EWT N.28/2023

Fra planning e design: tensioni, contaminazioni, esiti

Pier Carlo Palermo

1. Oscillazioni

Può l’urbanistica eludere la responsabilità di assicurare o restituire una forma fisica pertinente allo spazio urbano in evoluzione? La questione non è scontata. L’ impegno è parso essenziale in molti contesti e per lunghi periodi, ma è anche vero che nel cuore del Novecento, nel mondo nordamericano innanzi tutto, è sorto un vasto e influente movimento di (city o urban) planning, teso a riconoscere e forse a privilegiare altre dimensioni dei problemi urbani e urbanistici. Secondo la ricostruzione schematica di Harvey Perloff (1956), la disciplina ha sempre dovuto fare i conti con questioni controverse di diritto. Fin dagli anni ‘20 è emersa l’esigenza di assicurare ai piani urbanistici una base più adeguata di conoscenze e giustificazioni: pertanto le scuole di planning hanno dedicato un’attenzione crescente ai temi dell’analisi demografica, economica, territoriale. Fra le due guerre, progressivamente è cresciuto l’interesse per le funzioni politico-amministrative, anche perché la difficile congiuntura richiedeva un ruolo pubblico di governo sempre più pervasivo e influente. Le criticità conseguenti a eventi tragici come la «grande depressione» e la Seconda guerra mondiale hanno posto in primo piano il bisogno di analisi e politiche sociali. Solo dopo diversi decenni, invece, la questione ambientale è entrata realmente nell’agenda degli urbanisti. La tendenza comunque è chiara: la disciplina, in quel contesto, ha provato a misurarsi con la complessità dei fattori e dei processi in gioco, alla ricerca di una visione e di un progetto per quanto possibile «comprensivi». Questo orientamento è stato favorito dalla diffidenza diffusa verso la tradizione più rigida e impositiva dell’urbanistica moderna di matrice europea, che era chiaramente estranea allo spirito della società locale americana. Il nesso forte fra disegno e norma, cruciale per l’urbanistica tedesca di fine Ottocento, è diventato un ostacolo alla declinazione esauriente dei problemi della forma. Così si è creata un’accademia del planning, in verità assai eterogenea, poco strutturata, a volte velleitaria e francamente inconcludente (Palermo, 2022b), che ha fatto grande fatica a ritrovare nessi fertili e sostenibili con il mondo della progettazione fisica.

Nel corso del secolo, infatti, possiamo osservare una sequenza di «shifting involvements» (per usare un’espressione efficace di Albert Hirschman). Alle origini, i temi dell’urban design hanno assunto una funzione costituente per la disciplina in formazione. L’osservazione vale per Der Städtebau di Joseph Stübben (1890) come per Town Planning in Practice di Raymond Unwin (1909). Evoca una varietà di temi, eventi e personaggi di chiara fama, come le grandi trasformazioni urbane realizzate da Haussmann a Parigi oppure «l’arte di costruire la città» secondo Camillo Sitte (i due riferimenti storici più degni di menzione secondo Lewis Mumford, citato da Giorgio Piccinato, 1974); ma richiama anche le schiere operose dei normali «funzionari dell’urbanistica», il cui lavoro ordinario, nella Germania alle soglie del Novecento, è stato ben documentato dai manuali di Baumeister, Stübben, Eberstadt (che certamente hanno influito sulla formazione di Luigi Piccinato). In verità, si trattava di posizioni distinte: l’idea di urbanistica moderna per la città industriale in espansione, di tradizione tedesca; la cultura britannica dei «garden suburbs» e delle città satelliti; le prefigurazioni razionaliste – ma anche le esasperazioni funzionaliste – dei CIAM, a partire dalla «ville radieuse». Tuttavia, il dualismo potenziale fra planning e design è stato sancito da due critiche semplici e ricorrenti, che sembravano valere per tutti e tre i filoni, nonostante le differenze: questi esercizi formali tendono – nessuno escluso – a sottovalutare le dimensioni sostanziali dei problemi, che sono sempre sociali, politiche, economiche, ambientali; la pretesa di assegnare ai disegni conseguenti una valenza normativa, spesso per tempi lunghi e con un certo dettaglio, entrava in conflitto con gli interessi, le volontà, le dinamiche della società insediata. Nel secondo Novecento come negli anni più recenti, queste premesse elementari hanno ispirato e giustificato, nel vago dominio del planning, lo sviluppo inquieto di filoni molteplici di esperienza e riflessione: di orientamento razionalista, sistemico, critico, comunicativo, deliberativo, post-politico, insorgente e altro ancora (le differenze sono profonde, ma la disciplina sembra accettare una visione banalmente cumulativa, che elude scelte e responsabilità, privilegiando un atteggiamento eclettico o ecumenico).

Neppure questo impegno, però, ha dato buoni risultati. Un bilancio negativo era già palese, nel mondo nordamericano, intorno alla metà del secolo scorso: il fallimento della scuola di Chicago di rational planning, promossa da Tugwell e Perloff (1947-1956), può rappresentare una soglia emblematica. Un orientamento razionalista è stato sorprendentemente rilanciato in Europa, negli anni ‘60 e ‘70, grazie alla visione tecnocratica di Andreas Faludi o all’illuminismo appassionato di Giovanni Astengo, con esiti comunque fallimentari: non poteva essere altrimenti. Varianti non-razionaliste del planning hanno avuto corso fino ai giorni nostri, anche se in forme e modi sempre meno convinti e convincenti nel corso del tempo. Contestualmente, si sono moltiplicate le voci a favore di un «ritorno dell’urban design»: numerose e autorevoli, in una varietà di contesti. Negli Stati Uniti, alla metà degli anni ‘50, José Lluis Sert ha dato vita a un movimento intellettuale (Harvard, 1956) teso a rilanciare ruolo e necessità dell’urban design di fronte ai fallimenti, ormai documentati, dei progetti più ambiziosi di planning. Gli effetti di quella iniziativa (che ha dato voce a un sentimento diffuso) non sono stati immediati. Per qualche tempo, è stato possibile constatare soltanto il sorgere di qualche orientamento affine, certamente autorevole, ma ancora singolare: come i contributi sul tema della University of Pennsylvania (sede, nel 1957, di uno dei primi progetti formativi in «civic design» (ri)attivati nel continente americano: Colarossi, Latini, 2007); oppure la visione originale di Kevin Lynch (1960), che al MIT ha insegnato a studiare le relazioni tra forme, significati e comportamenti nello spazio. Nella medesima fase, in Gran Bretagna è emersa una ripresa oggettiva dei temi originari del town planning: con i contributi di Keeble (1952), Gibberd (1953), riediti più volte nel corso del tempo; ma soprattutto grazie alla figura di Gordon Cullen, che ha imposto all’attenzione la questione, smarrita, del townscape (1961). Anche in Italia non sono mancati contributi di spicco, in un quadro d’insieme, peraltro, alquanto tradizionale, conformista (rispetto alle ideologie della modernità incompiuta) e poco intraprendente (rispetto alle sfide del cambiamento). Alludo a un filone originale di studi sulla morfologia urbana, che sono diventati un punto di riferimento anche sulla scena internazionale (Muratori, Caniggia, Aldo Rossi, Aymonino); ma anche ad alcune visioni d’autore, capaci di ripensare le relazioni perdute fra architettura e urbanistica, e di testimoniare la possibilità di una concezione fisica e progettuale del planning (Samonà, Quaroni, De Carlo). Tuttavia, quelle importanti esperienze sono rimaste a lungo parziali e circoscritte, potrei dire eccezionali. Solo nell’ultimo quarto di secolo, è stato possibile osservare lo sviluppo di movimenti – intellettuali e professionali – design-oriented, con caratteri più robusti, diffusi, condivisi. Negli Stati Uniti, si sono consolidate alcune scuole di tendenza: il nuovo «urban design manifesto» concepito da Jacobs e Appleyard a Berkeley; gli sviluppi dell’idea di «collage city» e della progettazione come esperienza di bricolage, a cura di Colin Rowe (allora) alla Cornell University; il rilancio del profilo progettuale del planner come architetto-urbanista presso il MIT (Rodwin, Sanyal). Notevole è stata anche l’influenza di alcuni movimenti con chiare finalità professionali: la «new theory of urban design», elaborata all’Università della California da Christopher Alexander (1977, 1987); l’ambizioso «new urbanism» ispirato da Andrés Duany, professionista di Miami (Duany, Plater-Zyberg, 1991; Talen, 2005); il più complesso e sofisticato filone del «landscape urbanism» (Mostafavi e Najle, 2003; Waldheim, 2006, 2016). In Gran Bretagna, la sensibilità verso il townscape ha dato vita a un movimento ideologico (bene interpretato da Rob Krier, 1979), ma si sono affermate anche diverse scuole di urban design (la londinese Bartlett School, per prima) che hanno accolto la sfida: è possibile rinnovare la cultura e le tecniche del planning secondo una visione concreta, efficace, condivisibile dello spazio, delle forme, del progetto urbano e di città (Carmona e Punter, 1997)? In Spagna, le innovazioni più interessanti hanno preso la forma dell’«urbanismo estratégico»: una reinterpretazione della pianificazione urbanistica che esaltava il ruolo generativo del grande progetto urbano, dove la cura delle dimensioni morfologiche e architettoniche non escludeva un’attenzione crescente per la valenza strategica e sociale delle operazioni (Bohigas, 1991, 1998 e 2004; Busquets 1992; de Solà Morales 1996 e 1999). In Portogallo si è consolidato un filone autorevole di studi sulla morfologia urbana (Vitor Oliveira, 2016, 2019), che ha interagito con gli sviluppi della scuola urbanistica di Porto, dove Nuno Portas ha svolto un ruolo guida nel lungo periodo (Portas, 1965, 1998). In Francia, la critica della tradizione modernista ha dato vita a un consistente filone di ricerca sui temi del «projet urbain» (Huet, 1984; Devillers, 1994; Panerai, Mangin, 1999). Peraltro, quella visione suggestiva della città e del piano ben presto ha avuto bisogno di robusti complementi sul fronte delle strategie e delle politiche urbane (Ascher, 2001; Pinson, 2009): temi storicamente marginali per una tradizione urbanistica che in Francia è stata a lungo centralistica e prescrittiva. In Italia, negli anni ‘90, Gregotti e Secchi hanno messo alla prova alcune intuizioni di Ludovico Quaroni, che risalivano a più di 20 anni prima: la contrapposizione fra piano e progetto non è giustificata; è possibile concepire dei piani urbanistici dove il progetto urbano svolge una funzione determinante. Come peraltro ha sempre testimoniato, nel lungo periodo, l’opera inimitabile di Giancarlo De Carlo. Nel frattempo la letteratura internazionale ha incominciato a offrire quadri di sintesi sullo stato delle esperienze ormai disponibili in diversi contesti: spiccano i contributi di Jon Lang (1994, 2005) e Grahame Shane (2011) sugli esiti negli Stati Uniti; di Matthew Carmona e John Punter in Gran Bretagna (Punter, 2010; Carmona, 2014). Tuttavia, il complesso (pur notevole) di quelle pratiche e riflessioni di frontiera non è mai parso in grado di superare i motivi più radicali di incertezza o disorientamento. Fra architettura e urbanistica, piano e progetto, norma e strategia, disegno e processo, spazio e società, restano margini irrisolti di ambiguità o di contesa. Il rischio è che molte generose aspirazioni siano percepite soltanto come pura accademia, mentre la pratica procede in forme sempre più contingenti, se non opportunistiche. È tempo di realismo più che di speranza progettuale?

2. Viewpoint

Voglio anticipare subito il mio «punto di vista» (riprendo l’espressione in uso nella letteratura disciplinare, quando una rivista pubblica la visione personale di un autore su qualche tema in discussione). Non si tratta soltanto di un’ipotesi, ma di un insieme di interpretazioni e giudizi, che sono l’esito di una documentazione abbastanza accurata e delle riflessioni conseguenti. Seguendo la concezione abduttiva del discorso disciplinare che è stata declinata, in Italia, da figure eminenti come Quaroni e Secchi, intendo esporre subito quelli che, a mio avviso, sono i nodi principali della questione, riservandomi di presentare nei paragrafi successivi le evidenze empiriche essenziali, a sostegno della visione. Che si basa su tre ordini di considerazioni.

Innanzi tutto, il nesso fra planning e design è un requisito imprescindibile. Senza contenuti fisici e progettuali, il planning rischia di diventare una scatola vuota; quantomeno un dispositivo retorico o meramente procedurale. Personalmente, ho preso atto da tempo di questa conclusione, con una certa amarezza perché mi ero avvicinato all’urbanistica, mezzo secolo fa, proprio nell’ipotesi e con la speranza che si aprisse uno spazio rilevante, nel campo, oltre la soglia della pura progettazione fisica (per la quale non nutrivo un reale interesse). Quella prospettiva non ha avuto successo (meglio rendersene conto e prendere atto): per questa ragione, il mio profilo è rimasto quello dell’analista o del critico. D’altra parte, anche il design ha bisogno di una cultura adeguata del planning. Non vi è dubbio: il cosiddetto «progetto dell’urbanistica moderna» è stato pregiudicato da una visione inadeguata della società e della politica (della stessa amministrazione). Se rileggo le analisi e le esortazioni di Luigi Piccinato, nel secondo dopoguerra, l’effetto-delusione è inevitabile. L’autore non sa indicare null’altro che una visione astratta e dogmatica dello strumento di piano (che evidentemente non funziona, ma le responsabilità sarebbero sempre di altri); eppure in quella stessa fase non mancavano, ormai, voci internazionali più critiche e riflessive. Lo stesso limite, purtroppo, sembra valere ancora in tempi recenti, rispetto a temi cruciali. Per esempio, ritengo di avere documentato (Palermo 2022a, cap. 4.7) che gli sviluppi più attuali dell’environmental planning nel mondo nordamericano, certamente innovativi grazie agli studi e ai contributi della «ecologia urbana» in forte espansione, tendono ad assumere, nella generalità dei casi, una visione miope e obsoleta dei processi decisionali – ancora fondata su paradigmi sistemici o (addirittura) razional-comprensivi (Steiner, Daniels, Lein; ivi). Una riflessione più pertinente sui processi reali sottesi dovrebbe diventare l’impegno da non eludere. A questo scopo, gli sviluppi più critici e innovativi dei discorsi del planning potrebbero offrire qualche suggestione, al tempo stesso significativa e fertile.

Il presupposto essenziale – seconda considerazione – è una condizione di rispetto e di dialogo fra i due mondi: che dovrebbero riconoscere la rispettiva parzialità, o meglio incompiutezza, e favorire ogni istanza cooperativa, invece di indugiare su sterili contrapposizioni o rivendicazioni. È assolutamente inutile che ogni parte continui a rivendicare il suo primato sull’altra, intesa come mera appendice di una visione che sarebbe di per sé legittima, autorevole, adeguata (cioè funzionale e forse auto-sufficiente). Le conseguenze di questi pregiudizi sono negative. Da un lato, si tende a ridurre la funzione del design a un passaggio operativo di medio livello, nel quadro di un (presunto) processo e metodo ideale di pianificazione, che dovrebbe prestabilire i requisiti e le possibilità essenziali del lavoro di progettazione. Dall’altro, si rivendica il primato o addirittura l’autonomia del design, ma si continua a sottovalutare – come ai tempi d’oro dell’urbanistica moderna – le condizioni necessarie (sociali e politico-amministrative) per tradurre in atto eventuali disegni di piano o progetti virtuosi. La contrapposizione (documentata in Palermo, 2022a, cap. 2.5) diventa insuperabile se vengono a mancare due mosse essenziali: distinguere, scegliere – in un campo e nell’altro – i paradigmi più pertinenti, in un quadro variegato di posizioni spesso incommensurabili, eclettiche, confuse; esplorare i nessi e gli effetti potenziali delle interazioni necessarie fra le rispettive visioni. Il bilancio rischia di risultare inconcludente anche dal lato del design, che vorrebbe rappresentare l’innovazione – o il rilancio – indispensabile di una tradizione fondamentale, che è stata colpevolmente trascurata. Infatti, Matthew Carmona (Bartlett, 2014) deve constatare amaramente che anche l’urban design, nonostante tanti sforzi generosi, resta una «mongrel discipline» (sorte comune all’area del planning, che appare sempre disordinata e incompiuta). Jonathan Barnett (University of Pennsylvania, 2014), giunge al punto di raccomandare: «do not define urban design too narrowly». Conviene accettare una certa vaghezza e approssimazione del discorso, per poter coltivare tutte le opportunità emergenti (ma l’autore, soggettivamente, prende le distanze dal progetto moderno e dalle nostalgie neo-tradizionaliste, confidando nella svolta “verde” e in una visione sistemica: Barnett, 2016). Resta il rischio, dopo mezzo secolo di approcci e di esperimenti poco soddisfacenti, di dover intonare il requiem: come accade all’incontentabile Alexander Cuthbert (University of the New South Wales, Sydney, 2007), che già allora consigliava di proclamare la fine della presunta nuova disciplina (giudizio condiviso da Michael Sorkin, City College, New York, 2009). Nei primi anni 2000, invece, si sono moltiplicate le riflessioni collettive sul tema. La forma più comune è stato il Reading a molte voci, tese a esplorare le innumerevoli dimensioni potenziali del campo teorico e pratico in discussione, che mettono in gioco questioni di ogni genere: fisico, morfologico, estetico, funzionale, ambientale, sociale, economico, politico (Cuthbert, 2003; Carmona, Tiesdell, 2007; Krieger, Saunders, 2009; Banerjee, Loukaitou-Sideris, 2011). Il paradosso è che, mentre continuava a crescere il complesso delle relazioni degne di interesse, sempre vago e incerto rimaneva il nucleo identitario dell’area disciplinare che si intendeva istituire: destinato, all’apparenza, a uno stato permanente di «elusiveness», che sembrava impossibile superare (Richard Marshall, Harvard, in Krieger, Saunders, citato, cap. 4). Non resta che constatare l’irriducibile pluralità dei fattori, agenti e processi della progettazione urbana, che sfugge a qualunque pretesa di visione intenzionale e controllo unitario (Brent Ryan, MIT, 2017)?

