del planning («knowing, engaging, prescribing, executing»), ma non considera il pragmatismo come una tradizione influente sul pensiero e sull’azione disciplinare; tanto meno come il quadro di riferimento da privilegiare. L’interesse verso il pragmatismo critico da parte di Charles Hoch (1984) o John Forester (1993) ha rapidamente perduto la tensione originaria verso il cambiamento e l’emancipazione, per diventare uno stile professionale che tende a rispondere a criteri di funzionalità e di efficacia. Solo nel 2009 Patsy Healey ha affrontato esplicitamente il tema, ma la sua interpretazione risulta ambigua o fuorviante. Infatti, l’autrice tende a riconoscere tracce di pragmatismo in concezioni del planning che sono incommensurabili o antitetiche: le scuole di «rational planning», la «systems view», i tentativi di fondazione scientifica à la Faludi, ma anche l’incremementalismo di Charles Lindblom o le teorie critiche che si ispiravano al pensiero di Habermas o di Foucault! Se tutto è pragmatismo (Greeve e Frisina, 2006), non si capisce più quale sia il contributo peculiare.
Io ritengo, invece (Palermo, 2022, par. 9.2), che le linee di influenza, in questo campo, siano specifiche e rilevanti (ma incompatibili con alcuni riferimenti suggeriti da Healey): un’idea urbanistica di conoscenza e azione che è necessariamente sperimentale, interattiva, co-evolutiva; la funzione cognitiva del progetto e dell’azione, ma anche l’orientamento progettuale dell’indagine; le possibilità di apprendimento e progresso grazie all’esperienza; le responsabilità individuali di scelta e azione fra le possibilità offerte dal contesto; la cura degli effetti emergenti dalle interazioni fra attori e sistema; la costruzione interattiva e sperimentale di un incrementalismo (inevitabile, ma) «non disgiunto». Questi sono principi che la pratica dell’urbanistica induce a considerare fondamentali. Non sono così rilevanti secondo le interpretazioni della disciplina come sistema di regole, progetto scientifico o disegno d’autore. Peculiare risulta anche l’idea di razionalità. La sfida principale non riguarda l’applicazione rigorosa delle regole, la capacità di calcolo strumentale o la generazione di una forma esemplare; bensì la possibilità di individuare una via d’uscita e di conquistare un consenso ponderato rispetto a un «wicked problem», che non può essere affrontato secondo le tecniche e le modalità ordinarie. Molti problemi urbanistici assumono questi caratteri emergenti e sembrano richiedere capacità ed esercizio di phronesis. Bent Flyvbjerg ha sollevato la questione da tempo (Flyvbjerg, 2004; et al., 2012), ma il discorso in seguito ha perso vigore e interesse (come tante altre divagazioni teoriche, rimaste senza esito e senza rilievo). Io ritengo invece che cultura pragmatica e ragion pratica debbano essere considerate come presupposti essenziali per un’azione urbanistica socialmente rilevante (progetto urbano incluso). Anche se la cultura disciplinare sembra ancora incerta o riluttante di fronte a questa ipotesi.
10. La questione del politico e il progetto urbano
Scarso è lo spazio per il «politico» nei discorsi attuali sull’urbanistica e sul progetto urbano. Le situazioni più comuni sono due e presentano caratteri estremi, su fronti opposti. Da un lato, ricorre la narrazione edificante della politique de la ville: la città si muoverebbe come un attore collettivo; sarebbe in grado di elaborare e condividere una visione strategica dello sviluppo futuro, da realizzare in modo coerente, passo dopo passo, progetto per progetto. È evidente che questo scenario, in realtà, non implica alcun contenuto politico, anzi rappresenta una negazione della politica: gli interessi di parte e le tensioni che ne potrebbero seguire sono annullati entro un presunto quadro consensuale, che rappresenta un pregiudizio privo di verifiche concrete. È difficile spiegare (e giustificare) la diffusione e l’entusiasmo crescente che questa narrazione ideologica ha suscitato, intorno al cambio di secolo, anche negli ambienti dell’urbanistica: come tentativo di restituire un senso e uno sbocco riformista agli interessi di parte che emergevano nella città neoliberista. Quella fase ci ha lasciato un cumulo di chiacchiere, ripetitive e superficiali, ma pochi fatti di qualche rilievo. Oggi l’interesse per i piani strategici ha perso credito agli occhi della politica e dell’opinione pubblica. Paradossalmente, sono alcuni developers che sembrano voler riproporre alla città una visione strategica, ma è abbastanza chiaro che in molti casi si tratta di una mossa retorica, che tende a favorire qualche interesse privato. Nello stesso tempo, la cultura urbanistica è alle prese con un problema che non è facile risolvere: come interpretare dignitosamente l’ultima versione della strumentazione disciplinare, che ora tende ad assumere un orientamento strategico, ma risulta molto più debole rispetto ai modelli canonici.
