EWT N.30/2024

N. 30

Davvero oltre il progetto urbano?

Alberto Clementi

1. Il punto

A scanso di equivoci, vorrei dichiararmi da subito un sostenitore convinto del progetto urbano. Però riconosco che questo strumento oggi non funziona più, è vecchio e da riformare profondamente, per lo meno in Italia dove da tempo è diventato troppo ingessato e del tutto incurante degli effetti economici, sociali e ambientali generati dagli interventi. In sintesi, si è cercato di praticarlo finora senza badare alle politiche necessarie per farlo diventare azione concreta di sviluppo, abbandonando la propria leziosità morfogenetica. Il suo ritorno vuol dire soprattutto il superamento delle più comode logiche di intervento separate e autocentrate per singoli oggetti nello spazio fisico. Rinvia piuttosto all’indispensabile accoppiamento critico tra progetto e politiche di intervento, invece che muovere da considerazioni sulla forma fisica o da piani generali ispirati alle migliori intenzioni ma del tutto ineffettuali nei fatti. In particolare, adesso più che mai non si può eludere la questione della qualità dei risultati morfologici conseguiti. Sotto questo profilo c’è ancora molto da fare, forse favorendo l’emergere di una figura intermedia tra il planner ed il designer con cui affrontare meglio il complesso rapporto tra politiche e progetti per lo spazio urbano.

Il mio contributo si snoda molto sinteticamente in tre parti e nove punti: A. lo stato attuale delle cose, con una riflessione critica sull’urbanistica attuale (2), la riaffermazione della necessità del progetto urbano (3), e le resistenze da vincere (4). B. La nuova natura che potrebbe caratterizzare il progetto a rilevanza urbana (5), muovendo da una possibile idea di città al futuro (6), e le difficoltà per la sua condivisione (7), con le condizioni da assicurare (8). C. Infine la formazione dei nuovi specialisti mirata alla costruzione del progetto a valenza urbana (9).

Una possibile conclusione è che per innovare radicalmente il progetto a valenza urbana alla luce delle nuove condizioni (si pensi ad esempio al PNRR) occorre promuovere specifici sistemi formativi, che producano figure capaci di costruire politiche integrate d’intervento e al tempo stesso di elaborare progetti ad una scala rilevante, coniugati strettamente alle politiche ma ancora sensibili alla questione della qualità dello spazio fisico. Il tempo sembra ormai maturo per l’emergere di questa nuova pratica, restano però alcuni nodi da sciogliere soprattutto dal punto di vista del sistema di gestione e della qualità degli esiti morfologici del progetto.

2. Urbanisti, fateci sognare!

Discreditata e talvolta delegittimata, l’urbanistica italiana di questi anni soffre di una crescente marginalità che la fa scadere spesso in una sconsolante irrilevanza nel governo reale delle città. Per rilanciarla, sarebbe necessario prima di tutto rianimare la capacità di sognare della popolazione, mentre i cultori della nostra materia – fin troppo tradizionalisti – insistono inutilmente su perfezionamenti tecnici e normativi forse necessari ma sempre più lontani dal sentire comune.

Anche un urbanista riluttante ma in fondo ottimista ma come me è costretto a fare i conti con questa innegabile tendenza negativa. Si avverte ovunque il bisogno di una urbanistica che sappia parlare al secolo nuovo, lo sappia ascoltare e interpretare, e che magari sappia contribuire al risveglio del desiderio imperioso di un abitare migliore. E invece, nella oggettiva difficoltà di mettere mano all’esistente, siamo costretti a prendere atto che la freccia del tempo sembra andare nella direzione opposta, del disincanto crescente e della precarietà dei nostri destini che ci allontana dalla fiducia indispensabile per abbandonarci a sogni individuali o collettivi.

Come sostiene il filosofo Galimberti, “oggi il canto dell’urbanistica appare spento, sostituito da nenie insopportabili, recitate nella lingua di tutti i giorni. Non accende più alcun fuoco che possa fare luce sulle nostre attese e i nostri sogni sul modo di abitare la città e il territorio. Il suo volto attuale è più affine alla rappresentazione dei geometri che alle invocazioni di chi cerca una condizione più soddisfacente di abitare il mondo”. Così anche il maestro di strada Lorenzoni “L’urbanistica è lungimirante e visionaria o non è. O è capace di mettere in pratica e rendere tangibili qui ed ora alcuni frammenti di un futuro più giusto e in controtendenza rispetto alle discriminazioni, oppure non è credibile e non saprà raccogliere intorno a sé bisogni e desideri di cambiamento, che costituiscono l’unica leva capace di muovere la storia”.