La terza e ultima considerazione riguarda appunto gli esiti possibili di qualche istanza di rigenerazione del campo. Sulla base di una vasta documentazione, a me pare di poter individuare tre prospettive emergenti nel lungo periodo (in particolare dal secondo dopoguerra). La prima afferma (se non il primato, almeno) la centralità del progetto urbano o di architettura urbana. Riprende dunque la vecchia idea di «città per parti» (Quaroni, 1967) e una concezione delle trasformazioni urbane che privilegia «luoghi cospicui» e azioni capaci di produrre effetti rilevanti, morfogenetici e transcalari (Secchi, 1989). Propositi eccellenti, ma un dubbio è legittimo: il corso delle esperienze non potrebbe spingere verso il primato della contingenza e della fattibilità? Con il rischio, al limite, che «anything goes» purché qualche effetto sia possibile? In un primo tempo, in verità, quella visione ha cercato di rispettare i temi e valori della «architettura della città». In seguito ha dovuto accettare l’ipotesi – non ovvia, anzi estranea alla cultura dell’urbanistica moderna – che «gouverner par projet» fosse il metodo più opportuno ed efficace per gestire le grandi trasformazioni urbane (Pinson, 2009). È un dato di fatto: ogni progetto importante mette in gioco una dimensione politico-amministrativa complessa. Questo significa che anche il design ha bisogno di «policy tools»; anzi è la pratica stessa della progettazione urbana che si viene a configurare come una «public policy», come Jonathan Barnett aveva intuito, fin dal 1974. Oggi, però, le migliori intenzioni sembrano essere diventate un ricordo sbiadito. Il discorso nel merito diventa sempre più raro o rituale, rispetto ai temi del progetto urbano come alle questioni emergenti di strategie e politiche (anche le forme della comunicazione diventano più generiche e banali). L’approdo rischia di essere davvero la contingenza assoluta, che di solito vede prevalere gli interessi di mercato più forti e intraprendenti.

Un’altra linea di esperienze, radicalmente diversa, ha voluto affrontare invece il tema della contaminazione possibile fra le culture del planning e del design, per puntare a una rigenerazione, più attuale e pertinente, degli strumenti di pianificazione. Le testimonianze (che ho già richiamato nel paragrafo precedente) sono numerose e autorevoli: Carmona e Punter in Gran Bretagna. Busquets e Bohigas in Spagna; Nuno Portas in Portogallo; Huet e Devillers in Francia; Gregotti e Secchi in Italia. Il movimento sembra essere stato più solido e diffuso in Gran Bretagna; più legato a figure emergenti altrove. In ogni caso, la tendenza si è sostanzialmente esaurita nell’arco di 20-30 anni. Oggi resta soltanto una debole eco. Carmona (2018) sostiene che la lunga stagione di innovazione e sperimentazione ha consentito comunque progressi significativi nella qualità della progettazione urbana corrente. Tuttavia, un dato sembra evidente: gli esperimenti più ambiziosi di reinterpretazione progettuale e integrata degli strumenti di piano non hanno lasciato tracce sensibili in Gran Bretagna (alcune innovazioni istituzionali sono state cancellate, senza esitazione, dai governi conservatori in carica dal 2010). In Italia, gli stessi Gregotti e Secchi, con una scelta autonoma e tempestiva, hanno deciso di mettere fine, già alle soglie dei 2000, alla stagione delle «nuove forme di piano». Il filone sembra destinato a esaurirsi per estenuazione; forse non è in grado di sopravvivere neppure come retorica influente.

Resta disponibile, invece, un vasto insieme di contributi concreti alla everyday life nelle città e comunità dei giorni nostri: come trattare spazi, forme e funzioni che presentano caratteri e dilemmi specifici, per rispondere a problemi quotidiani di comportamento e azione nell’ambiente urbano – che riguardano le strade, il traffico, i tipi edilizi, il verde, la pedonalità, i consumi urbani, lo svago e così via. Certo non sottovaluto l’importanza materiale di queste pratiche per la qualità della vita di individui e comunità. Colpisce però lo slittamento radicale delle ambizioni e delle intenzioni (che non è neppure oggetto di una chiara auto-riflessione critica, peraltro). Non vi è più traccia delle aspirazioni palingenetiche del grande progetto urbano o delle nuove forme di piano design-oriented. La posta principale è garantire localmente risposte soddisfacenti ad alcune funzioni essenziali dell’abitare: secondo una prospettiva «comportamentistica», che non mette più in gioco un’idea di futuro, tanto meno di emancipazione o di progresso, ma volge lo sguardo, innanzi tutto, al locale, al quotidiano, al presente, secondo i bisogni, le percezioni, le azioni dei soggetti implicati. Non sottovaluto il realismo, il pragmatismo di questo orientamento, che dovrebbe assicurare quantomeno una famiglia di benefici: specifici, concreti, tempestivi. Non è possibile però ignorare lo scarto rispetto alle pretese di un passato non lontano. Questo ridimensionamento deve essere considerato definitivo?

3. Tre riviste

Per costruire e discutere queste ipotesi, ho svolto un’indagine sistematica sulle tre principali riviste di urban design oggi disponibili: Journal of Urban Design (dal 1996); Urban Design International (dal 1996); Journal of Urbanism (dal 2008). L’orizzonte temporale copre dunque gli ultimi 30 anni: probabilmente il periodo chiave, perché i più importanti programmi di rilancio del settore sono maturati soltanto nell’ultima fase del Novecento, e hanno trovato uno spazio di sperimentazione adeguato nei decenni successivi (il tempo trascorso consente ormai di esprimere qualche giudizio documentato). Vediamo i caratteri salienti dei tre progetti editoriali.

3.1 Journal of Urban Design (JUD)

Il progetto della rivista è nato negli ambienti della Bartlett School, in una fase (la metà degli anni ‘90) nella quale andava crescendo l’interesse e l’influenza potenziale dei temi dell’urban design nel mondo britannico. Il testo di apertura (affidato all’editore responsabile, Taner Oc della Bartlett, insieme a Steve Tiesdell, di Aberdeen, che con la scuola londinese ha cooperato: Carmona e Tiesdell, 2007) celebrava il «re-emergent urban design» (1-1, 1996), come un campo di interessi e di pratiche situato al crocevia fra architettura, planning e altre discipline del territorio, che ormai disponeva di un repertorio notevole di approcci e tradizioni. Secondo gli autori, l’area poteva legittimamente aspirare allo statuto di «disciplina». Nel corso del tempo aveva saputo affrontare temi sempre più complessi – dalle concezioni formali ed estetiche delle origini fino alle sfide del public realm e del place-making – con un’attenzione crescente per le matrici culturali e sociali dei comportamenti urbani, oltre che per le condizioni materiali. Un programma ambizioso, una visione assertiva, che concedevano poco spazio ai dubbi.

I primi numeri della rivista hanno offerto una rappresentazione esauriente delle posizioni disciplinari allora più avanzate, quanto meno nel mondo britannico e nordamericano: con i contributi autorevoli, da un lato, di Matthew Carmona (Bartlett), John Punter (Cardiff), Peter Larkham e John Pendlebury (Birmingham), Nigel Taylor (Bristol); dall’altro lato dell’oceano, Michael Southworh (Berkeley), Jon Lang (New South Wales, Sydney), Anastasia Loukaitou-Sideris (UCLA, Los Angeles), Ann Forsyth (Arizona State University, poi Harvard), Mark Childs (New Mexico). Il quadro d’insieme risulta altamente significativo e il riconoscimento trova conferme nel corso del tempo. Infatti, le figure più prestigiose del campo sono entrate a far parte del progetto editoriale. Da tempo, Southworth e Carmona hanno assunto il ruolo di associate editors per i rispettivi continenti. L’International Advisory Board comprende attualmente più di 50 membri, fra i quali (oltre agli studiosi già citati): T. Banerjee, J. Barnett, D. Brand, E. Ben-Joseph, A. Cuthbert, K. Dovey, N. Ellin, R. Freestone, A. Madanipour, V. Mehta, M. Roberts, B. Ryan, F. Steiner, Q. Stevens, E.Talen, T. Townshend, S. Wheeler, J. White (sono poche le voci autorevoli che mancano all’appello; si noti che sono presenti alcuni esponenti del mondo del planning). La lista ci segnala anche gli autori più attivi: nell’arco dei 28 anni, Carmona, Southworth, Talen, Lang e Forsyth hanno pubblicato su JUD, ciascuno, una decina di contributi originali; sono numerosi i membri del Board fra coloro – una ventina – che hanno pubblicato fra 5 e 10 articoli (tutte le altre voci – la grande maggioranza – sono più sporadiche). La rivista non ha mai voluto esprimere una linea culturale tramite l’intervento diretto della direzione, ma si è sempre affidata alla sostanza, attualità, lungimiranza dei contributi pubblicati, che si sono moltiplicati nel corso del tempo per effetto di un’offerta crescente. Infatti, è sensibilmente aumentato il numero delle issues pubblicate in un anno (3 fino al 2008, 4 fino al 2013, 5 fino al 2015, 6 dall’anno successivo). La crescita è dunque indiscutibile in termini quantitativi: si tratta, nel momento in cui scrivo, di 106 densi numeri, con la pubblicazione di più di 800 contributi.

Possiamo ritrovare un editoriale (affidato ancora a Taner Oc, dopo la scomparsa prematura di Tiesdell) solo nel 2020, nell’occasione del venticinquesimo anniversario della rivista. Il testo in verità è deludente perché si limita a replicare passi salienti dell’editoriale delle origini: senza alcun giudizio (l’omissione è davvero sorprendente) sull’evoluzione delle esperienze in un arco di tempo così lungo, e neppure sulle nuove prospettive. Tuttavia, la ricorrenza è stata l’occasione per riaprire un confronto fra voci autorevoli, che bene hanno rappresentato le difficoltà di un’intera area culturale e professionale (special issue, 25-1, 2020). Le critiche di Cuthbert sono come sempre radicali: inadeguata è la teoria, che dovrebbe affrontare questioni ben più complesse di quelle meramente fisiche. Lang condivide il giudizio sulla scarsa utilità della riflessione accademica. Chi ribadisce la rilevanza delle sfide («the art of shaping cities and their public realm by producing liveable urban space») deve ammettere limiti di capacità tecnica e innovazione politica, con particolare riferimento alle domande di inclusione, partecipazione, integrazione (Gospodini, Loukaitou-Sideris, Kunzmann). Più originale e incisivo mi sembra il contributo di Kim Dovey (Melbourne): urban design non è una disciplina, ma solo un campo di ricerca e di pratiche, che nel corso del tempo ha visto emergere temi e approcci nuovi. Questi riguardano l’analisi, cura e generazione di luoghi, ma soprattutto le dimensioni del tattico, del temporaneo, dell’informale (anche se la consapevolezza di questa svolta non sembra ancora un dato accettato e condiviso). Come si è giunti a una situazione – di stallo, se non di rottura – che appare oggettivamente deludente rispetto alle ambizioni e aspettative delle origini?

La rivista offre spazi ampi di riflessione e orientamento. Più della metà dei contributi tende a ragionare concettualmente su natura, senso, scopi e pratiche del campo disciplinare e professionale in discussione. Gli altri testi sono dedicati a studi di casi, che seguono un formato rigoroso e accurato, che ormai è diventato un carattere stilistico della rivista. Tuttavia, resta incerta la possibilità di generalizzare i risultati delle indagini locali; spesso le conclusioni possono sembrare scontate o meramente esortative. Pertanto, è dai contributi con finalità teoriche e metodologiche che dovrebbe emergere il nucleo identitario della rivista. Più di un centinaio di testi (circa 1 su 8, con una frequenza che non varia sensibilmente nel tempo) è dedicato esplicitamente all’enigma urban design. Discutendo il libro di Grahame Shane (Columbia), Urban design since 1945 (2011), Michael Hebbert (Manchester) ha osservato (17-2, 2012): l’autore ci offre un vasto quadro di osservazioni, ma adotta categorie analitiche e uno stile argomentativo piuttosto inconsueti; avrebbe fatto meglio a seguire le tracce consolidate della riflessione disciplinare, che questa rivista ampiamente documenta. In verità, il quadro di riferimento che JUD mette a disposizione del lettore risulta non solo plurale, ma piuttosto disordinato e confuso; dovrei dire incoerente. La rivista propone alcune voci critiche: non numerose, ma tendenzialmente distruttive. Perché l’urban design non sembra in grado di affrontare i temi e problemi cruciali, che non sono morfologici e fisici (Cuthbert, 6-3, 2001, e 15-3, 2010; Inam, 7-1, 2002). Spesso appare succube – mero strumento – della cultura e degli interessi neo-liberisti (Boano e Talocci, 19-5, 2014). Più moderate sono le obiezioni di Hooman Foroughmand (Bartlett), che si limita a denunciare l’incertezza culturale e strategica dell’area (22-5, 2017; 23-5, 2018). Incertezza che sembra confermata dalla grande varietà dei tipi di pratiche (Lang, 1-1, 1996) e dei ruoli professionali che possono essere associati all’area disciplinare (Schurch, 4-1, 1999; Madanipour, 11-2, 2006; Childs, 15-1, 2010). Mentre restano indeterminati i principi fondativi della (presunta) disciplina, sempre in bilico fra arte e scienza (Taylor, 4-2, 1999; special issue, 21-4, 2016); ma anche incapace di scegliere le forme di conoscenza più pertinenti: la ricerca si disperde fra una varietà di rami, divergenti o incommensurabili (Forsyth, 12-3, 2007; Biddulph, 17-1, 2012; Cortesao, 25-3, 2020, e 27-6, 2022). Il punto fermo, fin dai primi numeri, è la natura «incrementale, adattiva, flessibile» delle pratiche di urban design (Hall, 2-3, 1997; Friedman, ivi; Sancar, 6-1, 2001). Il dato può sorprendere, ma il giudizio è confermato nel corso del tempo (Fahrat, 26-1, 2021; Coppens, 26-6, 2021). Carmona ha provato a legittimare questi requisiti (19-1, 2014). La sfida decisiva sarebbe il place-shaping, come processo di azioni e interazioni che si sviluppa nel tempo, se esistono le condizioni e capacità necessarie, e risulta decisivo per la creazione di un luogo, rispetto al puro progetto. La visione non deve essere confusa con le banali procedure metodiche del planning razionalista: si tratta di un complesso di pratiche, multidimensionali, co-evolutive, segnate da importanti effetti emergenti. Peraltro, non sono mancate le obiezioni al primato eventuale del processo: non è possibile sottovalutare le responsabilità progettuali (Lang, 19-1, 2014), né la guida indispensabile dei buoni principi di design (che Cliff Ellis, South Carolina, faziosamente ascrive al new urbanism: ivi). II discorso sembra dunque destinato a ripetere, ciclicamente, dilemmi ormai noti, evidentemente insuperati. Lo stato di incertezza sembra cronico, anche rispetto a quelli che dovrebbero essere i cardini del progetto culturale. Voci autorevoli si sono ormai schierate a favore di una concezione behavioral, informal delle pratiche disciplinari (Southworth, 17-4, 2012, e 21-5, 2016; Loukaitou-Sideris, 21-5, 2016), ma nostalgie o velleità più tradizionali non sono svanite.

Urban form e design control sono temi evidentemente correlati, il cui interesse dovrebbe essere scontato, ma non risulta vasto e continuo come si potrebbe supporre (come ordine di grandezza, si tratta di 1 articolo su 20, per ciascuno dei due filoni). I contributi di analisi morfologica consistono per lo più nell’osservazione empirica delle tendenze evolutive di forme e tessuti insediativi, con un’attenzione prevalente per il layout urbano e il disegno dei blocchi edilizi piuttosto che per la forma complessiva degli insediamenti (tanto meno a grande scala). Sporadici sono i contributi teorici: ricordo rari esercizi di «space syntax» (a cura di Kayan Karimi, 23-1, 2018); un paio di contributi astratti di «analisi dei sistemi complessi» (Salingaros, 4-1, 1999; 5-3, 2000); un richiamo occasionale al metodo tipo-morfologico di Caniggia (Sanders, 21-2, 2016). L’impatto di queste teorie nel contesto è assolutamente marginale: non emergono relazioni significative fra i quadri concettuali e il lavoro progettuale. Anzi, la cultura del design può esprimere il suo disagio per il ritardo degli studi morfologici rispetto alla realtà sempre più diffusa dello sviluppo informale degli insediamenti (Pojani, 23-1, 2018).

La questione della regolazione, invece, è stata fondamentale alle origini, ma ha perso forza ed evidenza negli anni successivi. L’impronta era autorevole e promettente. Carmona e Punter hanno dato contributi di grande rilievo alle sfide emergenti dei primi anni ‘90: verso norme e piani design-oriented (Carmona, 1-1, 1-2, 1996; 3-2, 3-3, 1998); verso buone pratiche di design review (Punter, 1-1, 1996; 8-2, 2003; 12-2, 2007). Nel corso del tempo, però, sono mancati sviluppi sostanziali. La rivista continua a concedere spazio a sistemi di regole tradizionali. I programmi originali della prima fase non hanno potuto contare su contributi veramente nuovi e significativi. Gli esperimenti più sofisticati di «piani disegnati» sembrano ormai senza futuro (Tiesdell, 12-3, 2009; Hu, 18-4, 2013; Linovski, 23-2, 2018). Qualche prospettiva resta aperta per l’approccio più agile della design review (Punter, 24-3, 2019; White, ivi; Carmona 24-4, 2019). Il dato emergente è l’influenza sempre più esplicita e diffusa dei principi di semplificazione, flessibilità, discrezionalità (Ben-Joseph, 9-1, 2004; Fahrat, 17-3, 2012; Garde, 22-6, 2017). Governarli è questione di politica più che di progettazione o pianificazione. Infatti, Carmona da qualche anno ha rilanciato il tema della design governance (21-6, 2016; 22-1, 2017), senza trovare però molte convergenze (Barnett, per esempio, ha espresso qualche perplessità: 22-1, 2017).