A un altro estremo, il «politico» riemerge nelle situazioni, in verità piuttosto rare, nelle quali le trasformazioni territoriali mobilitano un movimento insorgente. La città è concepita come matrice potenziale della resistenza e delle reazioni sociali alle strategie e tensioni della società neo-liberista. È l’ipotesi di Henry Lefebvre: «la rivoluzione sarà urbana» (1970). Sulla stessa linea si è mosso David Harvey, quando ha evocato l’immagine della «rebel city» (2012). In seguito, la posizione è stata ribadita da Eric Swyngedouw (2014, 2018) e da qualche altro esponente della geografia critica. Questo orientamento comporta due rischi. Il primo è sopravvalutare la portata di movimenti locali e conflitti contingenti, che sono destinati ad esaurirsi in tempi neppure lunghi, senza avere prodotto trasformazioni rilevanti (l’errore è stato commesso, ancora una volta, rispetto ai movimenti urbani che si sono manifestati, in vari contesti, nel primo decennio del secolo). Il secondo rischio forse è più grave: questa concezione antagonista del politico (Mouffe, 2013) potrebbe distogliere l’attenzione dalle dimensioni politiche ordinarie che normalmente incidono sui processi di trasformazione urbana. Il rischio, cioè, è di esaltare un insieme di situazioni idealizzate che risulta quasi vuoto; ignorando invece i problemi che affliggono la maggior parte dei processi reali. Eppure esiste da tempo una solida tradizione di studi di urban politics che hanno messo a fuoco alcuni problemi cruciali: la rappresentazione della città come growth machine (che ho già richiamato); il ruolo dell’urban regime come struttura di potere che, di fatto, «decide la città» (Fainstein, 1995; Lauria, 1997; Stoker e Mossberger, 2001); gli intrecci fra pubblico e privato nella produzione e gestione dello sviluppo urbano; gli effetti del mercato e delle politiche sulle condizioni sociali di disuguaglianza e di solidarietà. Tutti questi sono temi che appartengono alla sfera del «politico». È sorprendente la scarsa attenzione che sembrano suscitare in questa fase nel mondo dell’urbanistica (non solo in Italia).
Ebbene, io non credo che sia possibile discutere di progetto urbano ignorando questo complesso di questioni. Rischiamo di dover rimpiangere analisi un po’ rozze che in passato hanno avuto un certo successo: come le indagini SWOT sui punti di forza o di debolezza di un nuovo progetto (Medeiros, 2020); oppure il «balance sheet of development» messo a punto da un professionista come Nathan Lichfield (et al., 1975; 1996), che almeno tentava di valutare l’impatto potenziale del progetto in elaborazione rispetto a diversi obiettivi, attori e ambiti di intervento (un’esperienza che Gigi Mazza ha voluto replicare in Italia, 2002). Intendo dire che lo sviluppo di un progetto urbano, oggi, in molti casi non è neppure accompagnato da verifiche così elementari: come se fosse sufficiente l’auto-giustificazione o la narrazione fantasiosa dei promotori. Il «ritorno del politico» non allude soltanto a qualche grande trasformazione sociale (presunta o attesa: Mouffe, 1993), ma dovrebbe comportare almeno una verifica essenziale dell’impatto di un nuovo progetto sulla varietà degli interessi implicati. Questa è una premessa necessaria per poter ragionare sulla natura politica del progetto: impegno che solo pochi autori sembrano voler assumere come una priorità (per esempio, Magnaghi, 2000 e 2020; Trapitzine, 2018).