3. Necessità del progetto urbano

Tutto ciò riguarda naturalmente anche la questione del progetto urbano, uno strumento assai controverso con cui si è cercato di fare città soprattutto nella Francia di fine del secolo scorso, e che in Italia è stato invece progressivamente abbandonato, soppiantato dalla separazione tra piccoli interventi e grandi opere che fanno capo ad attori differenti assolutamente poco disponibili al coordinamento reciproco. In questa situazione per aggiornare e riformare il progetto urbano non basta più apprendere dagli errori fatti. Dobbiamo correre il rischio di essere consapevolmente fabbricatori di nuove speranze (e forse illusioni), provando a rendere le cose più attraenti con progetti largamente partecipati, comunicati in modo efficace, in grado di suscitare attese diffuse e di attivare una economia di sviluppo sostenibile, magari anche innovativi tecnologicamente.

Come ha ben documentato Piercarlo Palermo con il suo magistrale articolo pubblicato in questo stesso numero di EWT, purtroppo non ci sono in giro molti buoni esempi da cui apprendere e forse neanche la fiducia necessaria da cui muovere. Le stesse riviste internazionali sembrano essere sempre meno interessate al tema, che peraltro occupava uno spazio molto maggiore nella loro fase di avvio. La interessante esperienza di riorganizzazione delle manzanas di Cerdà in superquadras in previsione nella Barcellona contemporanea, presentata in questo numero da Rueda, va nella direzione giusta, ed evoca alcuni tratti del progetto urbano che la nostra rivista EWT sta perorando da tempo. Ma forse non si tratta ancora della nuova città che i barcellonesi sognano, e del resto l’idea proviene dai circoli di architetti e urbanisti ancora assai influenti prima ancora che dai cittadini.

4. Le resistenze da vincere

Per tornare al tema, è sotto gli occhi di tutti la profonda crisi che negli ultimi anni ha investito il progetto urbano, almeno in Italia. La crisi è dovuta in gran parte ad alcuni suoi difetti costitutivi in verità non proprio insormontabili, che abbiamo più volte evocato: l’eccessiva rigidità, farraginosità e formalismo del disegno, aggravati dall’esposizione ad una prolungata recessione economica, che sta scoraggiando gli investimenti urbani a medio e lungo termine su operazioni di elevata consistenza dimensionale e d’inevitabile complessità attuativa; last but not least lo scarso interesse dimostrato dai piani urbanistici.

Il risultato è che questo strumento è diventato sempre meno adatto alla ricerca del consenso immediato della cittadinanza e alle necessità operative delle attuali politiche urbane, sempre più congiunturali e tendenzialmente volte a privilegiare singoli interventi immediatamente cantierabili, non importa se al difuori di una qualsiasi visione d’insieme.

Come si è avuto più volte l’occasione di affermare, il progetto urbano attuale piace sempre meno non solo agli investitori, alle amministrazioni e all’associazionismo locale, ma anche ai costruttori, che non vogliono rischiare troppo e si accontentano di agire in modo più sicuro con piccole quantità da immettere subito su un mercato a crescente volatilità. Per di più molti architetti si dimostrano stranamente compiacenti di fronte a questa pesante mutilazione del ruolo dell’architettura, sublimandone la marginalità con il rilancio ambiguo della poetica del frammento, che a ben vedere spesso può servire a liberare da eccessive responsabilità il progetto, consegnandolo alle gratificanti sperimentazioni disciplinari sul linguaggio e sulle tipologie. Sono su questa linea anche gli urbanisti ortodossi, che da lungo tempo non riescono a risolvere l’annoso dilemma tra piano e progetto, e attanagliati dall’imbarazzo finiscono generalmente per avallare la rinuncia al progetto, pur di mantenere il primato del piano e la sua inverosimile previsione al buio dei progetti attuativi.