Nel corso del tempo è cresciuto l’interesse per alcuni altri temi (la cui frequenza è dell’ordine di 1 contributo su 10, o poco meno): i principali sono urbanism, public space, neighborhood. La centralità del primo tema non desta sorpresa. Colpisce però la varietà delle posizioni in gioco e la debolezza dei tentativi di ordinamento concettuale della materia. Al riguardo, i contributi sono rari (Schwarzer, 5-2, 2000; Ryan, 18-2, 2013; Pojani, 20-5, 2015); l’obiettivo principale sembra essere prendere le distanze dalla tradizione moderna, mentre la direzione del cambiamento rimane incerta e poco discussa. Le dimensioni architettoniche del problema sono sorprendentemente trascurate, salvo qualche cenno alla deriva post-moderna (ancora «learning from Las Vegas»: Barnett, 24-3, 2019), e all’impatto del «transnational urbanism», con le sue icone d’autore (special issue, 23-2, 2018). Altri, invece, sono i filoni più consistenti. I temi della sostenibilità sono al centro di contributi numerosi, ma francamente non memorabili: non emergono ipotesi e conclusioni originali (lo stesso giudizio vale per i testi, molto più rari e recenti, dedicati ai temi della resilienza e della salute urbana). Trova spazi significativi il filone del new urbanism. La narrazione è generalmente ortodossa, affidata alla voce stessa dei protagonisti (Duany; Talen; Ellis: 7-3, 2002) oppure a osservatori benevoli (Garde, 11-1, 2006; Xu, 22-6, 2017; Novak, 24-3, 2019). L’unica voce critica che ho rilevato è quella di Wheeler e Craig (University of California), che mettono in discussione la validità dell’approccio per la città postmoderna (16-2, 2011). Poco fertile risulta il confronto con le vicende britanniche degli urban villages (Owen, 3-3, 1998; Biddulph, 5-1, 2000) e della urban renaissance (Tiesdell, 7-2, 2002): in effetti, sostanziali sono le differenze di contesto e di programma. Memorabile, invece, è lo scontro (special issue, 20-3, 2015) fra i sostenitori del new o del landscape urbanism, riflesso evidente di una forte rivalità professionale. L’intento non era trovare una base comune (nonostante le buone intenzioni del curatore, Matthew Heins, Boston), ma denunciare la debolezza della controparte. Il lettore può provare imbarazzo di fronte alla asprezza e intolleranza delle argomentazioni, che forse restano vane. Infatti in quella sede, sia Robert Fishman (Michigan), sia Karl Kullmann (Berkeley) hanno osservato che un dato accomuna i due movimenti: l’insuccesso evidente rispetto alle ambizioni e alle attese! La tendenza che emerge è l’attenzione crescente, nell’ultimo decennio, verso i temi del tactical, temporary urbanism. L’orientamento incrementale-adattivo già palese negli anni ‘90 trova una consacrazione di fatto: i riferimenti si moltiplicano (Dovey, 19-2, 2014; Mallo et al., 19-4, 2014; Campo, 21-3, 2016; Kamvasimou, ivi; Lastra e Pojani, 23-5, 2018; Mikadze, 25-6, 2020; Berglund, 26-5, 2021). Manca ancora, però, una interpretazione e valutazione convincente della mutazione in atto: deve essere intesa come una variante tecnico-professionale che risponde a esigenze pratiche, forse opportunistiche (anche Duany legittima oggi il «tactical, lean urbanism»: Douglas, 2018; Kelbaugh in Arefi e Kickert, 2019), oppure come il sintomo ormai maturo di un cambio radicale di paradigma?

Public space è un altro tema classico che si riproduce nel tempo con frequenza. Anche in questo caso, l’inquadramento concettuale non sembra essere una priorità. Bisogna attendere fino al 2010 (Carmona, 15-1, 15-2) per trovare una tassonomia degli spazi pubblici (contributo utile, ma in seguito poco approfondito) e un’analisi sistematica dei loro requisiti (Schmidt e Nemeth, 15-4), che sarà sviluppata dalle riflessioni sulla qualità urbana (par. 4.8). L’interesse prevalente è stato rivolto, a lungo, a diversi tipi di spazi materiali – strade, parchi, open spaces (eventualmente marginali o abbandonati: Loukaitou-Sideris, 1-1, 1996; Madanipour, 9-2, 2004, e 13-3, 2008) – piuttosto che all’intera trama pubblica. In seguito, lo sguardo gradualmente si è spostato dai caratteri fisici all’interazione sociale nello spazio (fondamentali sono stati i contributi di Michael Southworth: 17-4, 2012; 19-1, 2014; 21-5, 2016). Continua a mancare però un vero discorso sulla sfera pubblica, mentre è disponibile soltanto qualche debole traccia di riflessioni sull’identità locale (Roberts, 2-1, 1997; Larco, 15-2, 2010; Rofé, 16-3, 2011). Più consistente (rispetto alle attese e forse alle necessità) è la cura dei problemi gestionali. Diventa una questione di punta l’uso pubblico di spazi di proprietà privata: una tendenza che suscita preoccupazioni, per ragioni evidenti, ma che la letteratura generalmente assolve, perché i benefici potenziali possono superare i rischi (De Magalhães e Freire Trigo, 22-6, 2017; Huang et al., 23-4, 2018; Lee e Scholten, 27-5, 2022). La rivista propone dunque un approccio al tema molto concreto: non si discutono i grandi principi dello spazio pubblico (come sfera pubblica o bene comune), ma solo alcune pratiche ordinarie di disegno, gestione, uso.

Neighborhood è l’ultimo tema che per la rivista merita grande attenzione. Il dato non era scontato. La realtà mostra un’impressionante varietà di situazioni insediative che richiederebbero analisi, cure e innovazioni. JUD (ma anche le altre due riviste, come vedremo) affronta quasi esclusivamente la realtà suburbana (fin da Southworth e Parthasarathy, 1-3, 1996; 2-1, 1997). Si tratta di un complesso di temi, che la rivista segue senza pregiudizi ideologici (non prevale quella narrazione a tesi che il new urbanism sembra prediligere). Il filo comune è il rapporto con tradizioni radicate, che devono essere ripensate nel presente, ma suscitano ancora un interesse partecipe e diffuso. Pertanto, è utile riflettere sull’evoluzione dell’idea di quartiere nel lungo periodo (Brody, 18-3, 2013); rivalutare i modelli classici americani, dall’unità di vicinato di Perry al progetto esemplare di Radburn (Lee e Stabin-Nesmith, 6-2, 2001; Forsyth e Crewe, 14-4, 2009; Karimi, 18-1, 2013); discutere in Europa l’eredità della città giardino, la stagione delle new towns (Edwards, 6-1, 2001), le politiche successive di rigenerazione urbana (Spaans, 9-3, 2004; Jansen, 22-2, 2017); inquadrare, rispetto a quello sfondo, i progetti emergenti del new urbanism (Talen, 8-3, 2003, e 11-1, 2006; Kim, 12-2, 2007), che pretendono di risolvere una varietà di problemi; fare chiarezza sulle ambivalenze (fra comunità e mercato) della gated community, che diventano più gravi quando il modello è esportato in altri continenti (Charmes, 17-3, 2012; diversi contributi – Miao; Irazabal; Lara – discutono casi-studio tratti dalla Cina o dal Brasile). Il quadro che si configura è ampio ed esauriente, nei limiti del contesto selezionato. Peccato che un lavoro analogo di indagine e riflessione non sia in corso su altre forme insediative, altrettanto o più problematiche, certamente più complesse.

L’orientamento al quartiere comporta invece, come corollario, un impegno consistente di analisi sul tema della walkability: i contributi, un tempo marginali, si sono moltiplicati nell’ultimo decennio, fino a raggiungere la soglia notevole di 1 su 20. Sono disponibili quadri concettuali utili per ordinare la materia (il più convincente: Forsyth e Southworth, 13-1, 2008); indagini mirate sui fattori di contesto e sulle percezioni soggettive che possono favorire la mobilità pedonale (per esempio, Schneider 20-2, 2015; Johansson, 21-2, 2016; Brookfield, 22-1, 2017; Macdonald, 23-1, 2018); tentativi sistematici di quantificazione del fenomeno, grazie all’invenzione di opportuni «walk scores» (per esempo, Lee e Forsyth, 19-3, 2014). L’insieme dei contributi conferma l’interesse concreto per l’everyday practice, in una forma specifica, oggettivamente parziale, ma non priva di utilità. Forse sorprende l’ampiezza dell’impegno, che non dovrebbe distogliere da responsabilità più pesanti, che invece continuano a essere eluse.

Il discorso sulla urban quality è meno sviluppato rispetto ai temi forti (si tratta, comunque, di 1 testo su 20, all’incirca), ma suscita dubbi simili a quelli già anticipati. Potrebbe evocare questioni cruciali sia per la progettazione, sia per le esperienze di vita. Tuttavia, una parte non marginale dei contributi si preoccupa non di approfondire le indagini, ma di giustificarne il valore e l’interesse: non solo etico o estetico, ma anche di mercato (Rowley, 3-1, 1998; Carmona, 7-2, 2002, e 24-1, 2019; Tiesdell, 9-1, 2004). La qualità dovrebbe essere, dunque, un requisito ambìto da tutti: cittadini, amministratori, tecnici, developers. Le interpretazioni, però, possono divergere. Lasciando da parte l’uso strumentale della questione, con pure finalità di branding e valorizzazione di mercato, si aprono due vie. La più frequentata consiste nella formulazione di qualche schema concettuale di buone raccomandazioni, nel solco tracciato da Kevin Lynch. I contributi si moltiplicano; si tratta spesso di variazioni minori sul tema, con un modesto contenuto innovativo (John Montgomery, 3-1, 1998; Chapman e Larkham, 4-2, 1999; Ewing e Handy, 14-1, 2009; Taylor, 14-2, 2009; Varna e Tiesdell, 15-4, 2010). L’alternativa consiste nel riconoscere che la qualità deve essere esperita. Solo la prova dell’esperienza, tramite le pratiche ordinarie, consente di verificare il senso e l’impatto di uno schema concettuale o di un progetto sulla carta virtuosi. Nonostante l’influenza crescente dell’everyday urbanism, la rivista esita a intraprendere questa via: in molti casi sembra accontentarsi delle buone raccomandazioni (fra le eccezioni, de Vasconcellos, 9-1, 2004; Southworth, 10-2, 2005; John Montgomery, 13-2, 2008; Mehta, 14-1, 2009, e 19-1, 2014).

Un settore particolare che solleva questioni di qualità è l’heritage urbano. Il tema suscita un certo interesse (anche in questo caso, 1 contributo su 20, circa), ma viene a mutare l’orientamento nel tempo. Era ancora essenzialmente normativo negli anni ‘90, con lo scopo primario di disciplinare la conservazione; gradualmente si è spostato verso le politiche attive di rigenerazione, dapprima di iniziativa pubblica, poi alla ricerca di partnership private. In una prima fase, l’interpretazione del tema è stata affidata alla cultura britannica della built heritage preservation (Larkham, 1-3, 1996; Pendlebury, 2-3, 1997; 4-3, 1999; 10-2, 2005); più rari i riferimenti alle stesse questioni negli Stati Uniti (Galen Newman, 19-5, 2014). Quando l’attenzione è stata rivolta verso le politiche e i progetti di rigenerazione, il contributo delle discipline della conservazione è diventato più marginale (fra le poche eccezioni, Pendlebury, 22-4, 2017). Un tema resta sorprendentemente in secondo piano: di quali contesti si tratta? Il dilemma è fra la selezione di ambiti di chiaro valore storico e culturale (l’oggetto originario) e un’estensione del campo, verso l’everyday heritage. Se questa scelta dovesse prevalere, sarebbe consolidata la tendenza che ho già segnalato secondo altre prospettive. Nel caso, la svolta è appena abbozzata: i contributi in questo senso sono poco numerosi e ancora occasionali (Mosler, 24-5, 2019).

L’ultimo tema emergente (con una frequenza dello stesso ordine) è il place-making che, agli esordi della rivista, rappresentava un traguardo dichiarato e una meta possibile. Contrariamente alle attese, gli sviluppi non sono stati significativi. I contributi sono diventati meno frequenti nel corso del tempo, senza mai superare la soglia della raccomandazione o dell’esercizio metodologico. Dovrebbe valere quanto detto sulla qualità urbana: è l’esperienza di vita che conta per generare dei luoghi autentici. Purtroppo, sono pochi i contributi (per esempio, Jiven e Larkham, 8-1, 2003; Knox, 10-1, 2005; Santos Cruz, 23-6, 2018) che provano a sviluppare questo nodo determinante, anche solo in linea di principio. La maggior parte dei testi propone risultati poco innovativi: rassegne sui concetti in gioco (Arefi, 4-2, 1999; Aravot, 7-2, 2002; Abusaada e Elshater, 26-3, 2021); metodologie di indagine (Sepe, 14-4, 2009); linee di progetto di spazi aperti o di arredo urbano (in casi specifici) oppure mere esortazioni (Roberts, 4-1, 1999; Ryan, 9-3, 2004). La conseguenza è che il discorso sul place-making di JUD resta debole e inconcludente.

Sono questi, a mio avviso, i principali temi emergenti nel corso dei 28 anni della rivista (ogni altra questione è trattata in modi più sporadici e frammentari). L’impronta culturale è chiara: riflette le concezioni dell’urban design più influenti, nel periodo, nel mondo americano e britannico. Le aperture internazionali restano secondarie e contingenti; il tema in discussione si riduce spesso all’impatto (generalmente problematico) di quelle visioni su mondi profondamente diversi. Non mancano i problemi, però, anche per il filone principale. Come prima, sintetica conclusione, la mia impressione è che il progetto editoriale originario sia rimasto sostanzialmente incompiuto, fra omissioni, compromessi e revisioni. Dal design control all’everyday urbanism: la sequenza delle pagine mostra le tracce di una mutazione in corso, che accade, ma non viene veramente discussa e legittimata. Questo limite mi preoccupa più del cambio di rotta.

3.2 Urban Design International (UDI)

La rivista è stata lanciata nello stesso anno della precedente (1996), ancora in un ambiente britannico (in questo caso la Oxford Brookes University, per iniziativa di Richard Hayward e Sue McGlynn). Le ragioni della simultaneità dei due progetti non sono evidenti: i promotori non si sono preoccupati di chiarire le differenze e tanto meno di aprire una franca competizione. Spetta al lettore farsi un’idea dei caratteri peculiari e del valore aggiunto dei rispettivi contributi. Il primo editoriale dei responsabili (1-1, 1996) conferma un’esigenza culturale e professionale piuttosto diffusa: ritrovare e legittimare un nuovo spazio istituzionale, fra i mondi dell’architettura e del planning; spazio che appare carente, ma indispensabile secondo gli autori. La prospettiva peculiare (rispetto al progetto JUD) sarebbe la cura prioritaria per i temi della sostenibilità (la sfida emergente nei primi anni ‘90), l’orizzonte internazionale e, soprattutto, la ricerca assidua di maggiore dialogo e cooperazione fra accademia e professione (infatti, numerosi sono i contributi firmati da practitioners). In seguito, un editoriale ha aperto regolarmente ogni numero, sempre affidato ai responsabili della rivista che (a differenza di JUD) sono cambiati più volte nel corso del tempo. Possiamo distinguere tre fasi. Quella originaria si estende dal 1996 al 2006 (incluso), sotto la guida di Hayward e McGlynn. È seguìto un periodo di instabilità di alcuni anni, nel corso dei quali la direzione della rivista è cambiata più volte (Mike Biddulph, Cardiff; Maliene e Pitt, Liverpool; Sam Griffith, Bartlett). Dal 2014 la guida è stata affidata a Mahyar Arefi (di origine iraniana, ora docente a Cincinnati), con l’ausilio, per molte issues, di Noha Nasser (Kingston, UK) e poi la direzione congiunta di Patricia Aelbrecht (Cardiff). Il comitato editoriale è sempre stato prestigioso. Comprende personaggi autorevoli, in parte presenti anche in altri progetti del settore, come Carmona, Larkham, Loukaitou-Sideris, Talen, Dovey e Stevens (protagonisti di JUD), ai quali si aggiungono altre figure di rilievo: M. Biddulph (Cardiff), G. Butina Watson (Oxford Brookes), B. Case Scheer (Utah), J. Gehl (professionista danese di grande fama), T. Haas (KTH, Stockholm), M. Neuman (New South Wales, Sydney), I. Samuels (Birmingham), C. Xue (Hong Kong), e pochi altri. Forse la partecipazione al Board diventa un atto di rappresentanza più che un impegno culturale effettivo. Un indizio: il contributo di questi soggetti come autori della rivista non è molto significativo (a differenza del caso JUD). Nell’arco dei 28 anni, solo Biddulph ha pubblicato più di 10 articoli; fra 4 e 6 sono stati i contributi di Xue, Larkham, Karimi, Sepe (fra gli autori già citati), insieme a Bill Hillier (Bartlett), Karina Landman (Pretoria), Michael Mehaffy (Sustasis Foundation, Portland); prevalgono largamente i contributi occasionali. È anche difficile sostenere che, nel corso del tempo, la direzione della rivista abbia espresso un chiaro progetto culturale, tramite la sequenza degli editoriali. I testi di apertura, infatti, si limitano a richiamare brevemente una questione di interesse generale; poi offrono una rapida sintesi dei contenuti degli articoli pubblicati in quel numero della rivista, che con il tema evocato presentano nessi a volte opinabili. In sostanza, si tratta soltanto dell’anticipazione di un sommario della issue (qualche tentativo di approfondimento si trova soltanto negli editoriali di Griffith, la cui direzione però è stata breve). Come o forse più che nel caso di JUD, la rivista sembra nascere principalmente dall’offerta emergente di esperienze e riflessioni, che genera un flusso continuo e consistente (4 numeri ogni anno; in una decina di casi, nella prima fase, si è trattato di numeri doppi; nel momento in cui scrivo sono disponibili 100 issues, che nel complesso mettono a disposizione quasi 600 contributi). All’apparenza sembra superiore, rispetto a JUD, lo sforzo di costruire numeri monografici, ma in diversi casi la collezione dei contributi non risulta molto significativa. La cura delle tendenze internazionali è più evidente, come è logico attendere. Nelle prime fasi si trattava di iniziative ancora sporadiche; l’apertura internazionale diventa un carattere dominante nell’ultimo decennio, sotto la guida di Arefi, mentre progressivamente si riduce l’attenzione per i contesti occidentali più tradizionali. Tuttavia, l’orientamento culturale è ancora fortemente condizionato: il tema ricorrente è la reinterpretazione e l’impatto, in contesti differenti, di questioni e modelli che sono tipicamente occidentali. La geografia delle esplorazioni resta parziale, forse dettata da opportunità contingenti più che da scelte intenzionali. Spiccano i casi tratti da Cina, Brasile, Sud Africa; numeri monografici sono dedicati a Australia, Balcani e mondo arabo; altri riferimenti sono più rari e occasionali. Sembra difficile sostenere che visioni veramente nuove siano emerse grazie alla apertura internazionale. In sostanza, i temi chiave che la rivista propone non differiscono significativamente dal caso JUD, se non per i pesi relativi e per alcune declinazioni preferenziali.