11. Fra retoriche e pratiche: requisiti minimi
Potremmo concludere che le pratiche contano nel campo del progetto urbano, ma il peso delle retoriche resta molto (troppo) influente. Non vi è dubbio: uno spazio per la retorica deve essere considerato legittimo. Barbara Czarniawska (2004) ha dimostrato che la narrazione può svolgere una funzione ausiliaria importante per lo sviluppo delle scienze sociali. Fin dagli anni ‘80, Bernardo Secchi (1984) ha messo in luce le funzioni specifiche del «racconto urbanistico». Pochi anni dopo, Fischer e Forester (1993) hanno segnalato l’urgenza disciplinare di un «argomentative turn», per assicurare argomenti più solidi e convincenti alle scelte sociali e urbanistiche. Quell’impegno (che Fischer ha ribadito con forza a distanza di anni: 2007, con Gottweis) avrebbe dovuto favorire comunicazioni non distorte e intese cooperative, aprendo la via verso nuovi successi disciplinari (la convinzione, la speranza sempre coltivate da Patsy Healey e Judith Innes). In tutti questi casi, l’appello alla retorica è stato ispirato da valori e finalità sostanziali, con l’ambizione di ricreare nessi fertili con una pratica rinnovata. Negli ultimi decenni lo scenario è sensibilmente mutato, come ho cercato di documentare. La nuova attenzione per le pratiche non ha portato a una revisione dei principi (oggettivamente necessaria), ma in molti casi a un ridimensionamento delle ambizioni e responsabilità disciplinari. L’urbanistica prende atto dei processi emergenti; li accompagna, li legittima, ma non sempre (o raramente) sembra in grado di svolgere un ruolo influente di guida pubblica, tanto meno di controllo: sono queste le tendenze più comuni dell’everyday urbanism. Nello stesso tempo, le retoriche urbane diventano sempre più invadenti e auto-referenziali: è il caso della neo-lingua dell’urban development che rispecchia gli interessi del mercato. Oppure cresce un realismo rassegnato o provocatorio, come i riferimenti al junkspace e alla città generica da parte di Rem Koolhaas che, nel solco della tradizione cinica, ama sconvolgere il sentire comune (anche se Biraghi, 2024, non condivide questo giudizio). Fra celebrazioni o dissacrazioni, comunque, l’argomentazione pubblica si rivela sempre più debole o inerte: è difficile negare la banalità, la marginalità dei discorsi da tempo abbozzati sul progetto urbano come metodo, come quadro di riferimento e di indirizzo, come programma strategico. La ricerca di ulteriori raccomandazioni sul tema non può rappresentare una prospettiva confortante, se l’argomentazione continua a rimanere così generica o vaga. D’altra parte, sarebbe forse il caso di ammettere che le teorie normative à la Lynch rappresentano un esercizio male impostato e senza sbocchi significativi. Se questo è il quadro, non resta che impegnarsi, caso per caso, nelle situazioni concrete?
Io penso che potrebbe essere utile un richiamo ad alcuni requisiti imprescindibili delle esperienze di progettazione. Non una teoria normativa (che resta una meta incompiuta), ma neppure soltanto un elenco di raccomandazioni quasi ovvie, come l’invito di Carmona e Tiesdell a prendersi cura delle dimensioni morfologiche, percettive, ecc. (2007, opera già citata). Forse è possibile individuare un insieme selettivo di impegni prioritari per qualunque progetto urbano degno di considerazione: come temi e responsabilità da affrontare inderogabilmente, destinati a orientare, anzi a condizionare qualunque esperienza di progettazione di reale interesse. Ho in mente quattro grandi questioni. La prima è il progetto di suolo. Ha ragione il landscape urbanism, ha ragione Bernardo Secchi. Non è possibile intendere un progetto urbano come un insieme (talvolta un’accozzaglia) di interventi edilizi disseminati arbitrariamente nello spazio. Il disegno e la cura degli spazi aperti non è un dato residuale, ma un presupposto determinante. Che peraltro è indecorosamente ignorato da molte esperienze attuali (come testimoniano, in negativo, alcune trasformazioni recenti di Milano). Il secondo tema è il paesaggio urbano. Nessuna nostalgia formalistica o estetizzante, ma la scarsa cura per le relazioni fra progetti di sviluppo e caratteri storico-morfologici del contesto può destare imbarazzo e rimpianti. Commentando il caso