Non va trascurato infine il mondo sotterraneo degli operatori, che spesso conduce da un lato ad un insieme di piccole opere da trattare secondo un meccanismo ben collaudato di indicibili convenienze condivise tra imprese e funzionari comunali. E dall’altro lato le grandi opere, che trovano riscontro nell’accordo centralizzato tra partiti e consorzi di grandi imprese. Mentre per i progetti a scala urbana le trattative laboriose tendono a sfociare più raramente in accordi operativi, forse anche a causa del ruolo negativo esercitato dai partiti locali che raramente riescono a mettersi d’accordo per una ripartizione equilibrata degli utili impropri attesi.

Ma insomma il successo dei progetti urbani rimane ancora largamente da riconquistare. La logica del progetto urbano integrato come abbiamo detto è molto impegnativa per tutti, presuppone tra l’altro una consapevolezza culturale e sociale sempre più rara tra gli stessi addetti ai lavori, e la battaglia è ancora tutta da vincere, nelle menti delle persone prima ancora che nei comportamenti degli specialisti, degli agenti economici e delle istituzioni pubbliche. Eppure, si tratta di un passaggio a nostro avviso obbligatorio per rimettere in moto le città e dare senso alle trasformazioni, che certamente impone di ripensare contenuti e forme del progetto urbano praticato correntemente, ma che comunque non induce affatto a revocarne l’attualità ai fini di una trasformazione efficace della città contemporanea.

Del resto, alcuni illuminati studiosi dell’urbanistica come Piercarlo Palermo avevano già rilevato come di fronte alla evidente crisi della urbanistica del piano disegnato alla Secchi e Gregotti sembra restare tuttora inesplorata la prospettiva dei progetti per la città fisica, strettamente coniugata a quella delle politiche di intervento. Le funzioni del progetto urbano possono allora ritornare determinanti, anche al fine di interpretare criticamente il contesto e le sue possibilità evolutive, se occorre anche in relativa autonomia rispetto alle previsioni dei piani vigenti, purché venga assicurata la congruenza rispetto agli obiettivi di fondo assunti democraticamente per il futuro della città come espressi dal piano vigente.

Pur nella oggettiva difficoltà di conciliare criticamente le dimensioni fisiche e morfologiche dei problemi con quelle soverchianti di natura sociale ed economica delle politiche richiamate da Palermo, il progetto dovrà cercare di promuovere dinamicamente forme di sviluppo sostenibile, nei limiti dettati dalla coerenza con le condizioni di contesto e con i legittimi obiettivi di intervento, nonché della effettiva disponibilità degli attori pubblici e privati chiamati in campo dalla trasformazione. Ben sapendo che comunque in assenza di un potere istituzionale solido e determinato, e di una condivisione sociale allargata, il progetto urbano da solo non potrà mai venire a capo realisticamente delle sfide esistenti, ed è destinato inevitabilmente a scivolare lungo la china di una inutile retorica evasiva o di strategie del marketing altrettanto inefficaci.

5. Natura del nuovo progetto a valenza urbana

Nella prospettiva delineata, come abbiamo più volte affermato in passato, per governare processi evolutivi dovrebbe cambiare la natura stessa del progetto urbano ( o meglio, a valenza urbana) per essere in grado di traguardare i mutamenti in previsione senza perdere la propria capacità di indirizzo. Così da proiezione al futuro di prefigurazioni fisiche disegnate rigidamente, in modo assertivo e cogente (come propugnato generalmente dalla modernità classica), il progetto dovrebbe diventare una pluralità di direttive alla scala d’insieme e al tempo stesso uno stimolo operativo morfologicamente determinato, attraverso cui regolare le trasformazioni del contesto. Queste potranno essere preferibilmente autopoietiche e autobilanciate, ma in ogni caso inquadrate in una visione d’insieme, dinamica e adattabile, assunta come riferimento condiviso socialmente per far fronte criticamente al divenire dei molti processi in gioco nel mutamento del paesaggio urbano.

Il progetto a valenza urbana si ridefinisce in questo senso come strategia multi-settoriale, multi-attoriale e trans-scalare, che combina flessibilmente reti infrastrutturali e spazi a elevata qualità morfologica, innescando una varietà di interventi strategici a diversa grana e un insieme di azioni complementari nella prospettiva della qualità complessiva degli assetti fisici e funzionali che rimane il dato ultimo dell’architettura e dell’urbanistica (Clementi, Pozzi, 2015). Tutti gli interventi nel loro insieme dovrebbero insomma essere ricondotti al senso complessivo della trasformazione, provando comunque in generale a migliorare le condizioni di funzionalità urbana e di qualità diffusa del contesto, con l‘offerta di un accesso più egualitario al welfare locale.