Nel merito, diminuisce il peso di temi fondamentali come urban design e design control. Non è solo una questione di numeri (nell’insieme, i due filoni rappresentano ancora il 15% circa dei testi), ma di originalità dei contributi e di impatto delle riflessioni. La rivista propone descrizioni e analisi per un repertorio di progetti urbani (ma le generalizzazioni sono difficili) e qualche riferimento a progetti di piano design-oriented (che diventano più rari e marginali nel corso del tempo). Debole e poco innovativa resta la discussione su natura e senso dell’attività: da intendere come arte (Bentley, 7-3&4, 2002) o come scienza (Stephen Marshall, 17-4, 2012; Çalişkan, ivi; Dovey e Pafka, 12-1, 2016)? La formazione deve puntare sul learning by doing o sulla potenza delle nuove tecnologie (special issue, 9-4, 2004)? I contributi teorici inediti si riducono a qualche dialogo: fra Mehaffy e Christopher Alexander (12-1, 2007); fra Biddulph e Cuthbert (12-4, 2007). Non c’è confronto con JUD.

Altrettanto debole è il discorso sul design control. Se, agli esordi, Carmona e Punter rilanciavano, in Gran Bretagna, l’idea dei «piani disegnati» (2-1, 1997), da New York Kwarter poteva ribattere che le regole devono essere «limitate e flessibili» (3-1&2, 1998). Se voci isolate (sotto l’influenza degli studi morfologici) sostenevano ancora la necessità di form-based codes (Gu, 19-2, 2014), sempre da New York si replicava che «le regole devono essere sempre negoziate» (Dahl, 21-1, 2017). Lo stesso Punter ha riconosciuto da tempo, sulla base di una vasta ricerca svolta in Europa (special issue, 4-1&2, 1999), che l’aesthetic control dovrebbe limitarsi a buone linee guida (non è questione di norme, ma di cultura condivisa). Sopravvive il tema della design review, fra qualche obiezione (Kumar e Varkki, 7-2, 2002) e autorevoli consensi (Paterson, 16-2, 2011; Kim e Forester, 17-3, 2012). Da molte esperienze (in Cina, per esempio, ma non solo) si può trarre un monito: l’urban design non dovrebbe limitarsi a produrre icone o mega-progetti, ma innanzi tutto buona amministrazione (Deng, 14-1, 2009).

Nella rivista (se non nella società) è cresciuta comunque l’attenzione per la dimensione morfologica dei problemi (più del 10% dei testi, fra 2 e 3 volte il dato di JUD). Il motivo principale – difficile da spiegare – è la vasta attenzione riservata alla metodologia «space syntax» (si veda il quadro aggiornato a cura della scuola di Delft: van Nes e Yamu, 2021); con diversi contributi diretti del suo ideatore, Bill Hillier (1-1, 1996; 4-3&4, 1999; 5-2, 2000; 7-3&4, 2002; 9-1, 2004) e una varietà di applicazioni (Hanson, 5-2, 2000: Hillier e Netto, 7-3&4, 2002; Karimi, 17-4, 2012; Ramzy, 21-1, 2016; Ye et al., 22-1, 2017). Nel complesso, si tratta di contributi scolastici che non presentano caratteri ed esiti innovativi. Più limitati, se pur degni di nota, sono i riferimenti all’analisi «storico-morfologica» della scuola di Birmingham (Kropf, 1-3, 1996; Gu, 15-3, 2010; Birkhamshaw e Whitehand, 17-1, 2012) o alla sua versione portoghese (Oliveira e Pinho, 11-3&4, 2006). UDI si mostra dunque sensibile ad alcune correnti attuali degli studi morfologici, che assume come un prodotto compiuto e non modificabile; non sembra in grado di documentare, però, le ragioni specifiche dell’interesse e i contributi di qualità che tali esercizi dovrebbero offrire alla progettazione.

È cresciuta anche l’attenzione per il tema dello spazio pubblico (quasi il 10% dei testi). Ritroviamo questioni specifiche e note come il disegno di strade, di spazi aperti, in minore misura di parchi; ma anche un interesse crescente per la disponibilità pubblica o quasi-pubblica (sempre più attuale) di aree di proprietà privata. L’indicazione più significativa è lo slittamento tematico dalle dimensioni fisiche e tecniche dei problemi verso la sfera dell’interazione sociale. La svolta appare netta grazie a tre numeri monografici: il primo a cura di Tigran Haas e Michael Mehaffy, The future of public space (24-4, 2019), con contributi di Carmona, Madanipour, Inam, Mehta e altri; il secondo coordinato da Karina Landman, Inclusive public space (25-3, 2020); il terzo da Mahyar Arefi, Urban identity, perception, and urban design (27-1, 2022). Neppure le pubblicazioni di UDI, però, sembrano disposte a riconoscere e a discutere le nuove responsabilità e le notevoli incognite di questo eventuale salto di paradigma.

La tendenza verso un cambiamento non banale è confermata dalle riflessioni sul vero tema forte della rivista: urbanism (interessa circa 1/4 dei testi). Il lettore non deve cercare un quadro esauriente della varietà delle posizioni in gioco. Il filone più influente (Murrain, 1-2, 1996; Morris e Kaufman, 3-4, 1998; Murrain, 7-3&4, 2002; Talen, 10-2, 2005) è, ancora e soltanto, il new urbanism. Forse pesa l’orientamento spontaneo dei professionisti: su UDI non si trova traccia degli intellettualismi del landscape urbanism. Tuttavia, l’inclinazione non è fideistica, ma pragmatica: non mancano osservazioni critiche (Robinson, 2-1, 1997; Robbins, 3-1&2, 1998) e qualche proposta di rinnovamento (Platwoski e Marshall, 19-3, 2014). In ogni caso, il corso delle esperienze rivela una mutazione in atto: continuano a crescere le istanze informali, tattiche, adattative; il bisogno di costruzione sociale del consenso e del progetto. Osservando gli ultimi numeri (special issues, 23-1, 2018; 24-2, 3 e 4, 2019; 25-1, 2 e 4, 2020; 26-1, 2 e 3, 2021), sembra assolutamente evidente la deriva (ormai irreversibile?) verso situazioni e prospettive di everyday urbanism.

Le altre voci emergenti da JUD mantengono qualche peso anche in questa sede (mentre ogni altro riferimento resta marginale). La rilevanza statistica del tema neihborhood è equivalente nelle due riviste (1 contributo su 10 circa). Diversa, però, è la geografia del fenomeno. Nonostante l’interesse evidente per le posizioni del new urbanism, UDI non sembra molto sensibile ai problemi del quartiere nordamericano e allo stile di vita conseguente (Forsyth, 19-4, 2014); prevale chiaramente l’influenza di alcuni modelli europei. Infatti, sono disponibili contributi interessanti – giustamente problematici – sui villages britannici (special issue, 8-1&2, 2003, a cura di Mike Biddulph); sul modello della garden city (Ward, 6-3&4, 2001; Falk, 22-1, 2017); sulle new towns francesi o inglesi (Spaans, 1-1, 1996; Williamson, 1-4, 1996; Frey, 5-1, 2000); sulle gated communities, che ormai rappresentano un modello di insediamento di interesse globale (special issue, 13-4, 2008, a cura di Karina Landman). Da ogni punto di vista traspare la crisi dei modelli: determinanti sono sempre i processi co-evolutivi reali nei contesti specifici. Si veda, per esempio, la radicale trasfigurazione – verso un progetto più permeabile e diversificato – dell’idea di gated community che, sulla carta, si vorrebbe realizzare in Cina (Xu e Yang, 13-4, 2008; 14-2, 2009).

Sensibilmente inferiore (pari a pochi punti percentuali per ciascuno) è la frequenza degli ulteriori temi selezionati – mi riferisco a urban heritage, walkability, place-making, urban quality – e non eccezionale la rilevanza delle riflessioni relative. Il patrimonio storico, in questa sede, non è oggetto di analisi specialistiche (né descrittive, né normative), ma viene preso in esame, nella maggior parte dei casi, rispetto alle domande e ai progetti di rigenerazione urbana (con le tensioni spesso conseguenti fra tradizione e nuovo intervento: tema ricorrente nei casi studio internazionali). Non mi pare che emergano contributi memorabili su questo versante; curiosamente, sono quasi tutti concentrati nei primi 10-15 anni della rivista; in seguito, l’attenzione sembra rapidamente declinare. Nel contempo, si sono moltiplicate, invece, le riflessioni sulla walkability: rarissime fino a 10-15 anni fa; poi via via più diffuse (con due special issues dedicate: 20-1, 2015; 28-1, 2023). A differenza di JUD (e, come vedremo, di JU), questi contributi solo in parte si preoccupano di studiare a fondo le condizioni del contesto, cioè i caratteri ambientali e insediativi, le percezioni e le preferenze dei soggetti, che possono favorire la diffusione di questo tipo di pratica. Non manca qualche importante riflessione-quadro (Forsyth, 20-1, 2015), ma l’interesse principale sembra essere la messa a punto delle metriche più opportune per quantificare e valutare il fenomeno (Al-Hagla, 14-3, 2009; Soon, 17-1, 2012; Stangl, ivi; Alhajaj e Daghistani, 26-1, 2021): esercizi puntigliosi, forse un po’ fuori misura rispetto alla linearità del problema.

Nel medesimo periodo, cioè negli ultimi 10 anni, la rivista ha dedicato un minimo spazio (in precedenza quasi trascurabile) anche all’idea di luogo e alle sfide del place-making. Nulla di nuovo rispetto ai quadri concettuali (Arefi, 9-3, 2004; Kalali, 20-3, 2015; Radfar, 21-1, 2016). Sulle prospettive d’azione, le riflessioni più interessanti (non ancora di senso comune) sono state formulate da Carmona (24-4, 2019) e Larkham (25-4, 2020). In sintesi, sarebbe necessario ripensare la questione in termini di place-shaping, perché solo le esperienze reali sono in grado, nel corso del tempo, di generare un luogo di senso e di vita condivisa. Anche se questa valutazione contraddice le aspirazioni o le pretese degli attori disciplinari e professionali che vantano la capacità tecnica di creare luoghi compiuti (l’esito può essere una proposta progettuale o solo un esercizio metodologico, come diversi contributi pubblicati su UDI da Marichela Sepe fra il 2013 e il 2021). Questa conclusione converge con gli esiti delle riflessioni sulla qualità urbana. La rivista, forse per la partecipazione diffusa dei professionisti, non si preoccupa di ridefinire concettualmente la materia, come accade su JUD (fra le rare eccezioni: Mulliner e Maliene, 16-3, 2011). L’interesse principale è rivolto ai processi di creazione di qualità tramite azioni mirate e interazioni sociali. Non a caso i maestri più evocati sono ancora Jane Jacobs e Christopher Alexander: la prima per l’interpretazione, valutazione della condizione urbana (special issues, 11-2, 2006, a cura di Claire Parin; 26-1, 2021, a cura di Arefi e Nasser); il secondo per la concezione evolutiva e partecipata della formazione dei progetti (Mehaffy, 12-1, 2007; Dovey e Pafka, 21-1, 2016; Park, 22-4, 2017). L’orientamento più diffuso non è realista e critico (verso le condizioni generalmente esistenti e gli ostacoli al cambiamento virtuoso), bensì esortativo, secondo la tradizione più edificante della cultura pragmatica. Nonostante i continui richiami di Cuthbert, Inam e pochi altri (che sono diventati sfoghi ripetitivi, fini a se stessi), il mondo dell’urban design sembra accontentarsi di raccomandazioni e promesse.

In conclusione, la mia impressione sulla rivista è controversa. Da un lato non mancano perplessità sul progetto editoriale (vago e discontinuo), sul trattamento dei temi chiave (parziale, frammentario, poco innovativo), sulla incapacità o non volontà di mettere a confronto la varietà delle posizioni in gioco (spesso divergenti), per scegliere e sostenere una direzione di lavoro, abbastanza chiara e coerente. D’altra parte, devo riconoscere che UDI interpreta perfettamente una tendenza evolutiva che forse assume una valenza generale; può rappresentare cioè alcune dinamiche fondamentali dell’intera area culturale e professionale: dal primato (presunto) della teoria e della tecnica verso il riconoscimento delle dimensioni plurali, informali, adattative, pratiche dei processi. Se osserviamo, nell’ultimo decennio, la sequenza dei numeri della rivista (sotto la direzione di Mahyar Arefi), la svolta tematica si mostra con ogni evidenza. Qualche dubbio resta sulla maturità di un cambio di paradigma. Sarà questa una deriva contingente oppure il destino futuro dell’area (da legittimare)?

3.3 Journal of Urbanism (JU)

La matrice in questo caso è nordamericana (ma l’editore è ancora britannico) e un orientamento culturale potrebbe sembrare plausibile, sulla base di più di un indizio. Forse la rivista può essere intesa come un organo del new urbanism – se non formale, di fatto? Il ruolo di editore responsabile è stato a lungo ricoperto da Emily Talen (dal 2008 al 2022), esponente di spicco del movimento (allora presso la Arizona State University, oggi a Chicago). Con lei ha cooperato fin dall’inizio Matthew Hardy, in un primo tempo come membro di INTBAU, rete internazionale di architettura che sosteneva valori e modelli tradizionali; in seguito, per conto della britannica Prince’s Foundation (ispirata dal Principe Carlo), che notoriamente rappresenta una corrente tradizionalista della cultura architettonica (più marginale, nei primi anni di attività della rivista, è stato il ruolo di un terzo editore responsabile, Charles Bohl di Miami). La presentazione del progetto sembra confermare la mia ipotesi: il sottotitolo della rivista introduce un campo molto vasto (International Research on Place-Making and Sustainability), ma la lista dei temi chiave riflette chiaramente gli interessi tradizionali del new urbanism. In un quadro poco strutturato, spicca l’attenzione per «the rural-urban transect, smart growth, livable communities, transit-oriented development, walkable communities», mentre le altre voci del programma sono persino troppo generali («urban morphology, historical preservation, urban regeneration, theories of urbanism»). È anche vero, però, che l’editoriale di apertura (1-1, 2008) ha evitato di prendere esplicitamente una posizione di parte: si è limitato a denunciare la frammentazione crescente di interessi e competenze nella sfera del place-making (fra modernismo e postmoderno; new, landscape, everyday e molte altre forme di urbanism), e a sostenere la necessità di un dialogo costruttivo fra le parti. Lo scopo della rivista non era schierarsi a favore di una tesi, ma rigenerare una base comune, attraverso il confronto, se necessario la tensione fra le visioni emergenti. Inoltre, è opportuno notare che il comitato editoriale comprende una ventina di figure di spicco, le cui posizioni non sono sempre riducibili al movimento di Duany: ritroviamo Ben-Joseph, Carmona, Ellin, Gehl, Haas, Oc, Mehaffy, oltre a R. Fishman (Michigan), M. Thompson-Fawcett (Otago, New Zealand), A. Vernez Mouton (Washington), C. Ellis (Clemson University, South Carolina; ecco un vero militante del new urbanism!), e pochi altri. Ho già espresso qualche dubbio sulla significatività di queste adesioni. Gli stessi personaggi sembrano disposti a sottoscrivere impegni culturali assai diversi, forse in qualche misura alternativi, senza dare troppo peso ai dilemmi di principio. Va detto che nessuno fra questi studiosi sembra aver dato un’impronta decisiva alla rivista: solo Talen e Mehaffy hanno pubblicato, nel periodo, almeno 5 saggi; la frammentazione dei contributi è molto elevata. Sulla base di 16 anni di pubblicazioni (3 numeri all’anno fino al 2013, incluso; 4 in seguito, per un totale, al momento, di 56 issues e più di 300 saggi), la mia impressione è che il pluralismo sia stato un impegno che era doveroso dichiarare, secondo le buone regole del discorso politicamente corretto; tuttavia, JU ha rivelato un orientamento prevalente, che trova radici importanti nella cultura del new urbanism, ma nel corso del tempo ha preso una piega forse in parte inattesa. In effetti, prendendo congedo dalla direzione della rivista nel 2022 (sostituita da Susan Parham, Hetfordshire, UK), Emily Talen non è stata in grado di presentare un bilancio del tutto coerente e di chiaro successo (15-4, 2022). Creare un campo di studi interdisciplinari sull’ambiente costruito; elaborare una nuova concezione normativa dell’urbanism (meglio giustificata e più funzionale); ridefinire un’idea unitaria del fenomeno urbano, oltre le distinzioni fra città e periferie; coniugare, nel contesto urbano, requisiti di sostenibilità, giustizia, place-making, qualità delle forme e della vita: erano questi gli obiettivi della rivista, assai ambiziosi. Consultando i 16 volumi, mi pare difficile riconoscere molti contributi all’altezza delle sfide dichiarate.

Il tema dominante – non è una sorpresa – è urbanism, oggetto di indagini e riflessioni dirette da parte della metà circa dei contributi. Due sono i filoni principali (assolutamente dominanti nel primo quinquennio): new urbanism (naturalmente) e sostenibilità. Il primo movimento occupa il centro della scena. Rappresenta la prospettiva più attuale, ma anche una solida promessa per il futuro (Talen, 2013), nonostante la consapevolezza di alcuni limiti. Perché l’opinione pubblica continua a essere riluttante di fronte ad alcuni principi teorici: più densità, più diversità, meno automobile (Grant e Bondanow, 1-2, 2008; Mayo e Ellis, 2-3, 2009; Stanley, 5-1, 2012), Pertanto, qualche mediazione sembra inevitabile rispetto ai modelli puri (Duany in Talen, 2013). In ogni caso, il bilancio può essere considerato positivo (Dierwechter e Coffey, 10-4, 2017) e il mercato continua ad apprezzare la proposta (Kim e Bae, 13-3, 2020). Mentre lo storico rivale professionale – il landscape urbanism – per la rivista non esiste. Solo due contributi sul tema, di orientamento critico: in quanto erede del progetto moderno (infatti, un modello esemplare sarebbe il progetto di Lafayette Park, Detroit, firmato da van der Rohe e Hilberseimer: Sease, 8-4, 2015); ma anche come pura teoria, che non può vantare molte verifiche concrete (Mehaffy et al., 12-1, 2019).