City Life a Milano, qualcuno ha evocato l’immagine della ‘nave da crociera nel Canal Grande’. Trovo incredibile che la cultura architettonica e urbanistica resti indifferente e inerte rispetto a tale deriva (nonostante le buone intenzioni del landscape urbanism). Eppure sarebbe sufficiente un po’ di cura e di responsabilità rispetto al tema per assicurare risultati progettuali meno dissonanti. La terza grande questione è la sostenibilità. Un tema ormai datato, non più innovativo, non abbastanza ambizioso («sustainability is not enough», proclamava Peter Marcuse, 1998)? Destinato a cadere nell’ombra rispetto agli sviluppi fascinosi di smart urbanism e intelligenza artificiale (par. 4)? Io sostengo invece (Palermo, 2022, par. 4.7) che questa resta la sfida cruciale. Le questioni decisive sono il modo in cui viene concretamente interpretato il compromesso (inevitabile) fra istanze potenzialmente contradditorie, come lo sviluppo economico, la tutela ambientale, l’equità sociale; ma anche il modo in cui sono distribuiti i costi sociali (inevitabili) dell’auspicata transizione ecologica. Nella neo-lingua dell’urban development i riferimenti alla sostenibilità sono un profluvio di promesse e suggestioni, con una base per lo più tecnologica; io preferirei un po’ di chiarezza sugli impegni socialmente rilevanti. Il quarto e ultimo tema concerne la sfera degli effetti collaterali: un insieme di questioni che oggi sono ampiamente ignorate, per insensibilità o grave imbarazzo (mentre dovremmo ricordare che Baumol e Oates, 1975, intendevano il tema della sostenibilità ambientale proprio come la ricerca e cura delle «esternalità» di una politica o un progetto). La questione è semplice e grave: ogni progetto urbano di qualche rilievo produce effetti sensibili (non sempre intenzionali, ma anche indiretti e non previsti) sull’organizzazione, le funzioni, i comportamenti urbani. Possiamo ignorare totalmente tali conseguenze? Questo è ciò che accade, nella maggior parte delle esperienze. Non basta il ricorso, ex post, a qualche procedura standard (come l’analisi d’impatto ambientale o strumenti affini), che paradossalmente rischia di perdere forza ed efficacia proprio perché è stata istituzionalizzata e viene applicata in modo burocratico. L’attenzione per gli effetti collaterali dovrebbe essere un principio guida che accompagna tutto lo sviluppo del progetto. In pratica, questa sembra essere una vana esortazione, largamente estranea alla cultura attuale della disciplina e della professione, ma anche al senso comune. Tuttavia, io continuo a essere convinto dell’importanza decisiva di questi temi. Progetto di suolo, paesaggio, sostenibilità, esternalità: se un progetto urbano accetta queste sfide, crescono le possibilità di ottenere risultati più confortanti. La cura di questi requisiti mi sembra la raccomandazione più concreta e influente che la riflessione intellettuale può suggerire.
Riferimenti bibliografici
Adams D., Tiesdell S. (2013), Shaping Places. Urban Planning, Design and Development, Routledge, London-New York
Alexander E. R. (1996), ‘After Rationality: Towards a Contingency Theory for Planning’, in Mandelbaum, S. J., Mazza, L., Burchell, R. W. (eds) Explorations in Planning Theory, The State University of New Jersey, Rutgers, New Brunswick
Alexander E. R. (2015), ‘There Is No Planning, Only Planning Practices. Notes for Planning Theories’, Planning Theory, 14 (1), 1-13
Allmendinger P. (2017), Planning Theory, Basingstoke: Palgrave Macmillan (1st edition, 2002)
Altshuler A., Luberoff D. F. (2003), Mega-Projects. The Changing Politics of Urban Public Investment, The Brookings Institution, Washington D. C.
Ascher F. (2001), Les nouveaux principes de l’urbanisme, Éditions de l’Aube, La Tour-d’Aigues:
Aymonino C. (1975), Il significato della città, Marsilio, Padova
Aymonino C. (1977), Lo studio dei fenomeni urbani, Officina, Roma
Backouche I. (2016), Aménager la ville, Armand Colin, Paris
Balbo P. P. (1992), Il progetto urbano, Gangemi, Roma
Batty M. (2005), Cities and Complexity, The MIT Press, Cambridge Mass.
Batty, M. (2013) The New Science of Cities, Cambridge Mass.: The MIT Press, Cambridge Mass.
Batty, M. (2024) The Computable City. Histories, Technologies, Stories, Predictions, The MIT Press, Cambridge Mass.