Nel costruire la visione della città a cui dovrebbe ispirato il progetto urbano non dovremo tener conto soltanto degli interessi dei promotori dello sviluppo ma soprattutto le attese della popolazione per un futuro migliore, agendo in modo da stimolare volta per volta con il progetto processi sostenibili e partecipati. Resta il dubbio che questa sia la via migliore per elevare anche le condizioni di eguaglianza nell’uso dello spazio cittadino. Ma al momento non sembrano percorribili realisticamente altre strade interne all’urbanistica.

6. Un’idea di città per il futuro

Per evitare un eccesso di discrezionalità dei progetti occorre dunque muovere da una idea condivisa per il futuro della città. Sotto questo profilo la domanda di un ambiente migliore, più equilibrato nel rapporto tra risorse e consumi, potrebbe offrire significative speranze alla popolazione in gioco, meno imposte dirigisticamente dalle istituzioni pubbliche. In particolare, per gli urbanisti il territorio e la città potrebbero essere sempre più interpretati come una combinazione multilivello e interdipendente di ecodistretti dal metabolismo autobilanciato rispetto ai flussi d’ingresso e uscita delle risorse anche energetiche necessarie al loro funzionamento, e rispetto ai cicli di vita che sfruttano al meglio le dotazioni ambientali e territoriali locali esistenti, con il vantaggio di ridurre sensibilmente i consumi esterni nella logica della sostenibilità. La gestione appropriata dei complessi metabolismi ecosistemici che sostengono la città potrebbe contare tra l’altro sulle straordinarie potenzialità delle tecnologie smart a disposizione, con sensori e sofisticati algoritmi disegnati apposta per monitorare e regolare lo stato delle diverse variabili in gioco. Ma dovrebbe rinviare anche al miglioramento dei sistemi di gestione amministrativa affidata al soggetto pubblico, oggi in deplorevole ritardo rispetto alle trasformazioni in corso.

In definitiva la città degli urbanisti da noi perorata verrebbe a configurarsi come combinazione specifica di ecodistretti multilivello, autobilanciati, iperconnessi, identitari e culturalmente qualificati, con i loro caratteri profondamente diversificati in ragione dei mutevoli equilibri tra naturale e artificiale, tra ambiente e storia, tra locale e globale, con un sistema di gestione adeguato alla logica specifica dei progetti. Quindi al tempo stesso una macchina ecologica che riduce drasticamente il consumo di risorse non riproducibili decarbonizzando l’atmosfera ed elevando la qualità dell’ambiente, con la prospettiva di migliorare anche la coesione sociale e di accrescere la produttività economica. Una macchina intelligente, una sorta di grande computer all’aria aperta, che aiuta a razionalizzare le funzionalità di sistema. Ma soprattutto un organismo dinamico ricco di una propria vitale individualità storica che in ogni caso non intende rinunciare affatto alla bellezza e senso dei propri spazi fisici, facendone anzi la ragione ultima del cambiamento (Clementi, 2014).

7. Difficoltà di condivisione

Le difficoltà di questa concezione innovativa della città ecologica e architettonica come common ground su cui far convergere le diverse visioni in gioco appaiono evidenti. Non è soltanto la improbabilità che tutta l’urbanistica e le altre discipline in gioco si riconoscano facilmente in questa immagine di futuro della città fondata soprattutto sulla sostenibilità e sul verde, data la profonda diversità degli approcci esistenti nelle diverse tradizioni di studio e di intervento. È soprattutto la difficoltà indotta dalla sua inevitabile complessità che non la fa essere alla portata immediata del grande pubblico, per diventare il lievito condiviso del futuro. Ad esempio, la nuova città green evocata dalla UE appare come una strategia troppo astratta, dalle valenze eccessivamente ecologiche e finanziarie in considerazione degli ingenti costi che impone. Al tempo stesso la Città Radiosa di Le Corbusier, seppur seducente con le sue prospettive veramente rivoluzionarie, appare poco plausibile nella sua concreta fattibilità sociale, economica ed urbanistica.