Il sustainable urbanism è l’altra tendenza che fin da primi numeri ha suscitato un vasto interesse. Come accade in altre sedi, però, prevalgono i contributi metodologici o meramente esortativi: si fa fatica a individuare conclusioni degne di nota. Il fatto nuovo, nel corso del tempo, è stato l’apertura verso altre linee di indirizzo: peraltro parziale, forse tardiva. Nel 2012, un numero monografico (5-2&3) è stato dedicato al barrio urbanism, fenomeno culturale specifico, con caratteri informali endemici (Diaz, 2005): sorprende l’ipotesi di applicare in quel contesto i principi del new urbanism (Talen; Irazabal: ivi). Solo nel 2013 la rivista ha preso atto della moltiplicazione delle idee di urbanism (in rapida crescita secondo Haas e Ollsson, 6-2): vengono rappresentate le principali tendenze emergenti; manca però un reale impegno di indagine comparata e di previsione dell’evoluzione futura. Solo nel 2014 (7-4) è stato preso in esame il fenomeno del do-it-yourself urbanism; un secondo numero monografico sul tema è stato pubblicato nel 2016 (9-2), sempre a cura di Donovan Finn (State University of New York). Interessante è l’interpretazione del fenomeno: il dato saliente non sarebbe il protagonismo di alcune pratiche sociali, autonome, spontanee, surrogato potenziale di una funzione politico-amministrativa carente; bensì la possibilità di istituzionalizzazione della tendenza, come declinazione contingente, incrementale, «tattica» dell’interesse pubblico (Berman e Marinaro, 7-4, 2014). Solo nel 2015 la rivista ha preso in considerazione il tema del temporary urbanism: si trattava, però, soltanto di una situazione post-traumatica in Nuova Zelanda, che è rimasta un riferimento occasionale (Wesener, 8-4). Lo stesso limite vale per l’unico cenno al tema del smart urbanism, che ha esposto qualche perplessità sulla qualità dei processi partecipativi (Mancebo, 13-2, 2020). Così come estemporanea risulta l’apertura verso i temi del food urbanism (già oggetto di attenzione da parte di UDI, 24-2, 2019), sempre in bilico fra istanze di produzione alimentare in città o di pura convivialità urbana (Parham, 13-1, 2020; 14-3, 2021). La mia conclusione è che effettivamente il new urbanism risulta essere la matrice più influente (l’ipotesi iniziale sembra trovare conferme). Tuttavia, uno slittamento appare inevitabile: dal modello compiuto di insediamento disegnato dagli esperti (la versione originaria) verso una mediazione adattativa, come esercizio di tattica che dovrebbe conciliare i principi essenziali con le esigenze pratiche di operatività e di efficacia. D’altra parte, questa piega è stata legittimata dallo stesso Duany (Douglas, 2018), come una metamorfosi necessaria, ma in fondo accettabile.

Rispetto a questa linea di indirizzo, le questioni (sulla carta) fondamentali di urban design e design control risultano sorprendentemente marginali (la frequenza di ciascuna non raggiunge il 5% delle pubblicazioni). I contributi specifici non sono neppure molto significativi. Sul primo tema, la voce più originale della rivista è Michael Mehaffy (1-1, 2008; 2-1, 2009): l’urban design dovrebbe essere inteso come un «processo generativo», come insegnano le teorie della complessità, la psicologia cognitiva, la space syntax, ma innanzi tutto Christopher Alexander (1977, 1987), la cui visione, secondo Mehaffy, sarebbe stata degnamente rilanciata e sviluppata dal new urbanism. La traccia è stata ripresa da Toker e Pontikis (4-1, 2011), ma poi il discorso si è esaurito. Solo un altro contributo presenta caratteri non ordinari: il tentativo di Hooman Foroughmand (12-2, 2019) di ripensare le esperienze di urban design come un processo di assemblage, seguendo le tracce di Deleuze e Latour; prospettiva già anticipata da Kim Dovey per spiegare la formazione dei luoghi urbani (Dovey, 2009; con Mrjiana Ristic, JU, 10-1, 2017). Si tratta di un’ipotesi ragionevole che resta però accademica, senza sviluppi concreti sulla rivista. Non è più consistente, né innovativa la riflessione sui temi del design control. Carmona, con un intervento non originale, ha riproposto anche in questa sede l’esigenza di design governance (11-1, 2018). Il dibattito interno alla rivista si è limitato a ribadire alcuni requisiti ormai evidenti e largamente condivisi: i codici regolativi devono essere flessibili (Trabalzi, 3-2, 2010; Hulme, 4-3, 2011; Alvaz, 5-1, 2012); devono permettere un certo grado di diversità funzionale e spaziale (Yunda e Jiao, 12-2, 2019); devono rispettare e valorizzare i caratteri evolutivi di tipi e forme del contesto (Gu, 12-4, 2019; Papaiologou, 14-4, 2021), Riaffiora cosi l’utopia di un «generative code» capace di evolvere virtuosamente nel tempo (Mehaffy, 1-1, 2008); prospettiva già delineata da studiosi come Ben-Joseph (2005) e Carmona (et al., 2006). Tuttavia, la rivista non offre ulteriori sviluppi sul tema; cerca eventualmente qualche contributo complementare nel campo della morfologia urbana (oltre il 5% dei testi), con finalità più analitiche che progettuali. Il quadro, variegato, non rivela un senso evidente e tanto un meno un disegno unitario. Spicca un’interpretazione “metrica” del tema (fin dalla rassegna di esordio di Clifton, Ewing et al., 1-1, 2008): come misurare la connettività delle strade, le differenze fra tipi di blocchi, l’interfaccia fra spazi distinti. Più saltuari sono i contributi sulle conseguenze ambientali delle forme: emissioni, condizioni climatiche, «carrying capacity». Ancora più rare le riflessioni sui nessi tra forme esistenti e progetti di intervento (di infill, retrofitting o redevelopment). Qualche tentativo di indagare le forze e i processi generativi delle forme: curiosamente, i contributi sono dispersi nel mondo (Vietnam, Malesia, Sud Africa). I riferimenti alle scuole di studi morfologici sono discontinui, con un sorprendente addensamento (tardivo?) negli anni più recenti. A parte un cenno singolare al metodo «space syntax» (un’applicazione a Kuala Lumpur, nel 2019), la fonte più influente è la scuola di Porto guidata da Vitor Oliveira, che propone sia studi comparati (Pinho e Oliveira, 2-2, 2009; Monteiro e Pinho, 15-4, 2022), sia una corsia preferenziale per l’approccio «storico-geografico» di Jeremy Whitehand (Oliveira, 12-4, 2019; Gu, ivi). Restano poco chiare le ragioni specifiche e l’attualità della documentazione, nonché il valore aggiunto delle applicazioni; soprattutto, rimane latente il nesso con le prospettive del design.

Il tema del place-making dovrebbe essere fondativo per l’identità della rivista. È trattato, invece, sommariamente (meno del 5% dei testi) e secondo una prospettiva parziale. I contributi più solidi vertono sul concetto di senso del luogo: Leyden et al. (4-1, 2011); Beidler e Morrison (9-3, 2016); Nelson et al. (13-2, 2020). Rassegne corrette, ma poco innovative. Altri testi mettono a fuoco le esperienze vissute nello spazio, seguendo la via aperta da Jane Jacobs (qui ripresa da Parham, 5-1, 2012). I riferimenti più significativi riguardano comunità etniche, in particolare il «Latino urbanism» (special issue, 5-2&3, 2012; Garfinkel-Castro, 16-2, 2023). Resta invece al di fuori dell’orizzonte la dimensione fisica dei problemi: la debole eccezione è un contributo metodologico di Marichela Sepe (3-1, 2010), affine ad altri lavori già visti su UDI. Anche la dimensione ambientale è ampiamente trascurata, se non in relazione a qualche trauma: come il ciclone Katrina (Fields et al., 8-1, 2015) oppure la questione del climate change (Santos e Costa, 10-3, 2017)). Il quadro resta perciò scarno e deludente. Anche se il discorso sui luoghi riemerge dallo sfondo delle indagini e riflessioni sulla urban quality; come dimostrano due temi esemplari, selezionati dalla rivista nella sezione book review: l’idea di happy city (Charles Montgomery, divulgatore e attivista canadese, 2013); la perorazione di Nan Ellin (University of Utah, 2013) a favore del good urbanism, che dovrebbe creare luoghi «vital, vibrant, safe, comfortable, legible, accessible, equitable, efficient, elegant, convenient, walkable, sustainable, beautiful, distinctive, dynamic». A differenza delle altre due riviste, JU non si preoccupa di discutere i quadri concettuali dei requisiti di qualità. Preferisce esplorare, fenomenologicamente, i tipi di abitazioni e di strade che meglio potrebbero contribuire alla qualità delle condizioni urbane, operando come «generators of urbanity» (Rofé, 2-1, 2009); anche se le generalizzazioni dei casi sono spesso discutibili. Un orientamento sembra prevalere: viene privilegiato il punto di vista dei soggetti – come percepiscono la qualità urbana; quali sono i fattori materiali che inducono a valutazioni positive; come è vissuta l’esperienza della città, giorno dopo giorno. La conseguenza è che questi contributi difficilmente assumono un valore sistematico. Neppure questo tema, dunque, rappresenta il punto di forza della rivista.

Considerazioni simili valgono per altri argomenti di evidente interesse, come public space o urban heritage. Non mancano i riferimenti (intorno al 5% dei contributi per ogni filone), ma la rilevanza è modesta. Sullo spazio pubblico, il contributo più importante è di Matthew Carmona (8-4, 2015), che sviluppa temi già pubblicati dalle altre due riviste (ma marginali in questa sede). Si tratta di una classificazione accurata secondo condizioni e modi d’uso («space neglected, invaded, exclusionary, consumption, privatised, segregated, insular, invented, scary, homogenised»), che suggerisce ipotesi e strumenti diversificati di intervento. Inoltre Carmona (15-2, 2022) valuta le conseguenze della crescente privatizzazione di spazi ad uso pubblico e, pur rilevando alcuni problemi, non si sente di formulare una critica severa della tendenza (meno benevolo è il giudizio di Leclerc e Pojani, 16-1, 2023). Altri testi richiamano, in modo occasionale e frammentario, questioni ampiamente dibattute: il progetto di alcuni tipi di spazi (in particolare parchi); la sicurezza degli usi; più raramente i requisiti di non-esclusione, tipici di un bene comune (Mehta e Mahato, 14-4, 2021). Altrettanto frammentari sono i contributi sul built heritage. Rispetto alle altre riviste si può notare una minore attenzione verso i problemi normativi. Interessano di più alcuni effetti urbani delle politiche di conservazione: la valorizzazione economica dei beni (Gilderbloom et al., 2-2, 2009; Bowen et al., 4-3, 2011); il contributo alla rivitalizzazione dei centri urbani (Sernes, 11-4, 2018); il dilemma salvaguardia/sviluppo, molto forte anche al di fuori del mondo occidentale (sono disponibili casi studio in Cina, Iran, Siria; i riferimenti internazionali della rivista restano occasionali). In ogni caso, modesto è il valore aggiunto rispetto allo stato delle conoscenze.

Il tema forte della rivista è la realtà del quartiere, con il consueto corollario della walkability (nell’insieme, i due temi rappresentano più di 1/4 della rivista). L’immagine che si delinea è uno specchio fedele dei principi del new urbanism. I contributi più significativi illustrano (ancora una volta) i caratteri fondamentali di quel modello (Mehaffy, 8-2, 2015); le sue radici (Brody, 9-4, 2016); le principali articolazioni nel tempo e nello spazio (Trudeau, 6-2, 2013; Talen, 11-4, 2018); un bilancio positivo dei risultati (Dierwechter e Coffey, 10-4, 2017, già citato); il rapporto tormentato con lo sprawl (Garde, 3-1, 2010) e i problemi di retrofitting delle periferie esistenti (la visione più completa del problema si trova nel libro a cura di Emily Talen, 2015). Una serie di contributi più specifici affronta, in dettaglio, questioni singole e ben note: densità e trama ideale, diversità sociale e funzionale, affordable housing, mobilità veicolare e pedonale, transit-oriented development, smart growth, sicurezza, preferenze ed esperienze di vita vissuta degli abitanti, possibilità di esportazione del modello (gli esempi sono occasionali: Cina, Israele, Golfo Arabico). Il quadro d’insieme rappresenta bene, senza innovazioni significative, quella che ormai è una tradizione consolidata. Dove le dimensioni del locale e del quotidiano vengono a svolgere una funzione dominante: forse eccessiva rispetto alla varietà e complessità dei problemi insediativi, oggi. Mentre l’interesse per i temi della walkability è perfettamente coerente con l’approccio; ne rappresenta una declinazione interna. Possiamo distinguere tre linee di argomentazione (che è più articolata rispetto a UDI). Che cosa rappresenta, come si misura il fenomeno (fra i contributi degni di nota: Lo Hutabarat, 2-2, 2009; Riggs, 10-1, 2017; l’ampia rassegna di Shields et al., 16-1, 2023). Quali sono le preferenze, le percezioni, i comportamenti dei soggetti (per esempio, Mehta, 1-3, 2008). Quali le condizioni e le politiche che è necessario attivare: perché il passaggio da walkability a walking non è scontato; deve essere guidato e sostenuto (Girling et al., 12-4, 2019). Riflessioni diligenti; forse – queste sì – un po’ scontate.

Nel complesso, la mia impressione è che le intenzioni ufficiali del progetto editoriale non siano state rispettate. Perché la rivista non mostra un’identità solida e originale. Lascia intuire un filo sotteso: la matrice influente del movimento culturale e professionale ispirato da Duany. Matrice che peraltro non è dichiarata in modo trasparente. Ogni altro riferimento rimane secondario, contingente, dejà vu. Come sostiene Emily Talen (15-4, 2022), la rivista continua a essere un ambito privilegiato per la ricerca e il confronto sui temi dell’urbanism, con vaste finalità di conoscenza e di progetto. Peccato che l’immagine che si delinea sia sempre debole e confusa. La premessa era un modello ideale: quelle posizioni che secondo «the Charter of New Urbanism» avrebbero dovuto risolvere una varietà di problemi incombenti (Talen, 1999 e 2013). Quello che resta è una traccia contingente e adattativa, nel senso ormai acquisito del tactical urbanism. Il passaggio non è banale, ma restano poco indagati gli elementi di discontinuità, i nodi critici, le possibilità emergenti.

4. «Urban design in ten words (or less)»: l’agenda che emerge dalla letteratura

La ricognizione svolta sulle tre riviste consente di trarre qualche valutazione d’insieme? Alcuni temi di interesse sono certamente condivisi (la documentazione non lascia dubbi). Sono trattati, però, in modi diversi, talora divergenti. Possiamo riconoscere un nucleo, una prospettiva comune – di senso e di forme – per un’area che appare complicata e sfuggente? Le riviste mettono a nostra disposizione una base notevole di big data (quasi 1800 contributi), grazie ai quali dovrebbe essere possibile costruire qualche rappresentazione significativa dei manifesti, dei programmi, degli eventi principali degli ultimi 30 anni. Anche se la metafora più pertinente, forse, è il caleidoscopio, che propone immagini cangianti, ma multiple e mutevoli secondo le circostanze (ogni forma che si viene a configurare presenta limiti evidenti di precarietà). Il punto fermo potrebbe essere la selezione di un dizionario delle voci fondamentali (già individuate nel par. 3), come complesso di temi e questioni salienti, da sfogliare secondo interessi parziali e contingenti: perché la possibilità di creare una visione integrata, sulla base dei contributi di parte, non sembra un problema all’ordine del giorno per i progetti editoriali delle tre riviste. Esaminiamo brevemente le voci principali di questo dizionario virtuale: non sono più di dieci, anzi a ben vedere alcune sono chiaramente correlate (il titolo del paragrafo riprende un esercizio analogo, svolto da Michael Gunder e Jean Hillier, 2009, nel campo del planning; peraltro secondo una prospettiva Lacaniana dalla quale mi dissocio!). Sono questi, a mio avviso, e non altri (anche le omissioni sono significative), i temi chiave che emergono dalla letteratura presa in esame. Presenterò un quadro di sintesi dei documenti e dei giudizi tratti, separatamente, dalle tre riviste nel par. 3; valendomi, a sostegno delle tesi, anche del contributo di qualche libro recente, che offre una sintesi esauriente delle posizioni in gioco.