Baumol W. J., Oates W. E. (1988), The Theory of Environmental Policy, Cambridge University Press, Cambridge (1st edition, 1975)
Beatley T. (1995), ‘Planning and Sustainability. The Elements of a New (Improved) Paradigm’, Journal of Planning Literature, 9 (4), 383-395
Beauregard R. A. (2020), Advanced Introduction to Planning Theory, Edward Elgar, Cheltenham
Biraghi M. (2024), Rem Koolhaas. L’architettura al di là del bene e del male, Einaudi, Torino
Bonfantini B. (2002), Progetto urbanistico e città esistente. Gli strumenti discreti della regolazione, Clup, Milano
Bourdin A. (2010), L’urbanisme de l’après-crise, Éditions de l’Aube, La Tour-d’Aigues
Bourdin A., Idt J. (2016), L’urbanisme des modèles, Éditions de l’Aube, La Tour-d’Aigues
Brenner N. (2000), ‘The Urban Question as a Scale Question’, International Journal of Urban and Regional Research, 24 (2), 361-378
Brenner N. (2019), New Urban Spaces. Urban Theory and the Scale Question, Oxford University Press, Oxford
Campos Venuti G. (a cura di) (2001), ‘Il nuovo piano di Roma’, Urbanistica, 116, 41-211
Carmona M. (ed.) (2014), Explorations in Urban Design. An Urban Design Research Primer, Routledge, London-New York
Carmona M., Tiesdell S. (eds) (2007), Urban Design Reader, Architectural Press, Oxford
Carriere M. H., Schalliol D. (2021), The City Creative. The Rise of Urban Place-making in Contemporary America, University of Chicago Press, Chicago-London
Ceccarelli P. (1983), ‘Dopo l’ideologia del planning’, Casabella, 487-488, 68-71
Chaline C. (1997), Les politiques de la ville, Presses Universitaires de France, Paris
Chaline C. (1999), La régénération urbaine, Presses Universitaires de France, Paris
Colantonio A., Dixon T. (2011), Urban Regeneration and Social Sustainability. Best Practice from European Cities, Wiley-Blackwell, Oxford
Couch C. (1990), Urban Renewal. Theory and Practice, MacMillan, Basingstoke
Couch C., Fraser C., Percy S. (eds) (2003) Urban Regeneration in Europe, Blackwell, Oxford
Crosta P. L. (2010), Pratiche. Il territorio ‘è l’uso che se ne fa’, FrancoAngeli, Milano
Cugurullo F. (2020), ‘Urban Artificial Intelligence. From Automation to Autonomy in the Smart City’, Frontiers in Sustainable Cities, 2, 38
Cugurullo F. (2021), Frankenstein Urbanism. Eco, Smart and Autonomous Cities, Artificial Intelligence and the End of the City, Routledge, London-New York
Cugurullo F., Caprotti F., Cook M., Karvonen A., McGuirk P., Marvin S. (eds) (2024), Artificial Intelligence and the City. Urbanistic Perspectives on AI, Routledge, London-New York
Czarniawska B. (2004), Narratives in Social Science Research, SAGE, London
De Carlo G., Doglio C., Mariani R., Samonà A. (1976), Le radici malate dell’urbanistica italiana, Moizzi, Milano
Del Cerro S. G. (ed.) (2013), Urban Megaprojects. A Worldwide View, Emerald, Bingley
Desjardins X. (2020), Planification urbaine. La ville en devenir, Armand Colin, Paris
Devillers C. (1994), Le projet urbain, Pavillon de l’Arsenal, Paris
Devillers C. (2003), ‘Il progetto urbano’, Rassegna di architettura e urbanistica, 110-111, 43-54
Dovey K. (2020), ‘Urban Design as a Contested Field’, Journal of Urban Design, 25 (1), 14-16
Dupuis, G. (2002) ‘Le projet urbain: dernier atavar de l’urbanisme’, Annales de Géographie, 623, 98
Ewing R., Clemente O. (2013), Measuring Urban Design, Island Press, Washington DC
Fainstein S. S. (1995), ‘Politics, Economics, and Planning: Why Urban Regimes Matter’, Planning Theory, 14 (1), 34-43
Fainstein S. S. (2009), ‘Megaprojects in Global Cities: New York, London, and Amsterdam’, International Journal of Urban and Regional Research, 33 (4), 768-785
Fainstein S. S. (2010), The Just City, Cornell University Press, Ithaca
Falini P. (a cura di) (2003), ‘Progetto urbano in Francia’, Rassegna di architettura e urbanistica, 110-111, 7-148
Fincher R., Pardy M., Shaw K. (2016), ‘Place-making or Place-masking. The Everyday Political Economy of Making Place’, Planning Theory&Practice, 17 (4), 1-21
Fischer F., Forester J. (eds) (1993), The Argumentative Turn in Policy Analysis and Planning, Duke University Press, Durham
Fischer F., Gottweis H. (eds) (2007), The Argumentative Turn Revisited: Public Policy as Communicative Practice, Duke University Press, Durham
Flyvbjerg B. (2003), Megaprojects and Risk. An Anatomy of Ambition, Cambridge University Press, Cambridge
Flyvbjerg B. (2004), ‘Phronetic Planning Research’, Planning Theory&Practice, 5 (3), 283-306
Flyvbjerg B., Landman T., Schram S. (eds) (2012), Real Social Science. Applied Phronesis, Cambridge University Press, Cambridge
Forester J. (1993), Critical Theory, Public Policy, and Planning Practice: Toward a Critical Pragmatism, University of New York Press, Albany
Gaeta L. (2024), Il primo libro di urbanistica, Einaudi, Torino
Gale D. (2021), The Misunderstood History of Gentrification. People, Planning, Preservation, and Urban Renewal (1915-2020), Temple University Press, Philadelphia
Gasparrini C. (a cura di) (1999), Il progetto urbano: una frontiera ambigua fra urbanistica e architettura, Liguori, Napoli
Gaudin J. P. (1993), Les nouvelles politiques urbaines, Presses Universitaires de France, Paris
Gaudin J. P. (1999), Gouverner par contrat. L’action publique en question, Presses de Sciences Po, Paris.