È però su questo terreno che forse l’urbanistica può contribuire ad interpretare legittimamente il proprio tempo, ritornando a parlare a tutti per delineare un futuro green che offra qualche ragionevole speranza contro il cambiamento climatico in corso, e che riduca almeno gli sprechi dovuti alla dissipazione delle risorse esistenti e faccia progredire nei tempi possibili il futuro zero carbon prefigurato. Se così fosse, il progetto a valenza urbana risponderebbe ad una sua ragione d’essere inoppugnabile: dovrebbe diventare prima di tutto il veicolo di una trasformazione sostenibile destinata ad espandersi spazialmente al proprio intorno, attivando un meccanismo moltiplicativo di investimenti pubblici e privati alle diverse scale, tutti concorrenti all’obiettivo di uno sviluppo indirizzato all’instaurarsi della città ecologico-architettonica.

Il progetto a valenza urbana favorirebbe in particolare la concentrazione degli sforzi su territori critici, innescando i processi di messa in sostenibilità della città esistente con l’intento di diffonderli progressivamente allo spazio circostante.

8. Le condizioni da assicurare

Gli sforzi di molte città nel mondo impegnate a perseguire seriamente la sostenibilità stanno moltiplicandosi e sembrano già imboccare la direzione giusta. Non è forse il caso di Roma, che nel lanciare i molti interventi puntuali e settoriali in corso per il Giubileo sembra aver dimenticato il suo impegno ufficiale per la sostenibilità globale. Tuttavia, alcune altre città internazionali sembrano aver messo in moto trasformazioni radicali del proprio assetto insediativo nel segno della sostenibilità. Purtroppo, però tendono a prevalere in generale le politiche settoriali, in particolare della mobilità o dell’energia, nell’assenza di un’urbanistica che faccia da legante, promuovendo un ambiente urbano complessivamente più gradevole e salutare, in grado di fronteggiare al meglio i mutamenti climatici in corso e prevedibili.

In questo frangente i sindaci di solito riscoprono il bisogno di agire concretamente per progetti integrati di intervento anziché per piani urbanistici generali. Sono chiamati in particolare a rilanciare le politiche dello sviluppo alle nuove condizioni, considerando la indubbia centralità della questione ambientale ma anche la qualità di vita delle persone, non più succubi alle logiche del mercato immobiliare o delle nuove funzioni smart delle tecnologie digitali, ma interessate soprattutto alla creazione delle capacità individuali e collettive, secondo l’approccio ancora insuperato di Amartya Sen e Martha Nussbaum (1985).

Per migliorare la sostenibilità ambientale, la attrattività complessiva e le potenzialità dello sviluppo di una città può ritornare allora d’attualità il progetto a valenza urbana, purché spogliato dei propri angusti limiti disciplinari (o morfologici o sociali ed economici) e adeguato alle nuove condizioni della trasformazione urbana, come quelle dettate ad esempio dal PNRR.

In particolare, il progetto dovrà diventare il vettore di una politica generale di messa in sostenibilità della città esistente, ma senza trascurare gli obiettivi di qualità delle trasformazioni, quindi anche dei progetti e degli interventi intrapresi. Non sono pochi, infatti, i progetti a valenza urbana che una volta realizzati ci hanno lasciati insoddisfatti per le condizioni fisico-morfologiche generate. Sappiamo che il discorso sulla qualità è ambiguo e sfuggente, e non si presta purtroppo ad essere codificato e garantito normativamente. Tuttavia, lo spostamento dal piano al progetto non può avvenire alle spalle della qualità morfologica, neanche ricorrendo a gare di concorso internazionale spesso dagli esiti deludenti, come dimostra l’esperienza recente di Milano per le aree FFSS. Occorre che il progetto sappia contribuire visibilmente alla qualità dei luoghi, conferendo senso e bellezza alle trasformazioni previste. Come si può fare? Onestamente non lo sappiamo, ed è proprio su questo tema irrisolto che dovrebbero appuntarsi la ricerca e le prossime sperimentazioni, prima di giudicare davvero esaurita l’epoca dei piani urbanistici indeterminati.