4.1 Urban morphology.

Che questo sia un tema di interesse rilevante per la letteratura dell’urban design potrebbe sembrare una conclusione scontata. I riferimenti non mancano, in effetti, ma il peso e l’impatto sono risultati inferiori alle attese. In parte si tratta di osservazioni empiriche sull’evoluzione, nel corso del tempo, delle forme urbane o, più frequentemente, dei tessuti insediativi (in gioco entrano, rispettivamente, i modelli generali di insediamento oppure, con maggiore dettaglio, il layout urbano e il disegno specifico dei blocchi edilizi). Si tratta di contributi descrittivi che potrebbero assumere una valenza normativa: in generale, esprimono una critica radicale del cosiddetto «progetto moderno» e delle sue degenerazioni, ma non offrono indicazioni immediate per la costruzione di una alternativa. Un’altra parte dei testi sul tema, invece, si configura come una sezione distaccata della letteratura dedicata all’analisi morfologica dei sistemi insediativi. Penso alla più importante rivista del settore (dal 1997), che si intitola appunto Urban morphology, ed è diretta attualmente da Peter Larkham (Birmingham), con l’ausilio di Karl Kropf (della stessa scuola) e di Vitor Oliveira (Porto): tre autori che ho già avuto modo di citare perché da tempo collaborano con le riviste di urban design. Di questi contributi mi colpisce l’ortodossia: si tratta di riferimenti scolastici a tradizioni di ricerca datate, riproposte senza alcuna innovazione, né capacità di sintesi. Secondo le rassegne più autorevoli (Oliveira, 2016; Kropf, 2017), quattro sono i filoni principali degli studi sulla morfologia urbana: l’approccio tipo-morfologico che risale al contributo originale di Muratori e Caniggia in Italia, negli anni ‘50; l’analisi storico-geografica ispirata dal geografo tedesco Michael R. Conzen, dai ‘50-‘60, e sviluppata in Gran Bretagna (dove l’autore si era trasferito a causa del nazismo) da Jeremy Whitehand (nella scuola di Birmingham, dove si sono formati Larkham, Samuels e altri studiosi già citati in questa sede); il metodo «space synthax» elaborato negli anni ‘80, presso la Bartlett School, da Bill Hillier e Julienne Hanson (1984); sviluppato nel medesimo contesto da un laboratorio dedicato, attualmente diretto da Kayan Karimi (un altro autore già citato); infine, una famiglia di esercizi di modellistica matematica (D’Acci, 2019), che tendono a simulare formalmente l’evoluzione dei sistemi urbani sulla base di ipotetiche schematizzazioni di struttura e forma (ho segnalato, su JUD, alcuni contributi concettuali di Nico Salingaros, che è stato interlocutore privilegiato di Christopher Alexander). Ebbene questi filoni sono fedelmente rappresentati dalle tre riviste (in particolare il secondo e il terzo, con maggiore interesse da parte di UDI e JU). Eppure i limiti analitici di questi approcci sono chiari da tempo ed è difficile sostenere che il contributo progettuale sia rilevante. La costruzione di modelli di simulazione resta per lo più un esercizio di astrazione. Lo studio evolutivo dei tipi edilizi è un’analisi di grana fine, rilevante soprattutto in certi contesti storici. La scuola di Whitehand è in grado di riconoscere ambiti territoriali che presentano caratteri morfologici comuni: un risultato significativo (che potrebbe essere conseguito anche con metodi diversi), ma solo preliminare rispetto alla elaborazione progettuale. Francamente riduttiva mi pare l’ipotesi di Hillier: assumere che le possibilità di movimento in città, grazie alla rete delle connessioni materiali, siano un fattore determinante per lo sviluppo dell’insediamento urbano (Hillier, 1996). L’indagine può spiegare alcuni effetti urbani emergenti nell’ambito di forme organiche complesse (si tratta generalmente di città storiche di dimensioni e con funzioni limitate). In altri contesti, la pretesa di trarre conclusioni di interesse generale da spostamenti urbani non qualificati per tipi e funzioni appare poco verosimile (come notano alcuni contributi critici, peraltro abbastanza rari: Ratti, 2004; Netto, UDI, 21-1, 2016). Eppure, il metodo «space syntax» è diventato un algoritmo da applicare meccanicamente, persino in contesti inopportuni come una griglia urbana ortogonale (!), che è l’antitesi di una forma organica: ovviamente i risultati sono stati insignificanti (Haq e Behrie, JUD, 23-1, 2018). Che questi, e solo questi, siano ancora oggi i quadri di riferimento principali degli studi in questo campo di ricerca è un dato che mi mette a disagio. Nel complesso, trovo deludenti esercizi di pensiero così immobili e ripetitivi. L’innovazione non può essere riservata soltanto alle tecnologie in uso (che in effetti segnano progressi di notevole entità, ma non sono guidate da schemi concettuali più adeguati). In queste condizioni, non mi sorprende la marginalità sostanziale degli studi morfologici nel mondo dell’urban design (anche se gli studiosi del settore continuano a rivendicare un ruolo più centrale e influente: Oliveira, 2016, 2019).

4.2 Design control.

Non vi sono dubbi sulla necessità di migliorare la qualità morfologica delle regole urbanistiche (Punter, UDI, special issue, 4-1&2, 1999), dati i limiti evidenti, su questo fronte, dello zoning tradizionale. Questa è stata una delle motivazioni principali del rilancio dell’urban design nel secondo Novecento. Le riviste documentano le linee principali di indagine, innovazione e sperimentazione (con il contributo determinante di autori come Punter e Carmona in Gran Bretagna, ma sviluppi significativi anche nel continente americano). Possiamo riconoscere almeno quattro filoni: la concezione di form-based urban codes, cioè di sistemi di regole sensibili ai caratteri morfologici del contesto; l’integrazione e cura della dimensione morfologica nel metodo di formazione dei piani urbanistici (con effetti innovativi non solo sulla regolazione, ma sull’indagine, la visione, l’implementazione); il ricorso istituzionalizzato al metodo della design review, cioè la valutazione sistematica della qualità e dell’impatto morfologico di un progetto urbano in attesa di approvazione e realizzazione; la formazione di linee guida sui requisiti morfologici e fisici delle azioni e trasformazioni urbanistiche, da adottare come quadro indicativo di riferimento e indirizzo nei processi di pianificazione e progettazione. È evidente che le ambizioni non sono equivalenti. I primi due filoni esprimono una chiara volontà di controllo pubblico dei processi, sistematico, a priori. Come è noto, hanno incontrato notevoli difficoltà e resistenze. Viene messa in discussione la complessità tecnica, certamente più elevata rispetto alla regolazione tradizionale; in tempi di crisi questo diventa un facile alibi per evitare le fatiche dell’innovazione. Le obiezioni sostanziali, però, sono ideologiche e politiche. Il progetto tentativo di form-based codes nasce come critica dell’urbanistica moderna, ma ne rilancia le aspirazioni normative: l’ideale di una funzione pubblica di controllo delle trasformazioni urbane, che sia forte, legittima, efficace. Questo ideale entra in contraddizione con le dinamiche reali di società e politica, dove continua a crescere il peso della contingenza, flessibilità, discrezionalità. Mettendo in crisi anche l’ipotesi di piani urbanistici dotati di un repertorio più ricco di «norme disegnate». Ecco perché i risultati non sono stati pari alle attese. Oggi, di fatto, i due filoni hanno perduto lo slancio delle origini. Le prospettive non sembrano confortanti, anche se un bilancio critico viene largamente eluso. In questo quadro, la design review rappresenta una dignitosa strategia di riserva. Se il controllo a priori non funziona nel modo auspicato, che almeno sia garantita una verifica in itinere o, al peggio, a progetto definito, con lo scopo di evidenziare e scongiurare eventuali effetti “perversi”. L’ipotesi non è nuova; è stata ampiamente sperimentata negli ultimi 30 anni (Palermo, 2022a, cap. 6). I limiti sono chiari: le difficoltà della pura tecnica di contrastare un progetto maturo, sostenuto da interessi forti; i dubbi sulla legittimità e discrezionalità della valutazione degli esperti; l’insofferenza diffusa verso scelte o raccomandazioni che sembrano invadere la sfera delle preferenze individuali, nel nome di una publicness che spesso non è riconosciuta, né condivisa da molti. Il dato di fatto è che anche questa stagione sembra largamente superata. O meglio, il metodo della design review tende a essere ripreso secondo una logica che non è più pubblica, ma di mercato (Carmona, Marketizing the governance of design, JUD, 24-4, 2019). Oggi sono i developers che ricorrono volentieri a valutazioni di qualità del prodotto (svolte da agenzie private) per migliorare la reputazione e favorire le vendite. La conclusione è che – dopo tanti discorsi ambiziosi sul design control – oggi la forma più attuale è (soltanto) la formulazione di linee guida, da affidare al buon uso degli operatori e dell’opinione pubblica. Si tratta evidentemente della strategia più debole, che verosimilmente non rappresenta una scelta, ma l’esito più concreto, forse il solo possibile (infatti, la declinazione strategica-indicativa è un carattere emergente degli ultimi piani urbanistici). La debolezza intrinseca non consente di formulare previsioni sull’impatto, che dipenderà dalle condizioni del contesto. Non a caso, Carmona ha sentito il bisogno di rilanciare, nell’ultima fase, il tema della design governance: strumenti così deboli possono funzionare soltanto se la politica e la società civile dispongono di un sistema adeguato di pesi e contrappesi (Carmona, JUD, 21-6, 2016). La dimensione tecnica del design control passa in secondo piano rispetto al processo sociale e politico che apre la via alle trasformazioni.

4.3 Urbanisms.

La pluralità, anzi la proliferazione dei riferimenti disciplinari è un dato di fatto, che resta però poco indagato e neppure concettualmente bene ordinato. Le etichette continuano a moltiplicarsi e a sovrapporsi in un campo che resta mobile e indistinto: per esempio (con riferimento a una sola fonte, per brevità, e seguendo l’ordine dei tempi), new (Duany e Plater-Zyberg, 1991), postmodern (Ellin, 1996), everyday (Chase et al., 1999), post- (Kelbaugh, 2002), landscape (Waldheim, 2006 e 2016), integral (Ellin, 2006), insurgent (Hou, 2010), ecological (Mostafavi e Doherty, 2010), sustainable (Haas, 2011), worlding (Roy, 2011), emergent (Haas e Olsson, 2014), tactical (Lydon e Garcia, 2015), plural (Ryan, 2017), do-it-yourself (Douglas, 2018), regenerative (Ercan, 2019), bottom-up (Arefi e Kickert, 2019), temporary (Stevens e Dovey, 2023)… urbanism. Senza inseguire le singole tracce, in parte occasionali e di interesse secondario, mi limiterò a due considerazioni. La pura sequenza dei temi, nel corso del tempo, esprime già il senso generale del cambiamento annunciato. In una prima fase, negli anni ‘90 e primi 2000, la posta in gioco era (ancora) fare i conti con la tradizione moderna: superarla, forse sostituirla, secondo una varietà di tracce (Duany, Ellin, Kelbaugh, Waldheim). Rappresenta una parziale eccezione il contributo di Chase et al., Everyday urbanism, perché tendeva a spostare l’attenzione dalla sfera della competenza tecnica e professionale verso le pratiche correnti di uso della città. In seguito, negli ultimi 10-15 anni, sono emerse tre linee di interesse, più forti e diffuse che nel passato. La prima (la più banale) è il senso della pluralità irriducibile del campo disciplinare: perché significati e progetti devono cambiare secondo il contesto (si può trattare di mondi diversi: Roy); i processi in gioco mobilitano un complesso di istituzioni, attori, interessi e strumenti, la cui composizione non è scontata (Ryan); pertanto, è difficile prevedere l’evoluzione futura dell’urbanism, che sarà l’effetto emergente di azioni e interazioni, rispetto alla varietà delle posizioni ed esperienze attualmente in corso (emergent urbanism, Haas e Olsson). Si contempla dunque la complessità, senza indicare soluzioni rassicuranti. La seconda linea (non inattesa) è la sensibilità ecologica, che induce a privilegiare gli impegni della sostenibilità e della rigenerazione (Mostafavi e Doherty, Haas, Ercan). La terza (il vero segno di discontinuità) pone l’enfasi sul ruolo protagonista dei cittadini (grazie alle esperienze dirette della vita urbana, la percezione soggettiva dei problemi, le forme di cittadinanza attiva: Hou, Douglas, Arefi e Kickert). Contestualmente avviene una revisione (inevitabile) delle forme di piano e di progetto secondo criteri di flessibilità e adattamento (tactical, temporary urbanism: Lydon e Garcia, Stevens e Dovey). È evidente che un lungo cammino è stato compiuto rispetto alla tradizione moderna: oggi, la rottura, lo scarto si manifestano con ogni evidenza.

La seconda osservazione tende a riconoscere nella varietà dei riferimenti una distinzione fondamentale: da una parte, le concezioni dell’urbanism che propongono ancora una visione tecnico-professionale dell’urban design, scegliendo matrici e prospettive non equivalenti; dall’altra, gli appelli a una varietà di everyday practices, dove partecipazione e apprendimento sociale dovrebbero svolgere una funzione essenziale nei processi di progettazione, al fianco o al posto degli esperti (come ho appena notato, è questo il filone che ha assunto un peso crescente nel tempo, forse oltre ogni attesa). Gli orientamenti professionali hanno in comune la critica radicale di qualunque forma o progetto di ispirazione modernista: che diventa il facile bersaglio (una sorta di capro espiatorio) al quale attribuire la responsabilità di molti problemi incombenti. New urbanism e landscape urbanism sono certamente i movimenti professionali più solidi e competitivi. Il primo è un protagonista assoluto nelle tre riviste (anche se edite in Europa). Non manca qualche riferimento critico (Robinson, UDI, 2-1, 1997; Robbins, UDI, 3-1&2, 1998; Biddulph, JUD, 5-1, 2000; Grant e Bondanow, JU, 1-2, 2008; Stanley, JU, 5-1, 2012): verso un orientamento culturale che può essere considerato neo-tradizionalista e un progetto disciplinare che pretende di estendere la sua influenza anche in contesti e rispetto a problemi poco pertinenti. Tuttavia, l’inclinazione verso il movimento è generalmente positiva, e sembrano ancora alte le aspettative per gli sviluppi futuri (Morris e Kaufman, UDI, 3-4, 1998; Platowski e Marshall, UDI, 19-3, 2014; Dierwechter e Coffey, JU, 10-4, 2017). Non condivido queste valutazioni. Ritengo che il new urbanism sia una tendenza di nicchia: il suo contesto naturale è la realtà suburbana (delle periferie americane innanzi tutto), alle prese con gli effetti degenerativi dello sprawl. La cura che viene proposta è ragionevole: insediamenti a misura d’uomo, con una maglia interna che garantisce accessibilità ai servizi e facilita spostamenti pedonali (senza costringere a un uso sistematico dell’automobile); una connessione efficiente alle grandi reti di trasporto pubblico (come alternativa all’uso dell’automobile anche per i tragitti a distanza); una densità adeguata (per sostenere la localizzazione dei servizi fondamentali); una buona dotazione e distribuzione di aree verdi, secondo principi di sostenibilità e qualità ambientale; un certo grado di diversità (sociale, di funzioni, di tipi edilizi), nel rispetto dei principi della «just city» (Fainstein, 2010); un disegno spaziale unitario, che segue criteri di coerenza e qualità. Sulla carta, è difficile formulare obiezioni. Se però si osserva la realtà di Seaside (Florida), una delle esperienze simbolo del movimento, qualche dubbio può sorgere. In effetti, la visione virtuosa è sempre in bilico, per effetto di interessi e preferenze contrastanti. Gli utenti potenziali non sembrano disposti a condividere incrementi significativi di densità. La limitazione dell’uso dell’automobile non è accolta da tutti con favore. La diversità sociale e la diversificazione degli ambienti abitativi entro spazi limitati non corrispondono alle attese del mercato. Pertanto, è possibile, talora facile, il salto dal modello ideale a un ambiente costruito che risulta socialmente omogeneo e convenzionale per impianto e forme. I new urbanists dovrebbero fare i conti con questa contraddizione latente. Invece da 30 anni (nel 2023 hanno celebrato il 31° congresso) lamentano la diffusione inadeguata delle loro buone idee, a qualunque scala e per qualunque problema (come se l’obiettivo fosse trovare un’alternativa compiuta ai CIAM: Eugénie Birch, From CIAM to CNU, in Banerjee e Loukaitou-Sideris, 2011). Gli effetti sono a volte paradossali: si veda, come esempio limite, l’intenzione di applicare a Hong Kong (!) i principi del new urbanism (Ganesan e Lau, UDI, 5-1, 2000). Ritengo, invece, che il contributo sia circoscritto a un contesto suburbano e che l’approccio sia a notevole rischio di deriva tradizionalista. Come ha osservato Ajay Garde (University of California; JUD, 11-1, 2006), è questa l’impronta che Duany ha dato al movimento, mentre più marginale è rimasta la visione ambientalista e riformista di Peter Calthorpe (brillante professionista e studioso di San Francisco), nonostante il suo impegno per un rinnovamento delle idee e delle pratiche (Calthorpe, 2011).

Meno angusta, ma anche più vaga mi sembra la visione del landscape urbanism, che ha preso forma fra i tardi anni ‘90 e i primi 2000, ritrovando nel 2016 una visione d’insieme, a cura di Charles Waldheim (Harvard). Il punto di vista è interessante: il disegno degli spazi aperti ha una funzione costitutiva per il progetto di qualunque insediamento complesso (il ragionamento non vale soltanto per il quartiere, come nel filone precedente). Questo comporta ripensare il concetto di paesaggio urbano e porlo al centro della elaborazione urbanistica (in luogo delle singole architetture). Tuttavia, alcuni dubbi sono legittimi. Forse il tema principale deve essere individuato (e circoscritto) nel progetto di parchi e aree verdi? La figura dell’urbanista è destinata a ripercorrere le esperienze dell’architetto del paesaggio (con quale valore aggiunto)? Si rischia di riabilitare il modello modernista delle «towers in the park»? Queste obiezioni sono state formulate con inusuale veemenza dai new urbanists, che si sono scagliati impietosamente contro il filone emergente (Duany e Talen, 2013; si veda anche JUD, 20-3, 2015, la special issue, già citata, dedicata al confronto fra i due movimenti). L’impressione è di assistere a una contesa poco elegante fra interessi professionali in competizione. Una critica risulta oggettivamente fondata: la riflessione intellettuale, interessante, non è stata corroborata da concrete e vaste esperienze (anzi, come ho anticipato nel par. 3.3, uno dei casi studio considerati emblematici – Lafayette Park, Detroit, un progetto di urban renewal degli anni ‘50 – può essere accusato di appartenere ancora alla tradizione dell’urbanistica moderna). Resta però il valore intellettuale del movimento, che esprime una critica argomentata sia della cultura modernista, sia della (falsa) alternativa neo-tradizionalista, nel nome di valori ambientali e (sulla carta) progressisti. Infatti gli stessi landscape urbanists hanno gettato un ponte fra i temi del paesaggio e una visione ecologica della città (Mostafavi e Doherty, 2003), ispirata da principi riformisti. Resta da verificare l’impatto concreto di queste idee: in bilico fra esercizi firmati di architettura urbana e progetti di trasformazione di chiaro interesse e valore civico.