Greeve Davaney S., Frisina W. G. (eds) (2006), The Pragmatic Century. Conversations with R. Bernstein, State University of New York Press, New York
Greenfield A. (2013), Against the Smart City, Do Projects Publisher, New York
Haas T., Locke R. (2018), ‘The Reurbanism Paradigm. Rewieving the Urban Fabric for Urban Regeneration and Renewal’, Quaestiones Geographicae, 37 (4), 5-21
Halpern O., Mitchell R. (2022), The Smartness Mandate, The MIT Press, Cambridge Mass.
Harvey D. (2012), Rebel Cities: From the Rights to the City to the Urban Revolution, Verso, London-New York
Healey P. (2002), ‘On Creating the City as a Collective Resource”’, Urban Studies, 39 (10), 1777-1792
Healey P. (2009), ‘The Pragmatic Tradition in Planning Thought’, Journal of Planning Education and Research, 28 (3), 277-292
Hoch C. J. (1984), ‘Pragmatism, Planning and Power’, Journal of Planning Education and Research, 4 (2), 86-95
Hood C. (1983), The Tools of Government, Macmillan, London
Horita M., Koizumi H. (eds) (2009), Innovations in Collaborative Urban Regeneration, Springer, Tokyo
Infussi F. (1992), ‘Giuseppe Samonà. Una cultura per conciliare tradizione e innovazione’, in Di Biagi, P., Gabellini, P. (a cura di) Urbanisti italiani, Laterza, Roma-Bari, 153-254
Ingallina P. (2001), Le projet urbain, Presses Universitaires de France, Paris
Jang Y. (2022), Mega Urban Projects in China, Springer, Singapore
Jepson E. J. (2001), ‘Sustainability and Planning. Diverse Concepts and Close Associations’, Journal of Planning Literature, 15 (4), 499-510
Jonas A. G., Wilson D. (eds) (1999), The Urban Growth Machine: Critical Perspectives Two Decades Later, State University of New York, Albany
Jones P., Evans J. (2008), Urban Regeneration in the UK, SAGE, London
Karrer F., Moscato M., Ricci M., Segnalini O. (1998), Il rinnovo urbano. Programmi integrati di riqualificazione e recupero urbano. Valutazioni e prospettive, Carocci, Roma
Karvonen A., Cugurullo F., Caprotti F. (eds) (2018), Inside Smart Cities. Place, Politics, and Urban Innovation, Routledge, London-New York
Kinsella C. (2021), Urban Regeneration and Neoliberalism. The New Liverpool Home, Routledge, London-New York
Krieger A., Saunders W. S. (eds) (2009), Urban Design, University of Minnesota Press, Minneapolis
Laguerre M. S. (2006), The Digital City. The American Metropolis and Information Technology, Palgrave Macmillan, Basingstoke
Landry C. (2000), The Creative City. Tools for Urban Innovation, Earthscan, London
Lanzani A. (2024), Rigenerazione urbana e territoriale al plurale. Itinerari in un campo sfocato, FrancoAngeli, Milano
Larson S. (2013), ‘Building Like Moses with Jacobs in Mind’. Contemporary Planning in New York City, Temple University Press, Philadelphia
Lascoumes P., Le Galès P. (éds) (2004), Gouverner par les instruments, Presses de Sciences Po, Paris
Lauria M. (ed.) (1997), Reconstructing Urban Regime Theory. Regulating Urban Politics in a Global Economy, SAGE, London
Leary M. E., McCarthy J. (eds) (2013), The Routledge Companion to Urban Regeneration, Routledge, London-New York
Le Galès P. (2002), European Cities: Social Conflicts and Governance, Oxford University Press, Oxford
Lecroart P., Palisse J. P. (eds) (2007), Large-scale Urban Development Projects in Europe. Drivers of Change in City-Regions, Cahiers de l’Institut d’Aménagement e d’Urbanisme de la Région de l’Ile de France, 109
Lefebvre H. (1970), La révolution urbaine, Gallimard, Paris
Lefèvre C., Pinson G. (2020), Pouvoirs urbains, Armand Colin, Paris
Lichfield N. (1996), Community Impact Evaluation, UCL Press, London
Lichfield N., Kettle P., Whitbread M. (1975), Evaluation in the Planning Process, Pergamon Press, Oxford
Lindblom C. E. (1959), ‘The Science of Muddling Through’, Public Administration Review, 19 (2), 79-88
Lindblom C. E. (1979), ‘Still Muddling, Not Yet Through’, Public Administration Review, 39 (6), 517-526
Lynch K. (1960), The Image of the City, The MIT Press, Cambridge Mass.