Quale che sia la forma del progetto a valenza urbana, dovrebbe comunque essere innovato il sistema di gestione amministrativo, forse anche per venire a capo del meccanismo delle transazioni ombra che oggi sono sottese agli interventi in molte città e metropoli italiane. Forse al momento lo strumento che sembra adattarsi meglio è quello della Struttura pubblica di missione, che peraltro può essere realisticamente applicato solo a pochi progetti di valenza strategica e che comunque di per sé non è garanzia di successo (PNRR insegna). Il problema della qualità dei progetti potrebbe allora essere rinviato utilmente al metodo degli Accordi, anche pubblici-privati, più flessibile e in fondo anche potenzialmente più stringente delle normali procedure.

Questo aspetto cruciale merita di essere approfondito. La evoluzione degli ultimi anni ha portato a procedure nuove e spesso a strutture e mezzi finanziari addizionali, come nel caso Urban e del PNRR. Adesso si tratta di valutare se è il caso di ritornare ai metodi tradizionali, oppure avvalersi di queste esperienze positive fatte per cercare di ammodernare, semplificare e accelerare il cambiamento delle strutture ordinarie. Lo stesso Progetto Urbano non può vivere a lungo in condizioni di eccezionalità, ma deve prima o poi essere riassorbito nelle procedure correnti, imparando dalle esperienze fatte e cercando di trasferirle al funzionamento ordinario dei poteri pubblici. La quantità di progetti urbani ammissibile ne è in qualche modo conseguenza, e spetta al potere politico, ovvero alla amministrazione, fare la scelta, da cui dipenderanno anche i tempi delle azioni in programma e le priorità prefigurate.

9. La formazione degli specialisti

La maggiore complessità del progetto a rilevanza urbana che dovrebbe essere al tempo stesso di natura morfologico-architettonica, ambientale, sociale ed economica sembra inverosimile nel momento che si lamenta la impraticabilità e l’inefficacia dei progetti urbani tradizionali esistenti, assai più semplici da immaginare e gestire. Ma forse il loro fallimento è dovuto proprio alla illusione di poter costringere la trasformazione nella camicia di forza dell’urbanistica tradizionale, con le sue pretese velleitarie di imporre bellezza e senso degli spazi al buio dei processi economici, sociali e ambientali in gioco. Forse il superamento di una visione meramente oggettuale dei singoli interventi potrebbe diventare ancora possibile, riportando il confronto al senso complessivo della trasformazione auspicata.

È pur vero che non esistono oggi figure disciplinari in grado di affrontare in modo globale e integrato i problemi della trasformazione urbana. Ci vorrebbe forse una figura di mediazione tra il planner e il designer, cioè un urbanist in grado di operare nella terra di mezzo tra l’architetto e il planner (Palermo, 2022). Più in generale la nuova figura di urbanist sarebbe chiamata ad impostare il progetto nella sua duplice natura di politica d’intervento e di configurazione fisica degli spazi. Forse, più riduttivamente, non una figura che risolve tutti i passaggi dalla ideazione alla realizzazione e gestione, ma che almeno sappia avviare nel modo giusto il progetto, contemperando le molteplici dimensioni in gioco e adeguandolo alle politiche possibili.

Questa figura non viene prodotta oggi né dalle scuole di architettura e di ingegneria, né dalle altre scuole in gioco. Forse è proprio da qui che dovrebbe partire concretamente la riforma del progetto urbano, coinvolgendo nel programma di studi le discipline urbane, economiche, sociologiche e ambientali con la partecipazione diretta dei developers, degli operatori finanziari e dei costruttori.

Questo EWT30

Le riflessioni accumulate in circa dieci anni di attività della rivista, riassunte parzialmente dal contributo del redattore capo Angelucci e della Di Girolamo, possono essere utilizzate come le nostre indicazioni conclusive per la riforma del Progetto Urbano in Italia. Le direzioni dell’innovazione ci sembrano a nostro avviso ormai tracciate e c’è adesso da passare alla sperimentazione rivolgendoci soprattutto a due interlocutori principali: lo Stato centrale e i Comuni. Lo Stato nella duplice accezione della Commissione europea e delle Regioni, le quali devono diventare partners convinte per facilitare l’innovazione prefigurata piuttosto che ostacolarla per ragioni di potere; ed i Comuni che devono mettere in opera le azioni prefigurate e concertate senza distorcerle per propri fini clientelari e convenienze politiche particolari.