La dimensione civica è certamente al centro delle tendenze più recenti di everyday urbanism, che si spingono oltre le tradizioni professionali (di qualunque orientamento). L’esperienza della città da parte dei suoi abitanti è considerata decisiva per capire i problemi, scoprire le ragioni del cambiamento necessario, costruire e valutare i progetti conseguenti. Questa esigenza era stata colta, da tempo, da figure innovative (ma singolari) come Jane Jacobs, Christopher Alexander, Kevin Lynch; tuttavia, è stata sottovalutata dalle pratiche professionali e amministrative ordinarie. Sembra necessario riabilitare una concezione dell’urbanism fondata sulla vita vissuta, che richiama la visione originaria di Louis Wirth: «urbanism as a way of life» (1939). Questa era la tesi esposta da Chase et al. alle soglie del secolo: una prospettiva allora laterale per la cultura disciplinare. Di conseguenza, sembrava necessario rilanciare l’idea di urban design come «politica pubblica» (già anticipata da Barnett, 1974), dove il disegno tecnico svolge una funzione secondaria rispetto al processo di costruzione collettiva dell’intervento. Nei 20 anni successivi, questa visione ha conseguito sviluppi importanti, su due fronti. Dalla parte dei cittadini, sono cresciute le domande e (in qualche misura) le opportunità di ascolto, apprendimento, partecipazione attiva, in qualche caso “insorgenza”; cioè le possibilità di bottom-up urbanism (Hou, 2010; Arefi e Kickert, 2019). Dalla parte delle istituzioni, è emersa la necessità di rinnovare le modalità ordinarie di planning e design: l’informale, il temporaneo, il tattico («the art of the weak», diceva Henri Lefebvre) non sono più condizioni marginali o eccezionali; diventano caratteri tipici delle pratiche normali, secondo una logica incrementale, adattiva, pragmatica, pluralista (Lydon e Garcia, 2015; Madanipour, 2017; Stevens e Dovey, 2023). Una metamorfosi si compie dunque sotto i nostri occhi, anche se non sembra ancora trovare una eco matura nelle riflessioni disciplinari.

4.4 Public space, publicness.

L’interesse per lo spazio pubblico è un’eredità dell’urbanistica moderna, ma subisce una parziale reinterpretazione nel corso del tempo. Si manifesta, tradizionalmente, tramite speciali spazi iconici, carichi di valori simbolici, e come trama reticolare che costituisce la matrice fisica del fenomeno urbano. In seguito, l’attenzione gradualmente si sposta: verso le aree residuali (che testimoniano l’incompiutezza del progetto moderno), abbandonate o fragili, e in attesa di rigenerazione; ma anche verso le interazioni sociali che negli spazi urbani trovano ospitalità, come forme di vita, e diventano un requisito essenziale di qualità (nel senso bene testimoniato da Jane Jacobs, tanto tempo fa). Sorgono dunque dualismi inquietanti: fra luoghi della rappresentanza e aree marginali; fra rete materiale (alla quale Bill Hillier attribuisce un senso sociale che trovo fuorviante perché sarebbe un puro effetto meccanico della mobilità urbana) e spazi della interazione sociale (effettiva!). La riflessione dell’urban design su questi temi sembra rimanere in bilico fra le diverse prospettive, senza la volontà o il coraggio di scegliere. Mentre, nel tempo in cui i «pubblici» si moltiplicano (come già Dewey aveva intuito), diventa difficile fare appello ai valori della publicness per dare forza ai progetti. Infatti, i riferimenti alla sfera pubblica sono sempre più deboli nella letteratura. Il discorso sullo spazio pubblico produce tassonomie utili per distinguere la natura dei problemi e orientare, di conseguenza, strategie mirate di intervento (Carmona, JUD, 15-1 e 15-2, 2010; JU, 8-4, 2015). Può assumere una dimensione tecnica specifica (come abbiamo visto nelle tre riviste, in relazione a strade, parchi o spazi aperti) oppure privilegiare la sfera delle interazioni sociali. Questo diventa, progressivamente, il tema centrale di interesse (Haas e Mehaffy, UDI, special issue, 24-1, 2019), mentre la tecnica si limita a facilitare le relazioni, per quanto materialmente possibile. La deriva risulta evidente negli ultimi libri pubblicati sul tema da studiosi dell’università di Cincinnati (Mehta e Palazzo, 2020; Mehta, 2023). I requisiti più importanti del public space sono correlati alla sua natura di «bene comune»: accessibilità, inclusione, senso condiviso, possibilità d’uso sicuro e confortevole, rimedi alla erosione da consumo (Landman, UDI, special issue, 25-3, 2020). La funzione del progetto fisico è strumentale rispetto a questi obiettivi. Questo significa però che il discorso dell’urban design rischia di perdere la sua specificità tecnica per confluire nel vasto crogiuolo delle pratiche della vita quotidiana.

4.5 Neighborhood.

Se le tre riviste fanno testo, la più importante delle forme insediative dovrebbe essere il quartiere suburbano, o in generale ogni altro insediamento «a scala umana»: che sia village, new town o gated community. Infatti, sono assolutamente marginali gli spazi riservati ad altre forme che pure rappresentano realtà complesse, diffuse, verosimilmente cruciali: come downtown o edge city, metropoli o megalopoli, infrastrutture e paesaggi. L’orientamento rivela sentimenti e preoccupazioni fortemente radicati a una scala locale: con un atteggiamento forse nostalgico (neo-tradizionalista?), forse ideologico (per l’influenza di qualche mito comunitario). Anche se non manca la consapevolezza che in quei contesti esistono dei problemi aperti. Perché «villages don’t make a city» (Biddulph, JUD, 5-1, 2000), cioè offrono un’esperienza urbana oggettivamente limitata. Il sogno delle new towns di iniziativa pubblica sembra in declino in Europa, per mancanza di risorse, ma anche perché il bilancio delle esperienze compiute è solo parzialmente soddisfacente (dopo un quarto di secolo, il caso esemplare di Milton Keynes ha confermato che molti obiettivi sono stati mancati: Williamson, UDI, 1-4, 1996; Edwards, JUD, 6-1, 2001). Non può valere come un surrogato il modello della gated community: perché esprime interessi privati, nega alcuni valori della urbanità, produce effetti perversi (dati confermati dalla sua esportazione in altri mondi, come Cina o Brasile: si veda il quadro di sintesi di Xu e Yang, UDI, 13-4, 2008; 14-2, 2009). Queste perplessità, tuttavia, non sembrano determinanti, perché il vero protagonista del discorso tecnico-professionale, secondo queste riviste, è il quartiere suburbano (e lo stile di vita conseguente). Le retoriche più comuni assumono la forma tipica del «racconto urbanistico», nel senso di Bernardo Secchi (1984): c’era una volta un modello di quartiere che assicurava una buona vita; crescita e dispersione insediativa hanno messo in crisi quella realtà; grazie all’impegno generoso e illuminato di esperti e attivisti (con allusioni evidenti al movimento del new urbanism) si intravede la via per invertire la rotta. I temi chiave sono la crisi del quartiere tradizionale; le tendenze degenerative dello sprawl urbano; la sfida, la possibilità di ricreare un ambiente e una vita di quartiere capaci di assicurare non solo una nuova funzionalità, ma un grado superiore di coesione e qualità. La soluzione sarebbe individuata nelle ricette del new urbanism che ho già commentato (par. 4.3). La visione dei problemi è dunque strettamente correlata a un ambiente particolare, peraltro sterminato e ben radicato nel centro del mondo (Rothblatt e Garr, 2021; Abbott, 2023). La letteratura si limita a riflettere alcuni interessi diffusi e influenti, senza la capacità, la volontà di ripensare la pluralità delle strutture insediative, indagare le loro mutue relazioni, anticipare i problemi critici del futuro. Una visione datata e in fondo provinciale. Che si fonda su una tradizione largamente inventata e si illude (o illude lo spettatore) sulle possibilità di rigenerarla con ricette semplificanti (dove troppo semplice non è la soluzione tecnica, ma l’idea di comunità e di urbanità che resta sottesa). Il libro di Emily Talen, Neighborhood, 2018, offre una rappresentazione perfetta della situazione. In questo senso, l’urban design diventa uno strumento ideologico, oltre che di valorizzazione professionale.

4.6 Walkability.

Anche su questo fronte gli orientamenti della letteratura mi sembrano riduttivi. L’osservatore troverà scarsi riferimenti alle modalità alternative della mobilità e tanto meno alla dimensione infrastrutturale dei problemi. Emerge invece (con un tasso rapidamente crescente negli ultimi dieci anni) un’attenzione speciale per gli spostamenti pedonali (Speck, 2013, 2018): una scelta certamente correlata all’interesse per il quartiere come ambiente insediativo a scala umana, ma anche all’ossessione americana per alcuni problemi di salute e vita buona (camminare fa bene, non si cammina abbastanza; la riluttanza popolare sembra ancora troppo forte e diffusa). In fondo, anche questa è una scelta provinciale, che riflette problemi peculiari del contesto di prossimità, mentre sono trascurate altre grandi questioni infrastrutturali e della mobilità, che pure hanno un impatto importante nello spazio e nel tempo. Una larga parte dei contributi si limita a ragionare sulle misure più opportune del fenomeno: quali sono gli indicatori descrittivi più significativi; quali i fattori materiali e comportamentali che possono favorire la disponibilità a camminare; quali le percezioni dei soggetti sull’idoneità degli spazi agli spostamenti pedonali. Qualche autore si avventura lungo la via della «filosofia del camminare»: what is a walkable place? the walkability debate (Forsyth, UDI, 20-4, 2015). Una pratica semplice e naturale diventa un indicatore influente della qualità dell’abitare (Forsyth e Southworth, JUD, 13-1, 2008). Possiamo osservare perciò una dilatazione del tema: nasce come interesse complementare delle indagini sulla human scale degli insediamenti urbani; diventa un pilastro potenziale della qualità di una forma insediativa. In un caso e nell’altro, trovo francamente eccessivo il dispendio di energie, se teniamo conto della banalità delle conclusioni di vaste ricerche.

4.7 Urban (design) quality.

È scontato che la qualità del progetto e della vita urbana siano temi centrali per la legittimazione e il successo dell’urban design. Il discorso procede nel solco del lavoro pioneristico di Kevin Lynch, senza poter contare, nella maggior parte dei contributi, su una pari creatività e capacità di innovazione. L’ipotesi è sempre quella di tracciare uno schema concettuale pertinente e convincente, che possa definire un complesso di requisiti della buona forma e del buon progetto urbano, ai quali assegnare un valore normativo: almeno di indirizzo e valutazione, se non direttamente prescrittivo, date le tendenze più attuali del design control (par. 4.2). Un punto di differenza rispetto al contributo originario di Lynch riguarda la selezione dei requisiti: l’«immagine della città» che Lynch ha disegnato traeva spunto dalle percezioni e dalle esperienze dei soggetti, ma rappresentava comunque una sintesi dell’esperto. Oggi l’everyday urbanism, all’apparenza, è sempre più condizionato dalla volontà di dare voce al popolo, mentre più incerto o ambiguo diventa il rapporto con la competenza professionale. In ogni caso, diversi schemi concettuali sono stati proposti, negli ultimi anni, per aggiornare la visione di Lynch (un quadro di sintesi esauriente si trova in Mehta, 2023). Si tratta per lo più di contributi equivalenti, che differiscono solo per scelte o approfondimenti marginali. Uno dei più completi, a mio avviso, è la proposta di Ewing e Clemente (2013), che potremmo assumere come testimone dell’intera famiglia. Lo schema introduce sette requisiti. Un luogo di qualità deve offrire un’immagine all’osservatore, distinta (riconoscibile, capace di suscitare attenzione e memoria) e dotata di senso (imageabilty). Deve garantire una visuale ben delimitata e proporzionata, grazie a giochi opportuni di ampiezze, altezze e volumi (enclosure). Dimensioni, struttura e articolazione delle componenti fisiche devono essere a misura d’uomo, cioè alla portata dei sensi umani (human scale). I bordi dello spazio fisico non devono costituire un confine chiuso e invalicabile, ma consentire di vedere o immaginare oltre i confini (transparency). La varietà degli elementi e delle relazioni a disposizione diventa un punto di forza (complexity). Non deve mancare, però, un grado adeguato di ordine visuale, che dipende dalla compatibilità o meglio dalla complementarità degli elementi (coherence). La struttura spaziale sottesa deve essere comprensibile e deve favorire l’uso dei luoghi, grazie anche alla disponibilità di opportuni landmarks e alla possibilità del soggetto di costruire le sue mappe cognitive (legibility). Infine, i movimenti nello spazio devono essere facilitati da distanze a misura d’uomo e da connessioni adeguate, materiali e visive, fra tutti gli elementi (linkage). Un progetto di qualità deve curare il rispetto di questi requisiti. Raccomandazioni ragionevoli, che seguono le tracce di Lynch (imageablity, legibility) e poi introducono qualche criterio compositivo e di funzionalità degli spazi rispetto ai movimenti; senza preoccuparsi, all’apparenza, delle tensioni potenziali fra alcuni principi (enclosure vs. transparency, complexity vs. coherence). Resta il limite generale delle raccomandazioni, che dovranno sempre essere interpretate nel contesto culturale e sociale specifico. Se anche fossero rispettate secondo le migliori intenzioni, l’esito non sarebbe scontato, perché la qualità non è determinata (soltanto) dal progetto e dalla decisione: come dice il poeta, «al andar se hace camino» (Antonio Machado, 1912). Questa prospettiva non è priva di conseguenze: viene a crescere il ruolo dei behavioral studies e della psicologia ambientale; nello stesso tempo, meno determinante risulta il contributo tecnico dell’urban design. Infatti, i manuali più recenti segnalano la debolezza crescente della presunta disciplina: competenze parziali e poco innovative, ambizioni più modeste (si veda per esempio Avi Friedman, 2021). Inoltre, gli schemi concettuali adottati per rappresentare e valutare la qualità dello spazio pubblico tendono ad assegnare un ruolo sempre più marginale ai temi della physical configuration (anche rispetto ai limiti già palesi in Ewing e Clemente), per privilegiare i comportamenti urbani e le esperienze vissute (Varna, 2014; Mitrašinovic e Mehta, 2021). La tendenza è chiara: la tecnica ha bisogno di robusti complementi che solo le pratiche possono generare.

4.8 Placelessness, place-making.

Il richiamo a Machado, nel paragrafo precedente, può spiegare il sostanziale (clamoroso) fallimento dell’idea di place-making. Doveva essere il tema forte e l’approdo naturale del nuovo urban design (la prospettiva appariva scontata agli esordi delle tre riviste, come ho documentato). Sono passati 30 anni e i risultati sono stati oggettivamente deludenti. Un indizio quantitativo: i contributi espressamente dedicati al tema, nel lungo periodo, sono diventati sorprendentemente rari nella letteratura specializzata. Inoltre, una parte cospicua dei casi si limita a riprendere, in termini divulgativi, il dibattito sociologico o geografico sul concetto di luogo e sulle differenze fra spazio e luogo. Questo sfondo diventa utile per ragionare sulla diffusa placelessness di molti attuali ambienti insediativi e (purtroppo) anche di alcuni nuovi progetti di trasformazione urbana. Resta incerto o indeterminato il passaggio dall’analisi dei luoghi al place-making effettivo. In passato, due vie brevi sono state esplorate. La prima ha inteso la generazione di luoghi come un semplice esercizio di arredo urbano. Questa visione semplificante (Kathy Madden, Place-making in Urban Design, in Banerjee e Loukaitou-Sideris, 2011) non poteva offrire una risposta adeguata: infatti, è stata sostanzialmente abbandonata (nelle riviste sono ormai rarissimi i contributi sul tema). La seconda via si affida alla metodologia (Thomas, 2016): sarebbe possibile concepire e applicare qualche procedura capace di guidare alla scoperta o rigenerazione dei luoghi. Può valere come esempio il metodo «Place-Maker» che Marichela Sepe (CNR, Napoli) propone e utilizza da molti anni: una procedura laboriosa che evidenzia caratteri tipici di un ambiente insediativo, combinando l’analisi topografica con le percezioni degli abitanti (Sepe, 2013). In tal modo, si produce quella che Lynch avrebbe chiamato una «immagine della città» (del luogo), ma che l’autrice sovraccarica indebitamente di significati come (presunta) identità locale (dove, come spesso accade, il concetto di identità è usato in modo improprio). Che questo possa essere inteso come un contributo di place-making è un sintomo della confusione che regna nel campo. In realtà, disponiamo ormai di esperienze sufficienti per ripensare il concetto con grande cautela. In condizioni «insorgenti», a volte si possono verificare situazioni di place-taking da parte dei soggetti attivi (Hou, 2010; Arefi e Kickert, 2019). È normale, anzi doveroso, che politica e progetto diano vita a processi di place-shaping (Carmona ha dimostrato l’importanza dell’impegno, ma anche messo in evidenza che le dimensioni sociali ed evolutive del processo possono diventare più rilevanti di quelle strettamente tecniche: JUD, 19-1, 2014; 21-1, 2016). Meno plausibili sono le operazioni di place-making, se intese come progetti compiuti e auto-sufficienti (Carmona, UDI, 24-4, 2019; Larkham, UDI, 25-4, 2020). La generazione di un luogo, infatti, non può prescindere dalle esperienze effettive di vita, che avranno luogo nel corso del tempo. Come poeticamente spiega Machado. Forse è per questa ragione che il tema è diventato marginale nella letteratura dell’urban design, mentre suscita ancora l’entusiasmo dei “creativi”, nel mondo delle arti e della comunicazione (si veda il vastissimo Handbook of Placemaking curato da Cara Courage, 2021, dove i contributi sul tema da parte della progettazione urbana sono quasi irrilevanti). La conseguenza, ancora una volta, è la presa d’atto di uno slittamento degli interessi: dal puro disegno fisico verso le pratiche della vita quotidiana.