Lynch K. (1981), A Theory of Good City Form, The MIT Press, Cambridge Mass.
McCarthy J. (2007), Partnership, Collaborative Planning and Urban Regeneration, Ashgate, Aldershot
Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino
Magnaghi A. (2020), Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino
Mancebo F. (2008), Développement durable, Armand Colin, Paris
Manzini E. (2022), Livable Proximity. Ideas for the City that Cares, Bocconi University Press, Milano
Marcuse P. (1998), ‘Sustainability is not enough’, Environment and Urbanization, 10 (2), 103-111
Marvin S., Luque-Ayala A., McFarlane C. (eds) (2016), Smart Urbanism: Utopian Vision or False Dawn?, Routledge, London-New York
Masboungi A. (éd.) (2002), Projets urbains en France, Èditions Le Moniteur, Paris
Masboungi A. (éd.) (2012), Projets urbains durables: Stratégies, Èditions Le Moniteur, Paris
Matthews P., O’Brien D. (eds) (2016), After Urban Regeneration. Communities, Policy, and Place, Polity Press, Bristol
Mazza L. (a cura di) (2002), Esercizi di piano. L’area industriale Cogne ad Aosta, FrancoAngeli, Milano
Mazza L. (2004), ‘Difficoltà della pianificazione strategica’, in Piano, progetti, strategie, FrancoAngeli, Milano, 7-17
Medeiros E. (ed.) (2020), Territorial Impact Assessment, Springer, Cham, Switzerland
Mehta V. (2023), Public Space, Routledge, London-New York
Mehta V., Palazzo D. (eds) (2020) Companion to Public Space, Routledge, London-New York
Merlin P. (1991), L’urbanisme, Presses Universitaires de France, Paris
Mintzberg H. (1994), The Fall and Rise of Strategic Planning, Simon&Schuster, New York
Molotch H. (1976), ‘The City as a Growth Machine: Toward a Political Economy of Place’, American Journal of Sociology, 75 (2), 226-238
Moreno C. (2020), Droit de cité. De la ‘ville-monde’ à la ‘ville du quart d’heure’, Éditions de L’Observatoire, Paris
Mouffe C. (1993), The Return of the Political, Verso, London-New York
Mouffe C. (2013), Agonistics. Thinking the World Politically, Verso: London-New York
Moulaert F., Swyngedouw E., Rodriguez A. (2001), ‘Large Scale Urban Development Projects and Local Governance. From Democratic Urban Planning to Besieged Local Governance’, Geographische Zeitschrift, 89 (2-3), 71-84
Mould O. (2015), Urban Subversion and the Creative City, Routledge, London-New York
Novarina G. (éd.) (2003), Plan et projet: L’urbanisme en France et en Italie, Anthropos, Paris
Novarina G. (2023), Histoire de l’urbanisme de la Renaissance à nos jours, Éditions Le Moniteur, Paris
Offenhuber D., Ratti C. (eds) (2014), Decoding the City. How Big Data Can Change Urbanism, Birkäuser, Basel
Palermo P. C. (2004), Trasformazioni e governo del territorio. Introduzione critica, FrancoAngeli, Milano
Palermo P. C. (2009), I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo, Donzelli, Roma
Palermo P. C. (2017), ‘Urbanistica del progetto urbano’, EcoWebTown, 15, 21-43
Palermo P. C. (2022), Il futuro dell’urbanistica post-riformista, Carocci, Roma
Palermo P. C. (2023), ‘Fra planning e design: tensioni, contaminazioni, esiti’, EcoWebTown, 28, 4-39
Palermo P. C. (2025), Le radici e le frontiere. Figure e culture dell’urbanistica contemporanea, Planum Publisher, Milano (in pubblicazione)
Panerai P., Depaule J. C., Demorgon M. (1999) Analyse urbaine, Èditions Parenthèses, Marseille
Panerai P., Mangin D. (1999), Projet urbain, Èditions Parenthèses, Marseille
Pera M. (1982), Apologia del metodo, Laterza, Roma-Bari
Pierson J., Smith J. (eds.) (2001), Rebuilding Community. Urban Regeneration, Palgrave, Basingstoke
Picon A., Ratti C. (2023), Atlas of the Senseable City, Yale University Press, New Haven
Pinson G. (2004), ‘Le projet urbain comme instrument d’action publique’, in Lascoumes, P., Le Galès, P. (éds) Gouverner per les instruments, Presses de Sciences Po, Paris, 199-233
Pinson G. (2005), ‘L’idéologie des projets urbains. L’analyse des politiques urbaines entre précédent anglo-saxon et détour italien’, Science de la Société, 65, 28-51