A ben guardare, è un po’ il modello dei Prusst lanciato più di dieci anni fa dal nostro ministero delle Infrastrutture nella sua formulazione originaria. Si pensava allora che una nuova opera infrastrutturale dovesse essere assunta come “attivatore di contesto” in grado di suscitare e portare a coerenza un insieme di progettualità pubbliche e private, grandi e piccole, per imprimere effetti di sviluppo al contesto territoriale, in coerenza con gli obiettivi ambientali, economici e sociali, e pianificatori alla base del progetto. Poi la sua applicazione è stata distorta da ragioni contingenti portate dagli imprenditori con i comuni spesso compiacenti che hanno stravolto gli intenti originari ai quali credo che dovremmo tutti ritornare.

In particolare, Piercarlo Palermo istituisce lo sfondo delle innovazioni necessarie per la confluenza dell’urbanistica e delle public policies, con l’ipotesi che anche in Italia sia oggi possibile introdurre una nuova figura disciplinare da cui può dipendere la praticabilità stessa del Progetto urbano.

È questa una innovazione sostanziale, che contribuisce in modo decisivo al cambiamento di statuto del progetto urbano, facendolo diventare un importante strumento per lo sviluppo locale più che un disegno fisico del mutamento.

Arturo Lanzani rilegge la complessa evoluzione dal piano al progetto in Italia alla luce delle proposte di innovazione di Luigi Mazza, che ha aperto nuove prospettive con cui diventa possibile oltrepassare le contrapposizioni tradizionali a favore di una concezione più articolata dei momenti di regolazione, progettazione e indirizzo strategico che compongono il piano. La interpretazione di Mazza è stata messa alla prova a Milano, studiata tra l’altro nel numero 20 di EcoWebTown e approfondita criticamente in seguito da Lanzani.

Pepe Barbieri affronta l’altro nodo rimasto finora irrisolto, la qualità dei progetti e il ruolo stesso dell’architettura. Per la verità la garanzia di qualità richiede una innovazione delle procedure correnti di problematica fattibilità, data anche la scivolosità intrinseca del tema. Tuttavia, è la condizione indispensabile per fare progetto con l’obiettivo di contribuire al miglioramento della qualità urbana, mantenendo il tema il più possibile all’interno del suo ambito di provenienza storica.

Gaetano Fontana riflette sulle condizioni necessarie per innovare la gestione dei progetti, pur con la sua sfiducia condivisibile nei confronti della situazione attuale di totale depauperamento delle capacità delle amministrazioni pubbliche sia a livello centrale che locale. Emerge una interessante assonanza di fondo con la posizione di Sabino Cassese espressa nel suo recente editoriale di Corsera dell’11 gennaio ’25, pubblicato in contemporanea con questo numero della rivista. In fondo questa è anche la posizione di EcoWebTown nel trattare un aspetto determinante della teoria del nuovo Progetto Urbano che ispira la nostra rivista e che attribuisce una notevole importanza ai problemi della fattibilità amministrativa.

Mosè Ricci (che insieme a Palermo ha contribuito alla impostazione del numero) e l’esperienza di Barcellona riportata di seguito dimostrano che in realtà i tempi sembrano ormai maturi per tentare in Europa le innovazioni indispensabili alle nuove pratiche, purché si adotti un approccio più sperimentale e meno condizionato dalla rigida riproposizione dei modelli tradizionali. In una prospettiva dello sviluppo non più degenerativa (che consuma l’energia e i materiali estratti) ma rigenerativa (capace di riciclare energia e materiali, coltivando la ricchezza delle relazioni sociali) potrebbe allora affermarsi un nuovo paradigma progettuale. Le relazioni architettoniche, urbane, paesaggistiche e territoriali potrebbero convergere in una visione olistica della trasformazione commisurata specificamente ad ogni contesto, avendo rinunciato alla pretesa di regolare tutto anche al di fuori degli obiettivi strategici perseguiti.

Il panorama di luci e di ombre che emerge testimonia le serie difficoltà che s’incontrano nella revisione dei modelli e delle pratiche correnti. Ma a ben vedere non c’è alternativa, se si vuole che l’architettura e l’urbanistica continuino ad esercitare una funzione positiva nel cambiamento delle città, scuotendosi dalla condizione di irrilevanza in cui sono precipitate nell’ultimo mezzo secolo.