4.9 Urban heritage (urban identity, urban regeneration).

Il patrimonio storico urbano potrebbe rappresentare un luogo tipico, che ha retto il corso del tempo oppure ha bisogno di una rigenerazione. Dal punto di vista dell’urban design, il tema introduce alcuni dilemmi. Il primo riguarda l’oggetto: si deve trattare (soltanto) di icone di alto valore simbolico e architettonico, oppure dell’everyday heritage, come ambiente ordinario di vita che merita rispetto e cura? Alcune culture della conservazione privilegiano i grandi oggetti. Una concezione del design che adotta un orientamento comportamentistico non può che concedere maggiore attenzione al trattamento degli ambienti insediativi ordinari, ereditati dal passato. La letteratura appare in bilico fra le due visioni, almeno nelle prime fasi (rinvio ai contributi fondamentali di Larkham e Pendlebury, JUD, anni ‘90). Nel corso del tempo è diventata più evidente e condivisa l’importanza dell’everyday heritage. Il secondo dilemma riguarda gli strumenti normativi. Nei primi anni ‘90, in Gran Bretagna la regolazione vincolistica di aree ed edifici storici era la prassi (par. 3.1). In seguito, anche in questo campo è emersa l’esigenza di una governance più flessibile e pro-attiva: è iniziata così la stagione dei progetti di rigenerazione urbana. Che, come è noto, sollevano una varietà di problemi: in bilico fra interesse pubblico e valorizzazione privata, fra istanze di tutela dell’esistente o di trasformazione innovativa. Un punto fermo si è consolidato rapidamente: lo scopo di questi progetti non può essere la conservazione di una forma fisica, ma la cura di una forma di vita, che evolve nel tempo. Non raramente, lo spirito della conservazione ha investito (indebitamente) non solo le forme, ma la presunta identità locale (tema già anticipato nel par. 4.8). Dispiace constatare che una parte della letteratura adotta questa nozione in modo superficiale e fuorviante, come accade a certi ambienti della politica che abusano ideologicamente degli appelli identitari: agli uni e agli altri sarebbe utile qualche riflessione sulla «ossessione identitaria» (Remotti, 2007, 2010), sul «furore dell’identità» (Bettini, 2020), sulla «identità che non esiste» (Jullien, 2018). Più misura e sobrietà, su questo fronte, sarebbero un segno di maturità professionale (e responsabilità sociale). In ogni caso, è possibile concludere che anche i temi dell’heritage, in questo quadro, tendono a perdere la specificità originaria, per confluire nel vasto campo delle esperienze urbane e dei nessi tra forme e comportamenti dell’abitare.

4.10 Urban design (per concludere)

Alla fine, dopo un lungo percorso, come deve essere intesa questa etichetta? «Shaping the cities and their public realm»: potrebbe essere questo l’impegno da condividere, secondo Aspa Gospodini (University of Thessaly; JUD, 25-1, 2020). Alcune fonti, però, sembrano voler circoscrivere il campo. «Shaping the public space»: ecco la priorità (Dovey, ivi), nell’ipotesi che il disegno degli spazi pubblici abbia un effetto generativo sulla formazione o trasformazione della città. Questo non significa che il tema delle architetture urbane (o della città) venga a svolgere una funzione decisiva. Al contrario, con una certa sorpresa ho documentato che la letteratura del settore dedica un’attenzione solo marginale ai grandi progetti urbani. La giustificazione sarebbe (come osserva Alex Krieger, Harvard, in Krieger e Saunders, 2009, cap. 8) che l’urban design, come campo di esperienze e di riflessioni, non deve occuparsi necessariamente della formalizzazione e realizzazione di progetti concreti; potrebbe limitarsi a predisporre le condizioni tecniche e procedurali sulla base delle quali i progetti finali saranno portati a compimento (in questo senso, la funzione non sarebbe diversa da quella del planning strategico, se non per la natura specifica di alcuni problemi, strumenti e argomenti). Secondo altre voci (si veda sempre il quadro rappresentato da Krieger, ivi), la visione potrebbe essere ancora più riduttiva: nulla più che un «frame of mind», utile per impostare in modo adeguato i problemi reali di progettazione urbana (il rischio è di cadere nella pura metodologia, come è accaduto a certe correnti del planning). Un dato non sembra in discussione (infatti, generalmente viene eluso o lasciato in ombra): non vi è ragione per intendere l’urban design come una «disciplina» (Krieger, ivi; Dovey, JUD, 25-1, 2020). Se lo fosse, non potrebbe permettersi di lasciare irrisolti alcuni dilemmi sui fondamenti paradigmatici: arte o scienza? Non mancano, ancora oggi, ragionamenti confusi sulla possibile natura di scienza o pseudoscienza: discorsi vani, come ho argomentato più volte (Palermo, 2022a, cap. 3.1), perché in questa famiglia di pratiche il giudizio di verità non è mai determinante. Più appropriata è l’idea di arte, anche se molti studiosi del settore si preoccupano di prendere le distanze dalle concezioni più ludiche e auto-referenziali del concetto, per ribadire invece le responsabilità etiche e sociali (Stephen Marshall, Bartlett, JUD, 21-4, 2016). La prospettiva a mio avviso è assolutamente pertinente e certamente non riduttiva, purché non sia separata dalla sfera essenziale del crafting (Palermo 2022a, cap. 3.6). Trovo esecrabile la tentazione di dare forza all’approccio puntando sulla «art and science of place-making» (Cidre, Bartlett, JUD, 21-5, 2016): formula priva di giustificazioni e di senso. Si tratta, invece, di una forma di «art and craft» che deve essere sviluppata nei modi più adeguati in relazione al tema e al contesto specifico. La classificazione di diversi tipi di spazi urbani (Carmona, JUD, 15-1, 15-2, 2010) e di diversi tipi di pratiche progettuali (Lang, JUD, 1-1, 1996) sono una componente essenziale della (indispensabile) articolazione del discorso. Ogni tentativo di individuare un quadro di riferimento unitario e generale porta a formulazioni vuote o di scarsa utilità. Come la definizione – che è impossibile non condividere – che Stefano Cozzolino et al. (Dortmund) hanno costruito grazie a una serie di comparazioni e semplificazioni. Corretta, ma sostanzialmente irrilevante: «urban design is a purposeful activity with collective and public concerns that deals with the production and adaptation of the built environment at scales larger than a single plot or building…» (JUD, 25-1, 2020). Il problema è come questo intento generale viene concepito e realizzato nella prassi. Emerge dunque un paradosso: sembra impossibile chiarire e condividere, in termini generali e unitari, di che cosa veramente si tratta; quando una soluzione plausibile si delinea, rischia di risultare troppo banale o poco determinata. Non esiste alternativa al confronto reale sulle pratiche, con l’attenzione necessaria alle differenze contestuali, ma anche scelte responsabili rispetto alle priorità e alle possibilità in gioco. La stessa conclusione vale, a mio avviso, nel campo (altrettanto ambiguo e sfuggente) del planning: come sostiene Ernst Alexander (2015), «there is not planning, only planning practices». Il corso delle pratiche ci segnala che è in atto una deriva sostanziale: la celebrazione della tecnica, del progetto, del controllo, ha lasciato il posto alle illusioni del place-making, ma ora si addensano le incognite del tactical, temporary, informal (messy) urbanism.

5. Una tacita deriva

La letteratura che ho preso in considerazione rivela vuoti inattesi e omissioni forse sorprendenti, ma certo non banali: le implicazioni, le conseguenze sembrano rilevanti e non positive. Come interpretare e governare l’evoluzione delle forme urbane nei processi insediativi a scala vasta attualmente in atto in certi contesti? Come orientare il lavoro progettuale di fronte agli impegni e alle responsabilità delle grandi trasformazioni urbane «per parti», la realtà più comune e influente in molti territori? Come valutare e sviluppare la contaminazione eventuale della regolazione urbanistica con principi morfologici e requisiti progettuali? Come evitare la deriva meramente comunicativa delle visioni spaziali e strategiche, assicurando sempre qualche contributo effettivo ai temi della forma e organizzazione del territorio? Come concepire progetti di paesaggio più sensibili alle esperienze vissute dei luoghi, non solo a ragioni presunte di identità o di forma? Come approfondire l’impatto morfogenetico e il contributo effettivo allo sviluppo sociale-territoriale dei progetti di grandi infrastrutture? Non sono domande inedite; sono note le difficoltà di produrre, al riguardo, argomenti originali e significativi. Il problema è che su questioni sostanziali di quest’ordine non solo mancano contributi rilevanti nelle riflessioni più recenti, ma diventa palese una caduta obiettiva di attenzione: si tratta di temi che sembrano ormai al margine dell’agenda. Non sembra neppure possibile sostenere che l’orientamento oggi prevalente sia offrire contributi di dettaglio, relativi a funzioni e spazi specifici, ma pur sempre coerenti con una visione d’insieme, che possa sembrare plausibile, legittima, condivisa. Nella maggior parte dei casi si tratta, invece, di frammenti, sostanzialmente autonomi e privi di un riferimento comune: come se la ricomposizione delle parti non fosse un problema rilevante, e comunque l’esigenza di compiere qualche progresso graduale rispetto a temi particolari fosse un obiettivo giustificato, almeno nel breve termine. Non a caso, sono sempre più frequenti i richiami alla logica del tactical urbanism. «Passi brevi, ma visione lunga»: come è noto, era questo l’auspicio e il programma di Patrick Geddes. Oggi il dato evidente è che l’orizzonte dei problemi è circoscritto, nello spazio e nel tempo, mentre le esigenze di flessibilità, contingenza, adattamento diventano irresistibili nei fatti (anche se restano in secondo piano in linea di principio). Si tratta certamente di una revisione in atto dei modelli professionali, ma probabilmente anche del riconoscimento che il ruolo delle pratiche sociali è determinante. Una prospettiva modesta, che in ogni caso merita rispetto, al confronto con le divagazioni spesso arbitrarie degli utopisti o con le pretese imperiose (ma debolmente giustificate) dell’urbanistica moderna? Se qualche progresso parziale è possibile, sarebbe irragionevole rinunciare alle opportunità, trascurando gli sviluppi necessari dei concetti, delle tecniche, delle sperimentazioni. Resta il fatto che l’urban design è stato animato da ambizioni civiche, che spesso hanno preso la forma del grande progetto urbano o del grande disegno di piano: dove l’attributo non richiama la grandeur, irrimediabilmente datata, di «city beautiful», ma la capacità di incidere positivamente sulla sostanza e sulla qualità dei processi di trasformazione, nel contesto dato.

Oggi dovremmo concludere che quelle aspirazioni sono state vane e prive di misura? La questione appare incerta, ma io non credo che possa essere improvvisamente elusa. Una visione parziale e incrementale non è necessariamente un limite e un problema. Tuttavia, un’eventuale revisione di rotta, rispetto alle ambizioni del passato, dovrebbe essere giustificata con buoni argomenti. Mentre la mia impressione è che la letteratura si limiti a segnalare una deriva di fatto, senza una vera riflessione critica sulle ragioni dei mutamenti in atto. Non solo: rischia di venire meno il requisito della specificità dei contributi. L’orientamento «comportamentista» che oggi sembra prevalere nel mondo dell’urban design è un dato che emerge anche dalla letteratura sul fenomeno urbano (se consideriamo le tendenze editoriali più recenti di riviste come City, la più solida Cities, persino la classica Urban Studies) e dalla pianificazione stessa (come ho mostrato in Palermo, 2022b, analizzando una selezione di fonti; il giudizio sarebbe confermato anche esaminando altre riviste autorevoli, come il glorioso Journal of Planning Education and Research). Una pluralità di tradizioni sembra dunque convergere verso un approdo comune, che appare alquanto riduttivo. Se così fosse, il bilancio a mio avviso non potrebbe essere positivo: non basta agire sui frammenti, senza chiedersi quale è, o potrebbe essere, la sorte delle buone intenzioni che hanno animato gli sviluppi disciplinari nel lungo periodo, se pur con esiti assai controversi. Se (urban) planning e design aspirano ancora a una migliore reputazione e rilevanza sociale, non possono eludere questa famiglia di problemi. Forse non basta occuparsi localmente di walkability, main street, giardini o shopping malls. Senso dei luoghi, sfera pubblica, sostenibilità ambientale e sociale, condizioni materiali dell’abitare sono questioni determinanti che non è sufficiente evocare: richiedono una capacità d’azione effettiva rispetto a temi e contesti determinati.

6. Alla ricerca di punti fermi: ipotesi, responsabilità

In un quadro eterogeneo, fluido, sfuggente, l’orientamento che auspico forse potrebbe contare su due punti fermi. L’organizzazione dello spazio in termini di forma (per riprendere la formula pregnante di Giancarlo De Carlo) è pur sempre la missione principale non solo del design, ma della stessa pianificazione. La conseguenza è che non sarebbe giustificato un entusiasmo eccessivo, tanto meno esclusivo, verso la forma dei piani di ultima generazione: nulla più che uno scenario strategico che potrà essere precisato soltanto tramite politiche e progetti mirati. L’approdo a questa versione debole della strumentazione disciplinare (che è condiviso anche dalla letteratura del design, come ho documentato) non è stato una conquista, ma l’esito di una lenta deriva, segnata dal fallimento di altre visioni, più ambiziose e prescrittive. Non mi sembra lecito dimenticare che le posizioni attuali sono state a lungo contrastate, in Italia, da larga parte dell’area disciplinare: non solo dagli esponenti della corrente massimalista, ma anche dai migliori interpreti del riformismo urbanistico, che infatti hanno criticato severamente, alle soglie del secolo, la visione e le esperienze di Luigi Mazza, che oggi rappresentano uno dei pochi riferimenti ancora significativi e potenzialmente influenti. Inoltre, sarebbe ingenuo dimenticare che un orientamento strategico è stato sperimentato, in altri paesi, da quasi mezzo secolo: nessuna illusione è consentita; i limiti sono chiari, non possono essere ignorati.

Questo comporta, a mio avviso, la necessità di un cambio di paradigma (Palermo, 2022a): l’urbanistica oggi non può occuparsi soltanto delle pre-condizioni dei fatti urbani (nella forma di regole o visioni), ma deve assumere responsabilità dirette nel campo delle azioni effettive, cioè della produzione di politiche e progetti, concreti e specifici, coerenti (si spera) con una visione condivisa. Ritengo che la conclusione valga per l’interpretazione attuale dell’urban planning come per quella del design (che in questo senso potrebbero essere intesi come filoni convergenti). Non basta l’appello al «frame of mind» come premessa e guida di azioni o eventi futuri. Riemerge l’attualità del profilo dell’architetto-urbanista (una sfida largamente incompiuta) e vi è ragione di chiedersi se e come la cultura urbanistica sia in grado di contribuire, in modi originali e influenti, alla qualità della progettazione e delle trasformazioni urbane. Sarebbe un errore, però, concentrarsi esclusivamente sulle dimensioni fisiche e formali dell’impegno progettuale – come ultima fase di quella oscillazione fra fisico e sociale che, con alterne vicende, tende a riprodursi da più di un secolo. Dalle esperienze dovremmo avere imparato che lo sviluppo di un progetto urbano rilevante pone sempre problemi sensibili di policy. L’urbanista oggi dovrebbe saper trarre profitto dalla ormai lunga familiarità con questioni di consensus-building, decisione, processo e gestione. Sensibilità e competenza su questi temi sono requisiti probabilmente indispensabili, che dovrebbero accompagnare le capacità progettuali in senso stretto (mi sembra questo il secondo punto fermo). Alcune voci interne al mondo dell’urban design hanno colto da tempo questa esigenza: da Jonathan Barnett, che mezzo secolo fa – sulla base delle esperienze dirette svolte a New York – concepiva quel campo di pratiche come una public policy (Barnett, 1974), fino a Matthew Carmona, che recentemente (nonostante le difficoltà ormai palesi dei form-based codes e dei «piani disegnati») ha voluto rilanciare il tema della design governance in UK (Carmona, JUD, 19-1, 2014). Questo significa non eludere le responsabilità professionali, per abbandonarsi al flusso delle pratiche sociali secondo la deriva in atto, ma provare a rinnovare la tecnica in forme più pertinenti ed efficaci. Il quadro che si delinea – non ignoro questo limite – può destare un certo imbarazzo. Mentre la letteratura più recente sembra privilegiare interessi di parte, sempre più minuziosi e circoscritti (talora effimeri), la sostanza dei problemi continua a rinviare alle sfide (non inedite) della complessità. Nulla di nuovo, all’apparenza. Forse un eterno ritorno a istanze datate e aspirazioni irrisolte è la sorte più verosimile? L’eventuale discontinuità, rispetto a un passato generalmente deludente, dipenderà soltanto dalla capacità effettiva degli urbanisti di trarre qualche insegnamento da esperienze ormai estese e spesso tormentate. Dobbiamo accettare un ridimensionamento sostanziale di ruoli e responsabilità, o accontentarci della celebrazione retorica di una complessità puramente declamata? Oppure si intravedono le condizioni per scelte e azioni più responsabili e mature, capaci effettivamente di incidere sul corso degli eventi?

Saper ripensare e praticare – al tempo stesso e insieme – il progetto e le politiche urbane come costrutti sociali (come hanno insegnato De Carlo e Wildavsky, per indicare solo due fonti esemplari, evidentemente indipendenti): questo sembra essere il passaggio, il requisito essenziale. L’ipotesi ha preso forma da diversi decenni, ma i progressi sono stati molto parziali. Un filone di «analisi delle politiche» dedica oggi l’attenzione dovuta ai temi del policy design, cioè ai problemi sostantivi (non solo procedurali) che la costruzione e attuazione di una politica crea in un contesto specifico (Howlett, 2019; van Buuren, Lewis e Peters, 2023); l’impegno, però, generalmente si arresta alla soglia dei temi della progettazione fisica. Dalla parte degli urbanisti, invece, la riscoperta recente della dimensione strategica dei problemi non sembra indurre al «return of the political» (Mouffe, 1993), ma solo a qualche esercizio metodologico e comunicativo. Le visioni innovative di Pierluigi Crosta (1984) e Luigi Mazza (1987), che risalgono a tempi ormai lontani, sono rimaste senza sviluppi originali e rilevanti nel mondo dell’urbanistica italiana. La deriva inesorabile verso il tactical urbanism vale, però, come una conferma sostanziale delle buone ragioni, della necessità di quelle intuizioni. Anche se gli esiti sembrano incerti, la via è chiaramente tracciata: senza alternative. Un futuro significativo per l’urban design (come per il planning) dipenderà, a mio avviso, dalla capacità di rispettare le due condizioni evocate in questo paragrafo.

 

Nota

Nota. Per brevità, non citerò in questa sede tutti gli articoli delle tre riviste segnalati nel testo (il numero sarebbe troppo elevato). Il lettore dispone dei riferimenti essenziali: autore, numero del volume, numero della issue, anno di pubblicazione. Le riviste sono accessibili in rete; è facile rintracciare titoli e testi completi.

 

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