Pinson G. (2006), ‘Projets des villes et gouvernance urbaine. Pluralisation des espaces politiques et recomposition d’une capacité d’action collective dans le villes éuropeennes’, Revue Française de Science Politique, 56 (4), 619-651
Pinson G. (2009), Gouverner la ville par projet. Urbanisme et gouvernance des villes européennes, Presses de Sciences Po, Paris
Pinson G. (2020), La ville néolibérale, Presses Universitaires de France, Paris
Pinson G., Morel Journel C. (eds) (2017), Debating the Neo-liberal City, Routledge, London-New York
ommier J. (éd.) (2021), Huet. De l’architecture à la ville. Une anthologie des écrits de Bernard Huet, Zueg, Paris
Ponzini D. (2020), Transnational Architecture and Urbanism: Rethinking How Cities Plan, Transform, and Learn, Routledge, London-NewYork
Priemus H., Flyvbjerg B., Van Wee B. (eds) (2008), Decision-making on Megaprojects, Edward Elgar, Cheltenham
Quaroni L. (1967), La Torre di Babele, Marsilio, Padova
Quaroni L. (1981), La città fisica, Laterza, Roma-Bari
Ratti C., Claudel M. (2017), La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano, Einaudi, Torino (1st edition, New Haven, 2016)
Ratti C. (2022), Urbanità. Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica, Einaudi, Torino
Remesar A. (ed.) (2016), The Art of Urban Design in Urban Regeneration, Editiones de la Universtat de Barcelona, Barcelona
Roberts P., Sykes H. (eds) (2000), Urban Regeneration. A Handbook, SAGE, London
Romano G. C. (2020), Changing Urban Renewal Policies in China. Policy Transfer and Policy Learning under Multiple Hierarchies, Springer, Cham (Switzerland)
Rossi A. (1966), L’architettura della città, Marsilio, Padova
Samonà G. (1959), L’urbanistica e l’avvenire della città, Laterza, Roma-Bari (2a edizione, 1971)
Samonà G., De Carlo G., Di Cristina U., Sciarra Borzì A. (1994), Per il Piano Programma del Centro Storico di Palermo (1979-1982), Officina, Roma
Salamon L. M. (ed.) (2002), The Tools of Government. A Guide to the New Governance, Oxford University Press, Oxford-New York
Salet W. G., Gualini E. (eds) (2007), Framing Strategic Urban Projects. Learning from Current Experiences in EU Regions, Routledge, London-New York
Schindler S., Fadaee S., Brockington D. (eds) (2021), Contemporary Megaprojects: Organization, Vision, and Resistance in the 21st Century, Berghahn Books, New York-Oxford
Secchi B. (1984), Il racconto urbanistico. La politica della casa e del territorio in Italia, Einaudi, Torino
Semi G. (2015), Gentrification. Tutte le città come Disney, Il Mulino, Bologna
Serres M. (2016), Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, Bollati Boringhieri, Torino (1e édition, Paris, 2015)
Shand R. (2013), Governing Sustainable Urban Renewal. Partnerships in Action, Routledge, London-New York
Somhegyi, Z., Giombini, L. (eds) (2024) The Routledge Companion to the Philosophy of Architectural Reconstruction, Routledge, London-New York
oker G., Mossberger K. (2001), ‘The Evolution of Urban Regime Theory’, Urban Affairs Review, 36 (6), 810-835
Swyngedouw E. (2014), ‘Where is the Political? Insurgent Mobilisations and the Incipient Return of the Political’, Space&Polity, 18 (2), 122-136
Swyngedouw E. (2018), ‘Insurgent Citizens and the Spectral Return of the Political in the Post-Democratic City’, City&Society, 30 (2), 1-7
Swyngedouw E., Moulaert F., Rodriguez A. (2002), ‘Neo-Liberal Urbanization in Europe. Large Scale Development Projects and the New Urban Policy’, Antipode, 34 (3), 547-582
Tallon A. (2010), Urban Regeneration in the UK, Routledge, London-New York
Trapitzine R. (2018), Pour un urbanisme humaniste, L’Harmattan, Paris
Varna G. (2014), Measuring Public Space. The STAR Model, Ashgate, Farnham
Wheeler S. M. (2004), Planning for Sustainability. Creating Livable, Equitable, and Ecological Communities, Routledge, London-New York
Wildavsky A. (1979), The Art and Craft of Policy Analysis, Little Brown, New York (reissued 2018)
- Una versione ampliata di questo saggio è stata pubblicata in Palermo, P.C. (2025) Roots and Frontiers. Figures and Cultures in Contemporary Urban Planning, Planum Publisher, Milano, pp. 288-324. ↑